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14/07/2018

 

A settant’anni dall’inizio dell’esodo dei palestinesi dalla loro terra 

di Renato Caputo

 

La prima “fasulla” guerra arabo-israeliana sancisce l’inizio dell’espulsione forzata dei palestinesi dal loro paese.

 

Nel 1948, dopo tre decenni di dominio sulla Palestina, quando gli inglesi decisero che era giunto il momento di abbandonare questa terra al suo tragico destino, avevano favorito la penetrazione e il successivo dominio dei sionisti, più di quanto questi ultimi avessero neanche immaginato di poter ottenere con i propri sforzi. Al momento della loro occupazione della Palestina, nel 1917, il numero degli abitanti ebrei era di appena 50.000, al momento del ritiro tale numero era aumentato di dieci volte, raggiungendo il mezzo milione. La stessa data del ritiro inglese fu anticipata di un giorno, al 14 maggio del 1948, perché il pianificato 15 maggio cadeva nel giorno del Sabbath ebraico, in cui i fedeli debbono ridurre le proprie attività al minimo. Ciò consentì a Ben Gurion, a capo della comunità ebraica in Palestina, di proclamare quel giorno stesso la nascita dello Stato ebraico, per la realizzazione del quale i sionisti avevano operato da anni, con ogni mezzo necessario, pianificando nel modo più accurato possibile il conseguimento del loro principale obiettivo.

Secondo lo storico israeliano A. Shlaim, la narrazione ufficiale sionista secondo cui “i palestinesi andarono via di loro volontà sperando in un trionfale ritorno, o furono indotti alla fuga dai loro leader, per lasciare spazio all’intervento degli eserciti arabi” è assolutamente inattendibile dal punto di vista storiografico. Anzi, a suo avviso, “troppi storici si limitano ad analizzare solo la parte ufficiale”, la cosiddetta prima guerra araba israeliana, tuttavia, prosegue Shlaim, “il collasso della Palestina avvenne realmente nella prima metà del 1848” [1], ossia prima dell’inizio ufficiale del conflitto. “La metà dei palestinesi rifugiati – sottolinea a questo proposito un altro grande storico israeliano, I. Pappe – “erano già stati espulsi dalle loro case nel maggio 1948. Perciò si può affermare che su 530 villaggi palestinesi, che furono distrutti nel corso della Nakba, la metà erano stati già distrutti prima del 15 maggio 1948” quando, ultimato il ritiro dell’esercito britannico, inizia la prima guerra arabo-israeliana.

Più in generale, “quella della pulizia etnica – ha osservato a ragione Pappe – è un’ideologia che mira a fare piazza pulita di un gruppo etnico nella sua interezza dal posto in cui vive”. In effetti, ancora prima del ritiro delle truppe britanniche, i sionisti avevano preso possesso di cinque città della zona assegnata dall’Onu ai palestinesi e distrutto circa duecento villaggi. Questi ultimi erano generalmente circondati su tre lati dai sionisti per indurre, dopo le prime stragi, i civili arabi superstiti a fuggire nella direzione voluta dagli occupanti. In tal modo i palestinesi erano indotti ad abbandonare tutto e a cercare rifugio nei paesi arabi confinanti. Tanto più che i civili palestinesi maschi, che non si davano alla fuga, erano rinchiusi dai sionisti in dei campi di prigionia, in cui una parte veniva immediatamente passata per le armi per intimidire gli altri. Venne così sistematicamente prodotta la crisi dei rifugiati. Come ha evidenziato lo storico israeliano, T. Katz, molto spesso i sionisti che occupavano un villaggio, “catturavano una decina di giovani del villaggio per ucciderli con una pubblica esecuzione, per indurre il resto degli abitanti alla fuga. Se non era abbastanza ne catturavano e uccidevano altri”. In tal modo, ancora prima del ritiro inglese, i sionisti portarono a termine dozzine di massacri dimostrativi, obbligando oltre 350.000 palestinesi ad abbandonare le loro terre. La città di Jaffa, che provò a resistere, fu pesantemente bombardata, costringendo ben 70.000 suoi abitanti a mettersi in fuga per non perdere, oltre a tutto il resto, anche la vita.

“Il secondo stadio della pulizia etnica”, prosegue nella sua attenta analisi Pappe, “consiste nell’eliminare le vittime dal loro posto nella storia, per cui è un atto di cancellazione culturale, l’eliminazione dalla storia, dalla memoria”. Così, i palestinesi che non si erano messi in fuga, erano catturati e costretti a seppellire le migliaia di palestinesi morti, per evitare epidemie e far sparire le tracce di quanto avvenuto. I prigionieri erano inoltre costretti a saccheggiare sistematicamente a vantaggio degli ebrei le abitazioni arabe da tutte le loro ricchezze. Anche le biblioteche palestinesi furono sistematicamente saccheggiate e i loro preziosi libri e documenti trafugati furono trasportati nella biblioteca dell’Università ebraica di Gerusalemme. 

