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22 mag 2018

 

Dall’Irlanda l’appello ai movimenti di base

di Angela Gissi

 

Dublino, 22 maggio 2018, Nena News –

 

Nel maggio del 1916, mentre in Irlanda gli inglesi giustiziavano James Connolly, leader socialista irlandese e attivista per la liberazione dell’Irlanda dal colonialismo britannico, la Francia e l’Inghilterra sancivano l’accordo Sykes-Picot che avrebbe segnato la storia contemporanea del Medio Oriente.

A coincidere con il centoduesimo anniversario dell’esecuzione di James Connolly, quest’anno c’è stata l’apertura della conferenza ‘Libertà per la Palestina e superamento dell’incessante Nakba’. L’evento si è svolto nel teatro del Liberty Hall, sede del sindacato Siptu (Services, Industrial, Professional and Technical Union) e luogo simbolo della lotta irlandese contro il dominio inglese, prima, e per i diritti dei lavoratori poi. Tra gli ospiti, per la gran parte palestinesi, hanno partecipato personalità di spicco del movimento internazionale di solidarietà per l’autodeterminazione, la libertà, la giustizia e i diritti del popolo palestinese.

Si è trattata di un’occasione per riflettere sui settant’anni della Nakba, la ‘catastrofe’, termine con il quale i palestinesi chiamano la pulizia etnica operata dalle forze sioniste in Palestina che portò all’espulsione di oltre 750mila palestinesi dai loro villaggi e alla creazione dello Stato di Israele nel 1948. Una fase buia della storia palestinese e dell’umanità intera che né è cominciata né si è conclusa. Come ha raccontato Haneen Zoabi, deputata palestinese della Lista Unificata presso il parlamento israeliano della Knesset, “i sionisti avevano un progetto, quello di addomesticare i palestinesi dandogli una nuova identità, una nuova geografia di riferimento, riscrivendo la loro storia e giudaizzando la Palestina”. Così hanno negato l’esistenza dei palestinesi a dispetto della loro presenza, ormai costretti a vivere su un territorio pari solo al 2o,3% di ciò che una volta era la Palestina.

All’interno della società israeliana c’è chi però non cede all’indottrinamento storico promosso dal governo sionista. Eitan Bronstein Aparicio, israeliano del De-Colonizer Research and Art Laboratory for Social Change e co-fondatore di Zochrot, è proprio uno di quelli che si sforzano di ridare legittimità al popolo palestinese in un contesto ostile e di negazione. Durante il suo intervento, Bronstein Aparicio ha illustrato un’iniziativa di commemorazione e ‘riconoscimento’ della Nakba palestinese condotta dalla sua organizzazione nel 2016 ad occasione della festa della fondazione dello stato di Israele.

Agli israeliani in festa per le strade di Tel Aviv veniva chiesto se fossero disposti ad appiccicarsi addosso un adesivo che recitava ‘te la sentiresti di ammettere che la Nakba coincide con il giorno dell’indipendenza israeliana (e portarti addosso questa responsabilità)?’ Come si vede nel video-clip girato all’occasione, l’iniziativa non ha riscosso molto successo e ha suscitato diverse reazioni tra i passanti, come chi dice “ogni storia ha due versioni” o chi definendosi di sinistra argomenta “va bene che siamo di sinistra ma non esageriamo adesso”.

Testimone oculare della Nakba è stata Mazyounah Abushrour, l’anziana donna che ha raccontato la sofferenza delle famiglie dei detenuti attraverso la storia di suo figlio Nasser, condannato da anni al carcere per aver ucciso un soldato israeliano. Sulla questione è intervenuta Sahar Francis, direttore di Addameer, l’associazione per il sostegno dei prigionieri palestinesi e dei diritti umani. Francis ha parlato delle continue violazioni che avvengono nelle carceri israeliane contro i detenuti palestinesi, di cui migliaia sono minorenni.

Per contrastare le attività di protesta di molti prigionieri contro questi abusi ed evitare di intaccare ulteriormente la propria reputazione a livello internazionale, Israele ha adottato varie misure. Per esempio, dal 2015 è stata legalizzata l’alimentazione forzata per i detenuti che rischiano la morte a causa della loro scelta di praticare lo sciopero della fame. Inoltre, Israele si avvale largamente della prassi della detenzione amministrativa, il provvedimento di incarcerazione senza processo, in teoria giustificato da questioni legate alla sicurezza. Questo, ha detto Francis, dimostra come “per Israele la violazione dei diritti umani è diventata una pratica essenziale per mantenere l’occupazione”.

