Il Manifesto

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17 mar 2018

 

In fuga da fame e bombe: 
Afrin e Ghouta allo stremo

di Chiara Cruciati

 

A nord la Turchia colpisce i civili, decine di morti. Nel sobborgo di Damasco altre 78 vittime. Nel cantone curdo cliniche al collasso. Nella capitale la Mezzaluna rossa denuncia: i jihadisti bloccano l’evacuazione

 

AGGIORNAMENTO ore 10 

Sono 47 i civili uccisi ieri dalle bombe turche ad Afrin. Nella tarda serata di ieri l’aviazione turca ha colpito l’ospedale della città, uccidendo 15 persone, tra cui dei bambini e una donna incinta. Secondo fonti locali, inoltre, questa mattina i bombardamenti hanno centrato due veicoli di sfollati che stavano lasciando Afrin attraverso la via di fuga aperta a sud-est: ci sarebbero molte vittime.

 

Roma, 17 marzo 2018, Nena News 

 

Il fuoco turco contro Afrin ha ucciso almeno 21 persone tra giovedì notte e ieri pomeriggio. Tra loro tre bambini di due, sette e otto anni. Nei 56 giorni di offensiva, amaramente ribattezzata «Ramo d’Ulivo», sono morti oltre 260 civili. Chi può scappa attraverso l’unica via di fuga, a sud-est, nella direttrice per Aleppo: già 30mila gli sfollati verso le zone controllate da Damasco, altri 50mila quelli rimasti senza tetto nella comunità, ospiti di amici e parenti o rifugiati in scuole ed edifici pubblici.

I 250mila civili ancora dentro sono ridotti alla fame: il cibo non entra e Ankara, tagliando l’acqua, assumendo il controllo delle risorse idriche e distruggendo i sistemi di pompaggio, commette uno dei crimini di guerra peggiori.

Se ne accorge anche l’Onu, finora silente sul massacro nel cantone curdo-siriano. Ieri la portavoce dell’Alto Commissariato per i diritti umani, Ravina Shamdasani, ha denunciato la crisi umanitaria di Afrin, impossibile da tamponare per il collasso del sistema sanitario.

Il principale ospedale straborda di feriti (senza posti letto disponibili, vengono curati per terra) e le cliniche più piccole sono ferme perché prive di medicinali o perché danneggiate dalle bombe. «Le famiglie fanno affidamento su acqua non trattata con il potenziale aumento del rischio di malattie», aggiunge l’Unicef.

Il presidente turco Erdogan resta sordo alle denunce, forte del più generale silenzio. Ieri è tornato a parlare a un congresso locale del suo partito, l’Akp: «A oggi abbiamo assunto il controllo dei tre quarti di Afrin», ha detto stimando in 1.320 kmq il territorio occupato e in 3.530 i «terroristi» neutralizzati (uccisi o fatti prigionieri), ovvero i combattenti delle unità di difesa curde Ypg/Ypj.

Ne ha poi approfittato per attaccare gli Stati uniti, colpevoli – dice – di aver regalato ai curdi 5mila camion e 2mila aerei pieni di armi. Tanto radicata è l’immunità di cui gode da potersi permettere sia di ribadire l’intenzione di marciare su Manbij, a est, sia di aggredire un alleato fedele, Washington, che di fronte all’attacco contro una forza che sostiene (le Ypg) non muove un dito.

Più rumore (strumentale) si registra intorno a Ghouta est, sobborgo damasceno devastati da quattro anni di assedio esterno governativo e interno islamista. Le truppe di Damasco ne hanno ripreso il 70% con una campagna aerea ininterrotta dal 18 febbraio: tre le sacche di territorio rimaste alle opposizioni, non contigue e circondate dai soldati del presidente Assad.

Ieri, secondo le opposizioni, sarebbero state uccise altre 78 persone, 1.500 in un mese, di cui buona parte civili. Per il secondo giorno consecutivo è proseguita l’evacuazione di donne, bambini, anziani, ridotti alla fame e alla sete, distrutti psicologicamente e fisicamente da una guerra che si combatte sui loro corpi e ora costretti da quella guerra a lasciare la propria casa, diventata prigione.

La Russia parla di 3.326 civili usciti ieri da Ghouta dopo gli oltre 12mila di giovedì (Damasco dà un bilancio diverso: 40mila sfollati), su un totale di 400mila intrappolati tra bombe governative, missili e colpi di mortaio jihadisti e sotterranei dove nascondersi senza cibo né acqua.

E, aggiunge Mosca, «sono stati eliminati i cecchini che cercavano di far fallire l’evacuazione»: se nei giorni scorsi sono stati denunciati spari sulla folla da parte jihadista, ieri funzionari della Mezzaluna, anonimi, hanno detto alla Cnn di aver visto miliziani bloccare i civili che tentavano di andarsene, impedendo loro di raggiungere i convogli.

Fuori dalla Ghouta orientale ci sono le ambulanze della Mezzaluna rossa e le agenzie Onu che hanno messo in piedi un piano di accoglienza per 50mila persone. L’esodo è iniziato, non si tornerà indietro. Ne sono consapevoli le opposizioni che alla guerra al governo affiancano ora una più intensa faida interna. Non tutti sono propensi alla resa, ma c’è chi ha deciso di negoziare.