“Il terzo stadio” – prosegue Pappe nella sua analisi del processo storico che ha realizzato la pulizia etnica della Palestina – “consiste nel fare in modo che non tornino mai più”. Non a caso, la storia ufficiale, quella raccontata dai vincitori, spaccia la dichiarazione della nascita di Israele, lo Stato ebraico in Palestina, come una dichiarazione di indipendenza lasciando intendere che Israele fosse da sempre esistito prima del fatidico giorno in cui aveva conquistato o, peggio, riconquistato la piena indipendenza. Alcuni minuti dopo la proclamazione, il testo del documento statunitense che riconosceva l’autoproclamato “governo provvisorio come autorità di fatto del nuovo Stato ebraico, viene emendato affinché sia riconosciuto il governo sionista “come autorità di fatto del nuovo Stato d’Israele”. 

Da parte loro i sionisti si presentarono come i legittimi eredi del Mandato britannico sulla Palestina, del quale al momento della dichiarazione “d’indipendenza” presero la struttura già esistente come base per il nuovo Stato, compresa l’amministrazione militare e di sicurezza. Solo in seguito cominciarono a dare una loro impronta sionista alla precedente struttura statuale, che pretendevano aver ereditato dai britannici. Così, subito dopo la dichiarazione dello Stato ebraico, tutte le strutture statuali preesistenti, che fossero istituzioni politiche e municipali, ma anche banche, continuarono a operare sotto la nuova direzione sionista per sottolineare la continuità, il semplice passaggio di consegne del Mandato sulla Palestina dall’impero britannico allo Stato ebraico. Negli stessi ministeri tutto riprese a funzionare, senza soluzione di continuità, con la gestione precedente, ad esclusione del fatto che gli impiegati palestinesi erano stati costretti, su due piedi, a rinunciare al loro posto di lavoro. In qualche modo i sionisti ricevettero dagli ex coloni britannici una sorta di Stato preconfezionato che si trattava ora di gestire con un personale in parte rinnovato, ovvero epurato della sua componente autoctona.

Tanto più che, come ha ricordato il decano dei giornalisti inglesi in Medio oriente, David Hirst, “da quando il sionismo divenne un movimento attivo [all’inizio del ventesimo secolo], sapevamo che non sarebbe stato interessato a indicare dei confini al suo progetto di Stato. Sapevamo che a tempo debito si sarebbero presentate le opportunità che gli avrebbero permesso di prendere il controllo sul resto del paese, come di fatto avvenne nel 1967”, con la Guerra dei sei giorni, il terzo conflitto arabo-israeliano. Come ha sottolineato lo storico israeliano Shlaim: “l’idea a posta a fondamento del movimento sionista era la graduale costituzione dello Stato ebraico e, in seguito, la altrettanto graduale espansione dei confini di questo Stato”.

D’altra parte, con la consueta parzialità filo sionista che caratterizzò l’intero mandato britannico, le truppe inglesi impedirono alle forze arabe di entrare in Palestina prima del loro completo ritiro il 15 maggio e, quindi, solo dopo la proclamazione dello Stato ebraico e la presa di possesso delle strutture statuali istituite dai britannici da parte dei sionisti. Quando le truppe arabe entrarono in Palestina, da Egitto, Libano e Giordania, con l’obiettivo dichiarato di liberare la Palestina, il titolo principale del New York Times fu “ebrei in grave pericolo in tutte le terre musulmane”. Da allora, l’ideologia dominante ha mirato a presentare i coloni ebrei come occidentali costantemente minacciati nella loro libera e tranquilla esistenza da pericolosi individui del tutto estranei alla nostra civiltà, assimilabili agli immigrati clandestini che tenderebbero a invadere l’Europa.

Ancora più significativa è la modalità con cui Golda Meir – alto rappresentante dello Stato ebraico e in seguito primo premier donna dello Stato ebraico – di ritorno negli Stati Uniti, ha raccontato a un pubblico di occidentali la propria versione della nascita dello Stato ebraico, sostenendo che “gli ebrei hanno mantenuto il controllo sul territorio nonostante gli arabi fossero in numero superiore e molto meglio equipaggiati dal punto di vista militare. La ragione di ciò è molto semplice: gli ebrei che stanno combattendo in Palestina, nello Stato d’Israele, si stanno battendo per l’unica cosa che hanno in loro possesso. È una questione di vita o di morte per loro. Gli arabi, che stanno invadendo la Palestina dagli Stati arabi non hanno un interesse vitale per questa guerra”. In tale narrazione il rapporto tra autoctoni e invasori esterni è totalmente rovesciato. Allo stesso modo, sono rovesciati i rapporti di forza reali, per far passare i coloni come vittime, come era avvenuto per la conquista del west negli Stati Uniti. In realtà, come sottolineato da Hirst, le forze ebraiche nel 1947-48 erano molto più forti e numerose dell’esercito combinato dei paesi arabi. Erano molto preparati, motivati e costituivano una forza di combattimento ben armata superiore a tutte le forze arabe”.

