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30 aprile 2018

 

Usa-Iran e Ue: i perché di una crisi

di Annalisa Perteghella e Tiziana Corda

 

Mentre tornano a crescere le tensioni in Siria con un attacco missilistico che avrebbe colpito anche numerosi soldati iraniani, per l’Iran comincia un altro conto alla rovescia. Entro il prossimo 12 maggio il presidente Usa Donald Trump dovrà infatti decidere se rinnovare o meno il sostegno americano all’accordo sul nucleare con l’Iran.

 

Contestualmente, dovrà anche decidere se rinnovare o meno la sospensione delle sanzioni secondarie statunitensi verso Teheran, ovvero le sanzioni volte a impedire a parti terze di fare affari con l’Iran. Quali sarebbero le implicazioni di un mancato rinnovo della sospensione a livello regionale internazionale? Quali le ricadute sulle relazioni transatlantiche, considerato che l'Europa ha più volte ribadito la necessità di preservare l’accordo e di mantenere una politica di engagement verso Teheran? Questo Focus è il primo di una serie di approfondimenti ISPI su origine, ragioni e possibili scenari della crisi.

 

Cosa chiede Trump?

Il 12 gennaio, in occasione dell’ultimo rinnovo delle sospensioni delle sanzioni secondarie relative al nucleare iraniano, Donald Trump aveva lanciato un ultimatum a Francia, Regno Unito e Germania – gli alleati europei che sono parte dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) – chiedendo loro di lavorare in questi mesi per apportare precise modifiche all’accordo, pena il non rinnovo da parte Usa della sospensione delle sanzioni prevista dall’accordo stesso. Trump non ha mai fatto mistero di ritenere che il JCPOA porti più benefici all’Iran che agli Usa, né ha mai celato l’intenzione di modificarlo o stralciarlo (fix it or nix it), come suggeritogli dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Per scongiurare l’uscita degli Usa dall’accordo, Trump ha imposto agli europei tre condizioni: la rimozione delle limitazioni temporali e geografiche alle ispezioni di qualsiasi sito nucleare (ma anche militare) iraniano, l’introduzione di nuove sanzioni sul programma missilistico iraniano, l’estensione della durata delle limitazioni al programma nucleare iraniano previste dall’accordo. Oltre a queste richieste specifiche, Trump ha anche chiesto un intervento più energico contro le attività di Teheran in Medio Oriente, che secondo gli Stati Uniti sono la principale causa di instabilità nella regione.

 

Usa-Iran: una rottura evitabile?

La posizione espressa da Trump nei confronti dell’Iran non è affatto estranea al pensiero di gran parte dell’establishment politico statunitense: il solco tra i due paesi aperto dalla crisi degli ostaggi del 1979, nei primi mesi della rivoluzione iraniana, si è negli anni ulteriormente allargato. L’opposizione alla Repubblica islamica è stata un elemento che ha accomunato le amministrazioni sia repubblicane sia democratiche, esattamente come in Iran permane – almeno a livello di retorica di governo, molto meno nella società – l’opposizione agli Usa che trova una delle sue principali manifestazioni nello slogan “morte all’America”.

 

Ciononostante, nel 2015, tra i due paesi sembrava essersi aperto uno spiraglio di dialogo. Acconsentendo per la prima volta nella storia a riconoscere il diritto iraniano all’arricchimento dell’uranio, gli Usa avevano fatto cadere uno dei principali ostacoli che per anni avevano tenuto in ostaggio il negoziato sul nucleare. In Iran, nello stesso momento, il prevalere di una linea politica pragmatica ha portato il paese ad accettare lo stop quasi completo alle sue attività di sviluppo nucleare, un compromesso difficile da far accettare alle componenti più radicali del complesso sistema di potere iraniano.

L’avvicendamento tra Barack Obama e Donald Trump alla Casa Bianca, nel gennaio 2017, ha determinato la chiusura di questo spazio di dialogo e il ritorno alla tradizionale politica statunitense di opposizione all’Iran. Questo, unito alla volontà più volte esplicitata da Trump di rovesciare l’eredità obamiana, e al suo graduale circondarsi di figure sempre più ostili all’Iran (per esempio il Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e il Segretario di Stato Mike Pompeo), ha portato il presidente Usa a formulare richieste sempre più severe ma non sempre evidenti.

 

Le modifiche all’accordo sul nucleare iraniano richieste da Trump presentano diversi punti deboli. Nel caso delle critiche al programma missilistico iraniano, esse esulano dal campo d’applicazione dell’accordo, che non riguarda i missili balistici, a prescindere dall’attendibilità o meno delle rassicurazioni iraniane sulla natura difensiva e sul limite di gittata del proprio programma missilistico. Nel caso delle ispezioni nucleari e della durata delle disposizioni, le critiche sono invece attinenti al contenuto dell’accordo, ma fragili in diversi punti. Nel primo caso, il regime d’ispezione creato per l’Iran è già tra i più rigidi al mondo e la stessa Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha più volte certificato come finora l’Iran abbia sempre consentito l’ingresso dei suoi ispettori in ogni sito richiesto. Inoltre, con l’inizio dell’implementazione dell’accordo, il numero delle ispezioni è aumentato rispetto agli anni precedenti, a dimostrazione di come il JCPOA garantisca un monitoraggio più approfondito rispetto a quanto si potrebbe ottenere in sua assenza. Per quanto riguarda invece la durata delle disposizioni dell’accordo, occorre anzitutto ricordare che è norma consolidata negli accordi di non proliferazione negoziare dei limiti temporali. Anche nel JCPOA vi sono quindi disposizioni con diversa durata e a partire dal 2026 alcune di queste non saranno più implementate. Ciononostante, il monitoraggio dell’AIEA dei siti nucleari iraniani stabilito dal Protocollo Aggiuntivo e la rinuncia di Teheran allo sviluppo di armi nucleari come previsto dal Trattato di Non Proliferazione di cui è parte dal 1970 e dallo stesso preambolo del JCPOA, continueranno a tempo indeterminato.

