https://www.huffingtonpost.it/

24/11/2018

 

Al Malki: "Senza uno Stato palestinese non c'è stabilità in Medio Oriente"

By Umberto De Giovannangeli

 

Il ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) accusa: abbandonati dalla comunità internazionale

 

Pesa le parole, Riyad al-Malki, ministro degli Esteri dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). Lo fa da abile diplomatico qual è e perché sa che in questo momento di tutto hanno bisogno i Palestinesi tranne che di favorire la politica d'Israele che, rimarca al-Malki parlando con HuffPost, "punta alla delegittimazione della leadership palestinese e a portare a compimento il regime di apartheid nei Territori occupati". Pesa le parole, ma il suo, alla fine, è un possente j'accuse alla Comunità internazionale che "non si è assunta le responsabilità proprie ed ha voltato le spalle alla questione palestinese". Un concetto che al-Malki ha sostenuto nel suo intervento al Med Forum 2018 in corso a Roma. "La questione palestinese è ancora in attesa di essere risolta e aspetta che la comunità internazionale si assuma le proprie responsabilità – ha rimarcato nel suo intervento il capo della diplomazia palestinese, perché la questione è stata creata dalle decisioni internazionali di dividere la Palestina storica in due Stati. Siamo delusi da quanto ha fatto la Comunità internazionale che non si è assunta le proprie responsabilità in questi 75 anni. La Comunità internazionale ha voltato le spalle alla nostra questione".

 

Partiamo da questa amara, dura considerazione, signor ministro. Nel suo intervento al Forum di Roma, Lei ha sostenuto che la Comunità internazionale ha voltato le spalle alla questione palestinese...

"Sì, ma ho anche aggiunto che è stata una scelta miope, perché, come ha sostenuto con forza il ministro degli Esteri russo (Sergey Lavrov, ndr) senza una soluzione della questione palestinese non vi potrà essere una stabilizzazione del Medio Oriente...".

Una soluzione: quale?

"Quella che ripristini la legalità internazionale in Palestina: la soluzione fondata sul principio 'due popoli, due Stati'. Un principio contemplato nelle risoluzioni Onu che Israele non ha mai rispettato, un principio che guida anche la mai realizzata Road Map del Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Ue, Onu, ndr). Noi non ci siamo mai discostati da questo tracciato. E' Israele ad aver lavorato sul campo per rendere impossibile questa soluzione...".

 

A cosa si riferisce, signor ministro?

"Alla colonizzazione dei Territori. Una politica unilaterale imposta con la forza, spacciata come una necessità per la sicurezza d'Israele. Ma con l'espropriazione delle terre palestinesi in Cisgiordania, con la pulizia etnica perpetrata a Geusalemme Est, la sicurezza non c'entra niente. C'entra la determinazione dei governanti israeliani a praticare la politica dei fatti compiuti. Qui sta la responsabilità della Comunità internazionale: continuare a parlare di una soluzione a due Stati e poi non aver fatto nulla per impedire che Israele minasse questa soluzione. Tuttavia, noi non ci arrendiamo. Sappiamo di essere nel giusto quando rivendichiamo il nostro diritto all'autodeterminazione; un diritto che non nega quello d'Israele alla sicurezza o, addirittura, all'esistenza. Il popolo palestinese non si batte per uno Stato in meno, quello d'Israele, ma per uno Stato in più, quello di Palestina".

 

Signor ministro, nella visione della dirigenza palestinese, è ipotizzabile uno Stato senza Gerusalemme Est come capitale?

"No, mai. Neanche il leader più disposto al dialogo e al compromesso potrebbe mai accettare una soluzione che tagli fuori Gerusalemme...".

 

Ma questa ipotesi è presente nel "piano del secolo" per la pace di cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha più volte parlato.

"La scelta compiuta dal presidente Trump di trasferire l'ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme ha allontanato e non certo favorito la soluzione del conflitto israelo-palestinese. Una scelta peraltro criticata anche da importanti organizzazioni ebraiche americane e che ha rafforzato i falchi del governo israeliani convinti di poter comunque essere garantiti dalla copertura di Washington. Ma questa forzatura ha un risvolto che ci dà speranza...".