Il salafita Jaysh al-Islam, la milizia più numerosa, avrebbe aperto un canale di comunicazione con i russi per l’evacuazione dei suoi 10-15mila uomini. Finanziato dal Golfo, il gruppo ha sempre avuto come obiettivo l’istituzione in Siria della shari’a, ideologia identica a quella di al-Nusra con cui però nella Ghouta avrebbe rotto i rapporti, tanto da avanzare l’ipotesi di consegnarne i miliziani in cambio di una tregua. Perché, nonostante l’ideologia di riferimento e i passati legami con al Qaeda, Jaysh al-Islam è considerato opposizione legittima e invitato ai tavoli Onu di Ginevra.

Si è chiusa invece ieri la giornata di dialogo tra Russia, Iran e Turchia ad Astana, in vista della ripresa dei negoziati kazaki a metà maggio. I tre ministri degli Esteri hanno discusso del mantenimento del cessate il fuoco nelle zone di de-escalation, le stesse in cui però si combatte ininterrottamente da settimane.

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16 mar 2018

 

Fuori da Ghouta 12mila civili, 
altri 30mila fuggono da Afrin

di Chiara Cruciati

 

Roma, 16 marzo 2018, Nena News – La fuga da Ghouta est è iniziata: ad un mese dalla ripresa dell’offensiva governativa sul sobborgo di Damasco, ieri 12mila civili sono usciti dalle cittadine di Hammouriyeh e Jisreen. A bordo di aiuto e motorini, a piedi, con coperte e qualche valigia, hanno attraversato il corridoio individuato dal governo. La tv ne ha mostrato i volti: donne, bambini, anziani accompagnati fuori dopo una notte di azioni aeree sulla zona.

Civili in uscita, i primi dopo i 150 feriti evacuati nei giorni scorsi dalla Mezzaluna rossa, e aiuti in entrata: 25 camion di cibo e medicine Onu hanno raggiunto 26mila persone nell’enclave sotto assedio interno ed esterno, dove restano bloccati 400mila civili. Ma gli scontri non cessano: l’aviazione siriana ha proseguito nei raid e gli islamisti nel lancio di missili; 50 i morti ieri, secondo le opposizioni, un numero che farebbe salire il bilancio a 1.500 in un mese.

E con il governo che ha ripreso il 60% della Ghouta orientale, si fa avanti la Turchia,sponsor delle milizie di opposizione: ieri il portavoce del presidente Erdogan ha detto che i servizi segreti stanno lavorando all’evacuazione di al-Nusra dal sobborgo, stimando mille miliziani qaedisti.

Dall’altra parte del Paese, trentamila persone sono fuggite in 48 ore da Afrin. «I bombardamenti e i colpi di artiglieria non si sono fermati mai», denuncia il portavoce delle unità di difesa popolare Ypg, Birusk Hasaka: le bombe dell’aviazione turca piovono senza sosta da giorni sul centro della principale città del cantone curdo-siriano nel nord-ovest del paese, decine le vittime. Solo mercoledì, riporta l’agenzia cuda Anf, sono morte 13 persone di cui sette bambini, ieri tre bambini e due donne.

Secondo il portavoce della presidenza turca, Ibrahim Kalin, «il controllo di più del 70% di Afrin è stato assicurato, il cerchio si è completamente chiuso intorno ai terroristi e prevediamo che il centro della città sarà a breve ripulito».

Gli sfollati stanno raggiungendo le zone controllate dal governo di Damasco, a sud-est di Afrin, nella direttrice per Aleppo. Fuggono a bordo di furgoncini e pick-up verso la sola via di fuga possibile da una città ormai quasi priva di acqua e cibo: l’esercito turco ha tagliato l’acqua da giorni e i prodotti alimentari dal resto di Rojava non entrano. Ankara sta prendendo la popolazione per fame, una comunità che finora ha resistito a due mesi di operazioni aeree e di offensiva via terra di 20mila miliziani islamisti al soldo del presidente Erdogan.

Che non fa passare giorno senza lanciare dichiarazioni di guerra alla regione curdo-siriana, considerata una minaccia nonostante non abbiano mai rivolto le armi contro il territorio turco.A far paura è il progetto politico realizzato da Rojava, quel confederalismo democratico che ha permesso l’autogestione delle comunità curde, arabe, turkmene e che viene letta da Ankara come il primo passo di un contagio politico del suo sud-est, curdo.

Da qui la necessità di ribadire la minaccia: «Abbandonate le vostre speranze – ha detto ieri Erdogan – Non lasceremo Afrin fino a quando il nostro lavoro non sarà completato». Il mittente è il Parlamento europeo, sola istituzione dell’Unione a essersi espressa sul massacro in corso nel cantone: ieri con 372 voti a favore ha approvato una mozione che chiede alla Turchia di ritirarsi da Afrin.

«Ehi, Parlamento europeo, che stai facendo? – ha tuonato il presidente turco, che due giorni fa ha incassato tre miliardi dalla Commissione Ue per tenersi tre milioni di profughi siriani – Il Parlamento europeo non può dirci di fare niente. La tua dichiarazione entra da un orecchio ed esce dall’altro». E cita proprio quei tre milioni di profughi, facendosi scudo dietro i loro corpi: dopotutto è ad Afrin che Ankara intende trasferire centinaia di migliaia di siriani, stravolgendo la demografia della zona e trasformandola in un feudo turco protetto dagli uomini dell’Esercito Libero Siriano, opposizione ad Assad.

I rumor su un passaggio di Afrin al governo di Damasco che circolavano ieri, infatti, sono stati smentiti dall’ufficio della presidenza che conferma invece l’accordo raggiunto con gli Stati uniti sull’evacuazione dalla vicina Manbij delle Ypg/Ypj. Nena News

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