 

Il punto di vista iraniano

Dall’avvio dell’implementazione dell’accordo nel gennaio 2016, l’AIEA ha confermato per 10 volte la corretta implementazione dell’accordo da parte dell’Iran. Teheran rivendica il fatto che a fronte dell’assenza da parte sua di violazioni dell’accordo, gli Usa non hanno adempiuto agli obblighi previsti dal piano d’azione congiunto. L’accusa rivolta dall’Iran agli Usa è quella di aver violato lo spirito e la lettera del JCPOA, nello specifico l’articolo 29 dell’accordo, in base al quale “l’Unione europea, i suoi stati membri e gli Stati Uniti si impegnano ad astenersi dal mettere in pratica azioni tese a impedire la normalizzazione delle relazioni economiche e commerciali con l’Iran”.

 

Nella continua minaccia di reintroduzione delle sanzioni da parte Usa, l’Iran vede un tentativo di alimentare il clima di incertezza che di fatto scoraggia la ripresa delle relazioni economiche, impedendo dunque la loro normalizzazione.

 

Anche la decertificazione dello scorso ottobre, eseguita da Trump in nome dell’interesse nazionale, non si allinea secondo l’Iran allo spirito dell’accordo, dal momento che da parte iraniana non era stata compiuta alcuna violazione. A questo riguardo, l’Iran ad oggi ha presentato 11 reclami informali alla Commissione congiunta del JCPOA presieduta dall’Alto Rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, senza però mai giungere ad attivare il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dall’articolo 36 dell’accordo. Al momento a Teheran prevale la linea attendista, anche se nelle ultime settimane è cresciuta l’asprezza retorica delle dichiarazioni ufficiali, tese a mettere in guardia il presidente Usa dalle conseguenze negative di una eventuale decisione di far naufragare l’accordo.

 

Cosa pensa l’Europa

In vista del 12 maggio, negli ultimi mesi Francia, Regno Unito e Germania (EU3) hanno intensificato gli incontri diplomatici con Washington per scongiurare l’uscita degli Usa dall’accordo e la conseguente reintroduzione delle sanzioni secondarie. L’Unione europea è contraria a qualsiasi rinegoziazione o modifica del JCPOA, ma dopo l’ultimatum di Trump del 12 gennaio sono stati costituiti due gruppi negoziali per salvare l’accordo.

Gli EU3 insieme agli Usa hanno creato un gruppo di lavoro per identificare possibili misure che rispondessero alle richieste di Trump, mentre insieme all’Italia hanno costituito un altro gruppo di contatto volto a dialogare con l’Iran su un ampio spettro di argomenti, inclusa la politica regionale di Teheran. Ad oggi nessuna intesa è stata raggiunta con gli Stati Uniti, e anzi il presidente francese Emmanuel Macron, come già la Cina e la Russia, dopo la sua visita di stato a Washington, ha ribadito che non esiste alcun piano B al JCPOA.

 

Nel tentativo di convincere Trump a rimanere parte dell’accordo sul nucleare, alcuni paesi europei sembrano però aperti all’introduzione nuove misure sanzionatorie contro individui iraniani legati al programma missilistico di Teheran o al suo sostegno ad Assad in Siria. Tuttavia, all’interno del fronte europeo si è fatta sempre più esplicita la contrarietà di alcuni paesi, tra cui l’Italia, a queste misure, perché se non è detto che riescano a convincere Trump a rimanere nell’accordo, esse potrebbero invece di alienare il consenso interno allo stesso Iran circa la permanenza del paese nell’accordo. Sempre nel quadro degli sforzi europei per garantire la sopravvivenza del JCPOA, la scorsa settimana il presidente francese Emmanuel Macron (23-25 aprile) e la cancelliera tedesca Angela Merkel (27 aprile) si sono recati a Washington anche per affrontare il tema direttamente con il presidente Usa. Macron ha invitato Trump a considerare l’ipotesi di un nuovo accordo con Teheran che ampli il JCPOA comprendendo anche la questione della durata dell’accordo, le attività militari regionali di Teheran, e il suo programma missilistico. Il presidente francese ha però poi ammesso che con ogni probabilità gli sforzi di convincere Trump sono falliti e che il presidente statunitense “uscirà dall’accordo per motivazioni di politica interna”.

 

Alla radice dell’ampia frattura nel fronte occidentale sulla gestione del dossier iraniano vi sono visioni diverse sullo status dell’Iran dopo la firma dell’accordo. Se Washington da tempo persegue una strategia di minimizzazione dei benefici economici che l’Iran può trarre dal JCPOA, proprio perché non vi è interesse a legittimare la Repubblica islamica (anzi molti esponenti politici Usa parlano apertamente di regime change), l’Unione europea desidera consolidare i rapporti con l’Iran tanto dal punto di vista commerciale – nonostante questi rappresentino oggi una parte minima del commercio totale dell’UE (lo 0,6% nel 2017) – quanto dal punto di vista politico, riconoscendo Teheran come interlocutore imprescindibile per la risoluzione delle crisi mediorientali.

 

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