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16 feb 2018

 

Afrin, dopo 25 giorni di “Ramoscello d’Ulivo” sono 180 le vittime civili

 

Dal 20 gennaio distrutti palazzi, fattorie, scuole, ospedali, moschee. In migliaia marciano verso Jinderese, prossimo obiettivo di Ankara che ha dispiegato le truppe specializzate in guerriglia urbana

 

Roma, 16 febbraio 2018, Nena News –

 

A 25 giorni dal lancio dell’offensiva militare turca contro Afrin, cantone curdo nel nord-ovest della Siria, la guerra a Rojava è già dimenticata. Eppure è brutale: cominciata il 20 gennaio scorso, secondo i dati dell’Information Center of Afrin Resistance (Icar), ha già ucciso 180 civili e ne ha feriti oltre 480. Tra loro donne, bambini, anziani, i cui nomi sono documentati dagli ospedali ancora funzionanti nel distretto.

Sono invece 98 i combattenti delle unità di difesa popolare Ypg/Ypj uccisi, secondo i locali, un numero infinitamente più basso dei 1.500 annunciati dalla Turchia. Dall’altra parte, sul fronte dell’asse Ankara-Esercito Libero, i morti sono 862, riporta l’Icar.

Una guerra di numeri che devasta i civili. Perché oltre alle vittime di bombardamenti aerei e artiglieria pesante, i 668 raid e i 2.645 missili lanciati dai carri armati di Ankara hanno colpito infrastrutture civili,oltre 200 case, almeno 27 scuole, fattorie, forni, ospedali, moschee, cimiteri. Bombardati anche alcuni centri amministrativi, tra cui la sede della Mezzaluna rossa e gli uffici delle commissioni di Educazione, Commercio e Agricoltura.

Le forze armate turche stanno inoltre distruggendo il patrimonio storico e archeologico della regione: dopo la distruzione del tempio di Ain Dara, nel mirino turco sono finiti il tempio di Nebi Hori, il tempio Romano (nel villaggio di Kalote), utilizzato come chiesa dopo il IV secolo e dal X usato come cittadella difensiva, e il palazzo di Betal Aga a Jeleme.

E se tra il 5 e il 7 febbraio i bombardamenti erano cessati (non i colpi di artiglieria), sono ripresi l’8 e si sono intensificati, distruggendo alcuni siti di purificazione dell’acqua nel villaggio di Metina e nel distretto di Jinderese, due dei principali forni a Rajo e una fabbrica di olio di oliva.La gente fugge: aumenta il numero di sfollati, molti riparati negli scantinati dei palazzi ancora in piedi, altri verso nord e il confine con la Turchia che di certo non apre le porte ma – come documentato da Human Rights Watch – spara sui profughi, molti dei quali rifugiati due volte. Provengono da Idlib, Raqqa, e altre zone della Siria e ad Afrin avevano trovato accoglienza.

Afrin e Rojava resistono. Come spiega l’Icar, la principale arma è la solidarietà collettiva: chi ha ancora una casa apre le porte agli sfollati, in centinaia donano il sangue, la Mezzaluna distribuisce latte ai bambini piccoli e viveri alle famiglie. E dopo l’arrivo di migliaia di combattenti il 7 febbraio dal resto della tregione, ieri migliaia di persone si sono spostate dalla città di Afrin verso quella di Jinderese, la più colpita negli ultimi giorni. E’ su Jinderese che si sta, infatti, concentrando l’attenzione turca: da alcuni giorni, denunciano i locali, Ankara ha dispiegato intorno alla città centinaia di truppe specializzate in guerriglia urbana, in preparazione di un’offensiva via terra per occupare la comunità.

La guerra in corso nel nord della Siria è il paradigma dell’intero conflitto siriano: sconfitto sul campo, incapace di rimuovere il presidente siriano Assad, il presidente turco Erdogan opera negli ultimi anni attraverso la destabilizzazione diretta e la creazione di fatti sul terreno che portino ad un futuro di frammentazione in chiave etnico-confessionale.

Nel silenzio generale: se l’intervento in Siria è una chiara violazione del diritto internazionale, l’Europa si limita a dichiarazioni di facciata, la Russia fa finta di nulla e gli Stati Uniti tentano di evitare lo scontro diretto dando ad Ankara quel che vuole, la guerra ai curdi. Ieri il segretario di Stato Usa Tillerson era nella capitale turca per un incontro con Erdogan e con il ministro degli Esteri Cavusoglu. Ai due alleati – traballanti – ha ribadito che Washington non ha mai consegnato alle Ypg/Ypj armi pesanti. Ma la contraddizione resta: a Manbij, prossimo obiettivo dichiarato della Turchia, sono di stanza 2mila marines, impegnati nell’addestramento dei combattenti multietnici e multiconfessionali delle Forze Democratiche Siriane e anche nella battaglia per Raqqa.

Erdogan preme perché vuole di più: vuole che l’alleato Nato abbandoni definitivamente la forza più efficace contro l’Isis, sfruttata dagli Stati Uniti e ora palesemente abbandonata in mano alla brutalità turca. E lo avverte: arriverà “uno schiaffo ottomano” agli statunitensi che, a suo dire, continuano ad inviare camion di armi alle Ypg/Ypj. Nena News

 

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