Qual è questo risvolto?

"I Paesi che hanno seguito gli Stati Uniti in questa scelta si contano sulle dita di una mano. Ed è importante che nessun Paese europeo abbia ceduto al pressing dell'amministrazione Usa e d'Israele. Voglio qui ribadire ciò che ho affermato nel mio intervento al Forum: abbiamo bisogno di un'Europa forte e unita per prendere questa responsabilità. Se gli americani non vorranno fare nulla, dovrebbe farlo l'Europa. Dobbiamo forzare il cambiamento, e per questo stiamo spingendo per un ruolo europeo. Sarebbe un fatto politico di grande significato, come lo è il fatto che è sempre più grande e qualificato il numero dei Paesi al mondo che hanno riconosciuto unilateralmente lo Stato di Palestina. Questo ci dice che esiste un consenso internazionale attorno a questa soluzione e sarà nostro impegno rafforzarlo, sia nelle relazioni bilaterali che operando nei tanti e importanti organismi internazionali dei quali siamo stati chiamati a far parte".

 

Signor ministro, il governo israeliano è entrato in crisi dopo le dimissioni di Avigdor Lieberman da ministro della Difesa. Dimissioni motivate dall'accusa rivolta al primo ministro Benjamin Netanyahu di aver ceduto ai "terroristi palestinesi" negoziato, attraverso l'Egitto, un cessate-il-fuoco nella Striscia. Per la gente di Gaza si è aperto uno spiraglio di speranza?

"La speranza può diventare realtà solo quando Israele porrà fine ad un assedio che dura ormai da undici anni. Le condizioni di vita della popolazione della Striscia di Gaza sono terribili. A documentarlo sono decine di rapporti delle agenzie Onu e delle ong internazionali che ancora operano, nonostante le costrizioni subite da parte delle autorità israeliane, a Gaza. C'è un problema di sicurezza ai confini tra Israele e Gaza? Non è con i bombardamenti che questo problema può essere risolto. Per quanto ci riguarda, non siamo contrari al dispiegamento di una forza internazionale sotto egida Onu, ai confini tra Gaza e Israele. Ma questa forza d'interposizione deve essere parte di un piano più ampio che preveda la fine dell'assedio e l'inizio della ricostruzione...".

 

Di ricostruzione parla anche il presidente Trump nel suo "piano del secolo"...

"La ricostruzione di Gaza non può essere utilizzata come arma di pressione, o per meglio dire di ricatto verso l'Autorità nazionale palestinese affinché ceda su Gerusalemme o accetti di fatto la separazione di Gaza dalla Cisgiordania. Perché è questo il vero obiettivo di quel piano: smembrare ulteriormente i Territori palestinesi, trasformandoli in una sorta di bantustan mediorientali...".

 

A negoziare la tregua a Gaza è stata Hamas...

"Questa è una rappresentazione parziale, inesatta. Il presidente Abbas ha discusso con il presidente al-Sisi della situazione e da parte di quest'ultimo c'è sempre stato il riconoscimento del ruolo che il presidente Abbas ricopre. Gaza non è altra cosa dalla Cisgiordania: non esistono due autorità parallele. Chi opera per questo fa il gioco d'Israele che ha sempre puntato sulle divisioni all'interno del campo palestinese".

 

Signor ministro, nel suo intervento Lei ha affermato: "Forse pensiamo di non potere avere uno Stato indipendente palestinese quest'anno o il prossimo anno, ma un giorno succederà se cambieranno le cose..". Ma il fattore tempo non lavora contro la pace?

"Può sembrare così, e in parte lo è. Ma c'è un aspetto che troppo spesso viene dimenticato o sottovalutato e che invece assumerà sempre più una sua centralità nel conflitto israelo-palestinese: mi riferisco all'aspetto demografico. Tutti gli studiosi, a cominciare da quelli israeliani, indicano che nel giro di non molti anni, gli arabi – gli arabi israeliani e i palestinesi dei Territori – saranno maggioranza. Israele non potrà chiudere gli occhi di fronte a questa realtà né potrà risolverla realizzando uno stato nello stato: lo stato dell'apartheid".

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