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venerdì 20 aprile 2018 

 

Tonino e Mazzolari. La pace come questione di fede

di Stefania Falasca 

 

Tra don Bello e Mazzolari c'è un legame nel segno della Chiesa «ministra di non violenza». Per entrambi la scelta dei poteri e il no alla guerra erano essenza del Vangelo

 

«Non si può tenere il piede in due staffe. Non possiamo accettare che la guerra sia definita “sempre ingiusta” e poi ritenerla “inevitabile”. La guerra è il fine tenacemente perseguito da bande, cricche e cosche che vedono nella pace una minaccia per i loro profitti». Colpiscono per la lucidità queste affilate affermazioni del vescovo di Molfetta, Tonino Bello, pronunciate al tempo della guerra del Golfo. Colpiscono per l’attualità, considerato oggi anche il permanere della perversa situazione di guerra in Siria che continua con il coinvolgimento diretto delle grandi potenze, e che - come ha osservato il Papa lo scorso 15 aprile - «nonostante gli strumenti a disposizione della comunità internazionale», faticano a «concordare un’azione comune in favore della pace». Dopo la guerra del Golfo, la guerra esplosa nell’ex Jugoslavia tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, condizioneranno molto l’impegno pastorale di don Bello, evidenziando il suo carisma profetico e la sua molteplice attività a difesa della pace. La sua storia e quella di Pax Christi, di cui è stato presidente per otto anni, non può essere considerata che parte integrante della storia profonda dell’Italia, perché vive nella Costituzione, nel cuore dell’annuncio evangelico ed è magistero di pace della Chiesa, seppure allora scarsamente compreso dalla gerarchia e da certi ambienti clericali. 

Nel mattatoio di Sarajevo si rese conto con grande dolore dell’indifferenza, anzi dell’irrisione diffusa in Italia per imprese non violente ritenute inutili. «Che strazio ascoltare la domanda di armi – scrive in “Convivialità delle differenze” –. Del resto chi vive sempre nella violenza difficilmente può immaginare strade nuove. Generazioni intere immerse nelle guerre non vedono altro che la loro continuazione… la non violenza deve essere praticata a ogni livello come difesa disarmata e strumento di soluzione dei conflitti. Per rifiutare la schiavitù della guerra è necessario diventare tessitori di rapporti umani, ricompositori dei piatti sbilanciati della giustizia, non i garanti del disordine legalizzato. I sarti del mantello del diritto, non gli industriali delle divise militari. Purtroppo gli esperti del facile scetticismo sono anche gli indifferenti al dolore dei poveri alla solidarietà, estranei alla ricerca della giustizia».

Per don Tonino la pace non è tanto un problema morale, quanto di fede. Perché, più che il nostro agire, tocca il nostro essere di persone “conformate a Cristo” in profondità. La pace per lui coincide con la struttura dell’esistenza cristiana e con il piano salvifico di Dio. Si radica addirittura nella Trinità. «“Pace a voi” è la prima parola del Risorto. La Chiesa deve tenerne conto. Le prime parole del Risorto – rileva in “La speranza a caro prezzo” – vanno accolte con tutta l’attenzione che si deve ai manifesti programmatici». Per questo «la pace non è un merletto che si aggiunge all’impegno della Chiesa, bensì il filo che intesse l’intero ordito della sua pastorale. Non è una delle mille cose che la Chiesa evangelizza. Non è uno scampolo del suo vasto assortimento… 

Se è vero, come dice San Paolo che “Cristo è la nostra pace”… sollecita a vivere nella Chiesa lo shalom biblico e a far aprire gli occhi alla gente sulle tristissime situazioni di non pace». «Shalom è l’unica parola per la quale siamo abilitati a parlare con forza – afferma – il Vangelo è così chiaro sulla non violenza attiva, che non si possono operare sconti sul prezzo del paradosso». Sono di conseguenza «interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nei Sud del mondo, e distruzione dell’ambiente naturale». 

Alla fonte del Vangelo il vescovo di Molfetta unisce altre testimonianze di riferimento che vedono, insieme al salvadoregno arcivescovo martire Óscar Romero, un autore verso cui la sintonia ideale ed ecclesiale è costante: Primo Mazzolari, la cui statura è stata ripresentata da papa Francesco con la visita alla sua tomba quasi un anno fa. È il Mazzolari del “Tu non uccidere”, scritto sui carboni ancora ardenti dell’ultima guerra mondiale e che lega indissolubilmente la giustizia alla pace – perché la guerra non è solo bombe ma l’esistenza di un «violento sistema economico che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri» – e che indica la scelta dei poveri e della non violenza come essenza del Vangelo e come necessità storica. È pertanto proprio su questo filone ecclesiale attento e sensibile ai motivi congiunti e decisivi della povertà e della pace, che Mazzolari e Tonino Bello sono veri e propri «padri della Chiesa», della Chiesa di Cristo «nostra pace», ministra di non violenza, e che li vede, al tempo stesso, maestri civili di nonviolenza attiva. Entrambi hanno annunciato il magistero di pace della Chiesa indicando una teologia e una prassi di nonviolenza come messaggio profondo del Vangelo di Cristo, sostanza profonda della civiltà umana e impegno primario per tutti. Seppure quindi le loro esperienze sono diverse, svolte in realtà geografiche e in epoche storiche differenti, sono plasmati da una stessa profezia della pace come beatitudine evangelica, come shalom, pienezza biblica. A unificarli è il Concilio Vaticano II. Mazzolari lo anticipa e lo prepara tra ostili incomprensioni e condanne ecclesiastiche, Tonino Bello lo incarna e lo sviluppa contrastato da veleni politici e da tante letali ipocrisie clericali. «La cosa che mi fa più soffrire è vedermi delegittimato come pastore», dirà nella Messa Crismale del 1991. «Ma cosa c’è di strano che un vescovo parli di giustizia, di nonviolenza attiva, di solidarietà fraterna – replicava a chi lo accusava di demagogia – non è forse Gesù stesso che ci chiama a destabilizzare le strutture di peccato di questo mondo?». 

I titoli dei messaggi negli anni del suo episcopato sono eloquenti, da “La pace, dono di Dio affidato agli uomini” (1982) fino a “Se cerchi la pace, va’ incontro ai poveri” (1993) un canovaccio scomodo di un programma pratico di vita. Con l’impegno precursore dei tempi del vescovo presidente di Pax Christi la pace non violenta è diventata non un pacifismo astratto ma la scoperta del genoma della dignità umana, il grembo del nostro conoscersi-riconoscersi. In questa prospettiva risuonano molti accenti che conducono oggi alla ricerca della soluzione costruttiva della riconciliazione, dell’unità nella molteplicità, della “convivialità delle differenze” – come dice il vocabolario toniniano – per contrastare i venti di guerra. Denunciare così il circuito perverso dei mercanti di morte e allo stesso tempo andare avanti come veri cristiani sul sentiero delle Beatitudini coniugando insieme realismo, profezia e parresia, fedeltà e creatività è il magistero rivissuto nello stile di papa Francesco che oggi viene pellegrino alla sua tomba. Perché don Tonino Bello non è solo contemporaneo, viene incontro dal futuro.

 

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