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19/03/2018 09:41 

 

Erdogan si prende Afrin nell’indifferenza dell’Occidente

 

Con l'attacco finale dell'operazione "Ramoscello d'ulivo" voluta dal presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan, sia da terra che via aerea con bombardieri e elicotteri, i ribelli anti Assad sostenuti dalla Turchia e da milizie non ben identificate hanno preso il controllo totale di Afrin.

A confermare di aver conquistato il centro della città a maggioranza curda nel nord della Siria lo stesso presidente turco annunciando che le unità dell'Esercito Siriano Libero, sostenute dalle forze armate turche, sono entrate nell'enclave del Pyd alle 8:30 del 18 marzo.

Nei quartieri che non sono stati distrutti dai raid aerei degli ultimi due mesi sono asserragliati centinaia di migliaia di civili, in 150 mila sono riuscisti a fuggire nelle scorse ore.

I curdi che difendevano Afrin hanno preferito ritirarsi, seppur non arrendendosi, per evitare un inutile e drammatico assedio alla città per settimane e sottraendosi a una sconfitta sicura vista l'evidente supremazia del fronte avverso.

Sarebbe stato un massacro, sia tra i combattenti che i civili.

Pur se costrette a lasciare la loro roccaforte le forze del Rojawa hanno "promesso" di proseguire la resistenza e di lottare fino a quando "ogni millimetro della città non sarà liberata e il popolo ritornerà alle proprie case" come si legge in un comunicato delle autorità dell'enclave curda.

Dal 20 gennaio a oggi le vittime dell'attacco da parte dell'esercito turco e dalle milizie alleate sono state migliaia, la maggior parte donne e bambini.

Per settimane i curdi hanno lanciato appelli denunciando il coinvolgimento dei civili nell'operazione militare nella regione sperando di riuscire a smuovere l'Occidente, per il quale hanno combattuto sconfiggendo l'Isis. Ma sono stati ignorati. Non hanno potuto far altro che combattere, da soli, per difendersi dall'aggressione turca che non ha lasciato loro scampo.

Oggi la decisione, senza resa, di arretrare per scongiurare la totale distruzione della città, ritirando le forze verso est.

Se in una prima fase sembrava che i vertici militari del Pyd avessero valutato l'opzione di lasciare Afrin dopo aver consegnato le armi all'esercito di Assad, salvando la città da turchi e jahdisti ma affermando la politica di Putin e rinunciando all'autonomia del Rojava, alla fine hanno optato per una strategia meno drastica con l'evacuazione temporanea sia di forze che civili curdi, lasciando a Assad e Putin l'incombenza di fronteggiare i turchi e le milizie jihadiste a nord di Aleppo.

L'operazione non è però riuscita appieno.

Nonostante l'impegno per permettere a tutta la popolazione di usufruire dei corridoi umanitari nella regione del Rojawa, solo un terzo delle persone intrappolate nella città circondata dalle truppe di Erdogan e dalle milizie alleate locali ha potuto abbandonare Afrin.

Secondo l'Osservatorio siriano dei diritti umani sarebbero ancora asserragliate nel centro e nelle periferie di Afrin centinaia di migliaia di civili, la gran parte provenienti dai villaggi attorno alla località capoluogo dell'omonimo distretto parzialmente in mano ai curdi.

Con la città in mano ai militari di Erdogan nessuno può spostarsi verso le zone sicure di Aleppo, nonostante su carta sia in atto una "tregua umanitaria". Stessa sorte per altre aree della Siria, entrata nell'ottavo anno di guerra.

Gli attori impegnati sul terreno, dai russi agli americani, sostengono che nel paese sia in atto una "de-escalation" del conflitto. Ma ciò che dovrebbe teoricamente avvenire in questi casi, ovvero la cessazione assoluta delle ostilità, in alcuni distretti della Siria non si sta verificando.

Come rileva l'ultimo rapporto di Save the children proprio in quelle zone, in particolare dalla seconda metà del 2017, ogni giorno almeno 37 persone hanno perso la vita e oltre 2mila sono state ferite. Il bilancio in questo settimo anniversario della guerra siriana è dunque più tragico che mai.

Le organizzazioni non governative impegnate sul campo denunciano, a fronte delle numerose testimonianze raccolte, che nelle aree in cui non dovrebbero esserci più azioni militari non solo queste ultime non siano cessate ma impediscono alla popolazione di accedere agli aiuti umanitari.

Più di due milioni di persone, di cui la metà bambini, continuano a vivere in zone difficilmente raggiungibili o assediate, senza la possibilità di ricevere assistenza o avere l'accesso alle forniture di cibo e medicine.

Dal 15 marzo 2011 oltre metà della popolazione non ha più una casa, mezzo milione di persone ha perso la vita, 2 milioni sono rimaste ferite o mutilate e l'aspettativa di vita è passata dai 70 ai 55 anni.

Questi i numeri agghiaccianti che misurano la tragedia siriana, ancor di più se si pensa che i dati diffusi dal Syrian Centre for Policy Research non tengono conto delle ultime campagne di bombardamenti e di attacchi via terra nei distretti di Afrin e Ghouta.

Il 2017 è stato l'anno più devastante, per numero di morti e distruzione. E il 2018 sta andando ancora peggio, con oltre 600 persone uccise in due settimane nella sola area a Est di Damasco sotto l'assedio delle forze di Assad.

Se esiste un inferno in terra, la Siria è ciò che più gli assomiglia.

 

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