Originale: The Independent

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29 gennaio 2018

 

Dentro Afrin

di Robert Fisk  

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Quando Mustafa al-Khatr, sua moglie Amina, le loro due figlie Zakia e Safa e il loro figlio Sulieman sono andati a letto nel piccolo villaggio di Maabatli hanno messo le scarpe fuori dalla porta. La maggior parte delle famiglie mediorientali fa lo stesso.

 

E’ una tradizione e un segno di pulizia in casa. Le economiche ciabatte di plastica erano ancora là, naturalmente, quando una granata turca ha colpito la loro casa all’una del mattino e quando io sono arrivato poche ore dopo ho trovato le stesse scarpe, alcune buttate giù dalle scale ma prevalentemente allineate le une accanto alle altre. Una delle figlie aveva scelto le ciabatte con i tiranti di plastica? Anche quando gli operatori dei soccorsi – quali sono nella provincia curda di Afrin – non hanno toccato le scarpe. Hanno lasciato uno dei copriletto impregnati di sangue dov’era nella pioggia sotto il tetto crollato della modesta casa di blocchi di calcestruzzo. I corpi, naturalmente, erano stati portati via.

Poiché le identità delle vittime sono note – non, ovviamente, quelle del cannoniere turco che ha macellato questa famiglia – dovremmo, forse, conoscerle un po’ meglio. Taha aveva quarant’anni, sua moglie Amina la stessa età, Zakia aveva 17 anni e suo fratello Sulieman sono 14. Safa, che ha 19 anni, è sopravvissuta – miracolosamente solo con ferite alle mani – ma naturalmente ora è un’orfana.

 

Ironicamente, poiché si suppone che i turchi mirino ai combattenti curdi del YPG, il nome stesso del loro attacco militare contro la Siria curda, Operazione Ramo d’Ulivo, fa infuriare nel villaggio di pietre di Mabeta, circondato com’è da orti di ulivi e la famiglia al-Khatr non era curda ma composta da profughi arabi dal villaggio di Tel-Krah più a nord.

Erano così nuovi a Maabatli che i vicini curdi con i quali ho parlato non conoscevano nemmeno i loro nomi, ma nella provincia curda – il villaggio è a circa 10 miglia dalla città di Afrin – le popolazioni sono mischiate (ci sono anche alawiti) e nessuno è rimasto sorpreso quando gli al-Khatr sono arrivati giovedì sera.

 

Lo zio di Taha viveva già nel villaggio in cima alla collina e pare abbia sistemato i suoi parenti profughi nel suo magazzino; era pieno di rimasugli di sacchi di grano, un frigo e verdure congelate. I corpi devono essere stati inimmaginabili.

 

“Venite nel nostro ospedale qui ad Afrin a scoprire che cosa è successo”, mi ha detto con cinismo il dottor Jawan Palot, direttore dell’Ospedale di Afrin, ben consapevole che The Independent era la prima organizzazione giornalistica occidentale a visitare Afrin dopo l’attacco turco. “Dovreste vedere i morti quando arrivano, e lo stato delle ferite mentre ancora sanguinano”. Ed ecco venir fuori le solite fotografie di cadaveri fatti ferocemente a pezzi.

 

E poi è seguito anche, nell’Ospedale di Afrin, un giro svenevole delle corsie dove giacevano nei loro letti i sopravvissuti dell’attacco della Turchia contri i “terroristi” di Afrin, iniziato il 20 gennaio. C’era Mohamed Hussein, un contadino cinquantottenne di Jendeeres, con ferite alla testa e un occhio chiuso, quasi ucciso quando il tetto di casa sua ha ceduto sotto l’attacco aereo del 22 gennaio. E Ahmad Kindy, di otto anni più giovane, che aveva portato la sua famiglia fuori dal villaggio quando il Ramo d’Ulivo turco aveva per la prima volta gettato la sua ombra sul terreno il 21 gennaio presto, ma che imprudentemente era tornato ed era stato colpito da shrapnel. “Non c’erano combattenti del YPG là”, ha detto.

 

Ma se ci fossero stati? Ciò giustifica il dolore della quindicenne Dananda Sido del villaggio di Adamo, terribilmente ferita al petto e alle gambe che si rivolge a noi in lacrime quando tentiamo di parlarle nell’Ospedale di Afrin? O quello della ventenne Kifah Moussa, che stava lavorando nell’allevamento di polli della sua famiglia a Maryameen quando aerei turchi hanno sganciato a mezzogiorno una bomba sull’edificio, uccidendo un’intera famiglia di otto persone di fianco a lei? E’ stata colpita al torace. Sorride coraggiosamente al dottor Palot e a me, anche se non è chiaro se sa che suo fratello è tra i morti.