In effetti, entrarono in Palestina non più di 24.000 soldati in rappresentanza di sette Stati arabi. Fu una tragedia, in quanto l’intera forza araba era decisamente inferiore alle forze messe in campo dai sionisti, ben addestrati, equipaggiati e da tempo preparati allo scontro. Al contrario gli eserciti arabi non erano né pronti, né equipaggiati e tanto meno organizzati. Non essendovi un comando unificato, ogni esercito operava autonomamente. Come ha osservato a questo proposito, in modo categorico, Shlaim: “le arabe erano di fatto le più aspramente divise, disorganizzate e malridotte forze dell’intera storia del modo moderno di condurre una guerra”, una vera e propria Armata Brancaleone, potremmo aggiungere noi. 

Al contrario e a differenza degli arabi, le forze sioniste disponevano di comandi unificati, disponevano di armi moderne e di fabbriche di armi di loro proprietà. Inoltre, i sionisti avevano sviluppato ottime relazioni a livello internazionale, in primo luogo con le superpotenze britannica e statunitense, ma anche con l’Unione sovietica. Le forze arabe, nel mondo bipolare uscito dalla seconda guerra mondiale, erano isolate a livello internazionale. Nonostante l’ingresso degli arabi, i sionisti mantennero l’iniziativa conquistando, ad esempio, la collina che domina la città di Acre e iniziando a fiaccarne la resistenza con possenti bombardamenti. I resistenti della città attesero invano il soccorso degli eserciti arabi. La città fu costretta alla resa e ben diecimila dei suoi abitanti palestinesi furono costretti all’esilio. I palestinesi, forzati ad abbandonare le loro case, si sentirono traditi dai paesi arabi, per la totale inefficienza delle truppe da essi inviate, che per altro furono ben presto richiamate in patria. Anche perché, il più forte e determinato degli eserciti arabi, in quanto maggiormente coinvolto per ragioni geografiche nel conflitto, l’esercito giordano – l’unico in grado di tener testa ai sionisti, anche per i suoi soldati ben motivati e consapevoli della posta in gioco – era sotto il comando di un generale inglese noto come Pashà Glubb, che aveva sotto il suo comando altri 46 ufficiali britannici. Costoro avevano siglato un accordo con i sionisti per evitare qualsiasi scontro diretto fra i due eserciti. Ecco perché in seguito Glubb definì “una guerra fasulla” il primo conflitto arabo-israeliano.

 

Molto abilmente Glubb riuscì a far accettare agli arabi, come ricorda lo storico israeliano Shlaim, “il piano inglese di spartizione della Palestina”. Così i giordani si limitarono a occupare militarmente la parte minoritaria assegnata agli arabi della Palestina, senza mettere sotto attacco la parte preponderante su cui era sorto lo Stato ebraico. Dagli accordi preventivi fra l’esercito dei coloni ebrei e l’esercito giordano, guidato da ufficiali inglesi, nacque – come sottolineato dallo storico israeliano Pappe – la Cisgiordania, ovvero la porzione della Palestina che sarà inglobata nel regno di Giordania, in cambio del mancato contrasto al sorgere di uno Stato ebraico su buona parte del resto della Palestina. Si trattava di una soluzione miope, dal momento che con la guerra del 1967 i sionisti occuperanno interamente questa regione, divenuta oggi la parte preponderante dei territori occupati dalle forze israeliane. Già allora Glubb, d’accordo con i sionisti, ordinò il ritiro dei giordani dalla principale città di quest’area della Palestina, Ramallah, che immediatamente dopo fu bombardata dall’aviazione sionista. Il giorno successivo gli ebrei occuparono questa città e la vicina città di Lod da cui, allo stesso modo, si erano preventivamente ritirati i giordani, perpetuando un massacro a scopo dimostrativo di 170 palestinesi che avevano cercato rifugio nella moschea della città. In tal modo costrinsero con le buone o con le cattive 50.000 palestinesi ad abbandonare le proprie case nei centri urbani. Molti dei profughi morirono di sete, costretti a procedere a marce forzate sotto il sole cocente di luglio.


Nota

[1] Le citazioni sono riprese da Al Nakba, documentario prodotto da Al-Jazeera per il 60° anniversario della catastrofe palestinese, a cui buona parte di questa serie di articoli si è ispirata.

 

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