Rifiutando la logica dei diritti elargiti sotto forma di beneficienza, Omar Barghouti, attivista per i diritti umani e co-fondatore del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), ha discusso della necessità che i governi di tutto il mondo si impegnino a rispettare gli obblighi sanciti dal diritto internazionale verso i palestinesi e a prendere provvedimenti legali affinché Israele non continui ad “ubriacarsi” di impunità. Secondo Barghouti, “il diritto umano primordiale è proprio quello di avere diritti ma per far sì che questi vengano riconosciuti e rispettati è necessario restare uniti, perchè solo così si potrà prevalere”.

In riferimento al comportamento degli Stati europei verso i crimini e le violazioni israeliane, Barghouti ha espresso un giudizio molto spassionato dicendo che “l’Unione Europea ha elevato la sua ipocrisia al livello di arte”. Infatti, la Ue ha sanzionato quasi tutti gli Stati del mondo, ma mai Israele. Barghouti ha sostenuto con fermezza l’idea che attraverso il ricorso al diritto internazionale si può provare a dimostrare che Israele è uno stato di apartheid e spingere la Ue e altri stati a non continuare a sostenere i suoi crimini.

Questo è stato anche uno dei capisaldi del discorso del Dr. John Reynolds, professore di diritto internazionale all’università di Maynoooth in Irlanda, il quale ha oltretutto sottolineato il fatto che “non possiamo aspettare che l’applicazione del diritto internazionale avvenga per semplice volontà di coloro che siedono nei ruoli di potere”. Data la complicità della Ue nei crimini perpetrati da Israele bisogna far sì che siano i singoli Stati a prendere l’iniziativa contro gli orrori sionisti. Ma perché questo avvenga, ha ribadito Dr. Reynolds, “è necessario che ci si organizzi dal basso e che le organizzazioni non governative, i sindacati e altri organismi indipendenti esercitino una forte pressione sulle istituzioni”.

A chiusura della conferenza l’intervento dell’ospite d’onore Ali Abunimah, giornalista e co-fondatore del sito di informazione sulla Palestina Electronic Intifada, ha lasciato il pubblico carico di speranza. Abunimah ha parlato di come i fondi per la ricerca europei ai quali anche noi cittadini contribuiamo confluiscano nelle casse dello Stato d’Israele per finanziare la sua industria militare. Un’opera di sensibilizzazione profonda e costante sul sistema di oppressione al quale sono sottoposti i palestinesi parte oggi come non mai dalla promozione del boicottaggio di Israele, “un’arma molto potente”, ha asserito Abunimah, che può riuscire a delegittimare l’operato di Israele e fargli pagare il prezzo degli abusi e dei crimini commessi contro il popolo palestinese. Abunimah ha esaltato il supporto che l’Irlanda ha mostrato nei confronti dei palestinesi.

Grazie all’attivismo di molti irlandesi nella campagna di solidarietà per la Palestina, l’Irlanda è considerato il paese europeo più ostile ad Israele, come ricordato orgogliosamente anche da Fatin Al-Tamimi, presidente palestinese dell’Ipsc.

L’augurio che un futuro di giustizia possa davvero avverarsi in Palestina è giunto anche da Mona El Farra, direttrice del Gaza Projects of the Middle East Children’s Alliance, che ha affermato che Israele non riuscirà mai a piegare la volontà dei palestinesi di lottare per la libertà e che fino a quando ci sarà uno stato di occupazione ci sarà anche resistenza.

Come spiegato da Lubnah Shomali, rappresentante di Badil Resource Center for Palestinian Residency and Refugee Rights, ai palestinesi diventati rifugiati in varie parti del mondo e ai loro discendenti viene negato dallo Stato di Israele il diritto di ritornare nei territori storici della Palestina a dispetto della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del dicembre 1948 che stabilì il ritorno dei profughi palestinesi alla propria terra d’origine. È in nome della loro resistenza che a partire dal 30 marzo 2018, data in cui è ricorso il 42° anniversario della ‘Giornata della Terra’, i palestinesi sotto assedio a Gaza hanno intrapreso la marcia del ritorno che in poco più di un mese e mezzo è costata la vita a 112 persone e causato migliaia di feriti.

Sebbene questi dati non lascino spazio a prospettive immediate di pace, l’impunità di cui continua a godere Israele fa da catalizzatore di dissenso popolare transnazionale. Come ribadito da Zoabi, “il sogno di libertà e la necessità di ogni singolo individuo di sentirsi al sicuro non sono negoziabili e non possono essere opposti. […] In virtù di questo i palestinesi non possono arrendersi. Anzi, tutti noi, palestinesi e non, dobbiamo imparare dalla determinazione, o ‘sumud’ in arabo, degli abitanti di Gaza, ancora oggi sottoposti ad un feroce ed illegale assedio”. Nena News

 

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