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sabato 20 gennaio 2018

 

Siria: La ferita infetta

 

Era stato fin troppo facile prevedere che, una volta sconfitte le milizie del Daesh, i vincitori avrebbero rischiato di scontrarsi fra loro, sul modello delle guerre balcaniche alla vigilia del primo conflitto mondiale. In mancanza di un tavolo diplomatico internazionale realmente funzionante, che possa mediare e far in qualche modo convergere interessi, aspirazioni, percezioni di insicurezza e minaccia profondamente divergenti dei diversi attori in gioco, la Siria continuerà a essere una ferita infetta nel sistema mediorientale.
Proprio il successo così eclatante del regime e dei suoi alleati russi e iraniani rinfocola le tensioni e alimenta una partita geopolitica che va ben oltre i confini di questo Paese martoriato, per attraversare tutto il Levante e il Golfo. Abbattuto il califfato nero di Raqqa, sconfitte sul campo le milizie salafite-jihadiste legate ai sauditi (e non solo), i governativi stanno ora costringendo alla ritirata, nella roccaforte di Idlib, nel nord della Siria, le milizie ex qaediste di Hayat Tahrir al-Sham (ex nel senso che hanno cambiato nome, ma la loro base teologica sembra rimasta la stessa), manovrate dalla Turchia. Ciò rende profondamente inquieta Ankara, che rischia di perdere le proprie pedine geostrategiche proprio mentre i suoi arci-nemici curdi delle milizie Sdf-Ypg si stanno rafforzando nel nord-est. Le azioni militari turche nella zona di Afrin – che potrebbero fare riesplodere il conflitto – sono una risposta anche all’improvvida mossa di Washington che ha sbandierato l’intenzione di rafforzare i propri alleati curdi.

Di fatto, al di là delle contingenze del campo di battaglia, la mancanza di un’azione diplomatica internazionale forte, che porti a una soluzione del conflitto spinge tutti i principali attori a cercare di ritagliarsi uno spazio geografico presidiato da forze fidate e manovrabili. Ma mentre le milizie sciite, hezbollah e le forze governative hanno padroni chiari, capaci di controllarle e guidarle, mentre le indebolite forze ex qaediste e salafite nel nord non possono che affidarsi alla Turchia, le forze curde rappresentano una pedina difficile da gestire e con forti tratti di autonomia. Oltretutto, le motivazioni dietro la scelta di Washington di annunciare l’addestramento sul campo di un corpo di 30mila combattenti nella regione "liberata" dalle milizie curde, sono più complesse e più ambigue di quanto appaia. 

Poche cose sono chiare nella bizzarra politica estera dell’Amministrazione Trump, ma fra esse vi è il sostegno acritico e interessato alla dinastia saudita, dopo gli anni di incomprensioni dell’era Obama, e un’ostilità ossessiva e totale contro la Repubblica islamica dell’Iran. Cosa che compiace Israele e i sauditi, ma che porta gli Stati Uniti a un duro confronto con i russi e genera incomprensioni con gli stessi europei. Ora, quanto sembra importare alla Casa Bianca è la creazione di una testa di ponte che serva a contrastare primariamente il rafforzamento dell’arco geostrategico costruito da Teheran, dall’Iran fino al Libano in questi ultimi due decenni. È il rafforzamento iraniano che Israele, Arabia Saudita e Stati Uniti intendono combattere a ogni costo. E secondariamente, si vuole sfidare l’innegabile successo politico-militare russo che rafforza Mosca nel Medio Oriente.

L’idea di usare lo spazio siriano occupato dalle milizie curde rischia tuttavia di essere una scommessa pericolosa: esaspera la Turchia, offre pretesti a russi e iraniani per rimanere in Siria, ma amplifica le tensioni e le divisioni anche con i curdi del Kurdistan iracheno, il cui governo quasi indipendente deve fare i conti proprio con Ankara e Teheran.
Ancora una volta, quindi, la composizione del puzzle siriano viene ostacolata dalla volontà americana di non considerare l’Iran e la Russia quali attori legittimi – per quanto ostici e persino brutali – nello scenario del Levante. Una posizione velleitaria, che amplifica i rischi di un ritorno a un conflitto generalizzato e che ci porta su quel terreno di cinica realpolitik in cui Mosca e Teheran hanno dimostrato di saper giocare con più decisione e senza esitazioni morali di sorta.

 

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