 

E poi c’è lo studente di terza media Mustafa Khaluf, anche lui di Jendeeres, che ha sentito gli aerei turchi arrivare sopra la sua casa e ha subito gravi ferite alle gambe nel corso dell’attacco aereo. Accanto a lui c’è la settenne Aya Nabo, con gravi ferite al torace, e che si volta verso la parete dietro il suo letto piuttosto che parlare con il dottore. Sua sorella dice che è stata colpita in strada il 22 gennaio. Dopo un po’ diventa quasi un’oscenità chiedere, costantemente, le circostanze di questa sofferenza. Sappiamo tutti chi l’ha causata.

 

E’, tuttavia, quasi ugualmente osceno ricordare la versione ufficiale turca di questo piccolo massacro – perché di questo si è trattato per i 34 civili i cui corpi sono stati portati nel solo Ospedale di Afrin – che afferma che più di 70 caccia turchi hanno bombardato milizie curda del YPG in Siria il 21 gennaio. L’agenzia di stampa turca Anadolu ha affermato blandamente che l’aviazione turca ha bombardato più di cento “obiettivi” – compreso un “campo d’aviazione” (misteriosamente non nominato) – il primo giorno degli attacchi. Le operazioni hanno apparentemente attaccato “caserme, rifugi, posizioni, armamenti, veicoli ed equipaggiamento” del YPG.

 

Dove, mi sono chiesto, mentre percorrevo le corsie dell’Ospedale di Afrin, avevo già sentito tutta questa roba? Non si trattava di una replica di ogni attacco aereo israeliano contro “terroristi” nel Libano meridionale, di ogni attacco aereo della NATO contro “forze serbe” nella ex Jugoslavia, di ogni attacco statunitense contro “forze” irachene nel 1991 e nel 2003 e contro l’Afghanistan e Mosul l’anno scorso? Erano tutte operazioni “chirurgiche” – condotte con assoluta precisione per evitare “danni collaterali”, naturalmente – e tutte hanno lasciato una discarica di decine o centinaia o migliaia di morti e feriti. I nostri attacchi aerei – israeliani, della NATO, statunitensi, turchi – hanno tratto energia a vicenda da menzogne e vittime.

 

Per dare concretezza ai suoi calcoli, il dottor Polat, che dice di aver studiato medicina nella città russa di Krasnoyarsk quando ha deciso di tornare ad Afrin nel 2014 “per aiutare la mia gente in guerra”, stampa l’intero archivio dell’ospedale dal 21 gennaio a mezzogiorno del 26 gennaio e lo consegna al The Independent. Secondo il dottor Polat, ha ricevuto solo quattro combattenti del YPG morti e due feriti il primo giorno dell’attacco turco, altri sette combattenti e nove feriti successivamente nella settimana. Poiché queste sono persone reali, non solo statistiche, c’è probabilmente un dovere giornalistico di registrare almeno alcune delle vite – e delle morti – di questi poveri civili.

 

Scavando nei documenti dell’ospedale – e prendendo nomi a caso – trovo che tra i 49 civili feriti portati qui, c’era la bambina di tre anni Hamida Brahim al-Hussein, di Maryameen, rimasta ferita alla testa nell’attacco all’allevamento di polli in è rimasto ferito Kifah Moussa. E il bambino di due anni Hassan al-Hassan (ferito alla testa). Poi c’era la settantenne Asia Sheikh Murad di Shiya, ferita alla testa il 23 gennaio. E il quarantaseienne Khaled Mohamed Ali Abdul Qadr con ferite alla testa – di nuovo in seguito al crollo delle case sui proprietati – a Maryameen. E Hamid Battal, trent’anni, di Fkeiro e Ghengis Ahmad Khalil, il cui nome di guerriero non ha impedito al ventenne di subire ferite allo stomaco a Midan Ekbes. Sudqi Abdul Rahman, 47 anni, è rimasto ferito alla gamba da shrapnel a Ruzio-Jendeeres il 25 gennaio. Una settantacinquenne, Shamsa Moussa, è registrata con “molteplici ferite alle ossa” nel villaggio di Rajow il 23 gennaio.

 

La lista dei morti – dieci bambini, sette donne, diciassette uomini – è più scarna, poiché l’ospedale non si è curato di catalogare le loro ferite. Sono inclusi neonati. Il bambino di un anno Wael al-Hussein, un profugo (certamente non consapevole di esserlo) del villaggio di Jebbarah, è stato ucciso il 21 gennaio; Moussab al-Hussein, sei anni, di Idlib (chiaramente di un’altra famiglia di profughi) lo stesso giorno. La sessantenne Fatima Mohamed del villaggio di Arabo è stata uccisa a Jendeeres il 23 gennaio. Abdulkader Menam Hamo, di Jamo, è stato ucciso il 24 gennaio.

 

Per loro non ci saranno monumenti ai caduti – come ci sono per i combattenti curdi nel cimitero militare a quale miglio da Afrin, la maggior parte uccisi nel combattere l’ISIS – e nessuna registrazione delle loro morti, eccetto forse per i freddi elenchi dei documenti del dottor Polat, ciascuno intestato in curdo “Avrin Hospital”. Nessuna menzione della Siria.

 

 


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/inside-afrin/

 

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