http://www.affarinternazionali.it/

16 Apr 2018

 

Siria: diritto d’intervento, missili ‘umanitari’ e armi chimiche

di Natalino Ronzitti

professore emerito di Diritto internazionale e consigliere scientifico dello IAI

 

Il bombardamento missilistico della Siria del 14 aprile non è una novità e segue analogo copione già sperimentato il 4 aprile dell’anno scorso con il raid su Khan Shaykhun. Questa volta, però, gli Stati Uniti non hanno agito da soli, ma hanno effettuato il raid insieme a Francia e Regno Unito. Al solito gli Stati Uniti non hanno dato alcuna giustificazione pertinente sotto il profilo del diritto internazionale, ma si sono limitati a dire che l’uso della forza era legittimo e proporzionato.

Si trattava di impedire che Assad ricorresse di nuovo all’arma chimica, facendo scempio di civili. Una sorta di deterrenza, già attuata con il raid di  Khan Shaykhun, che tuttavia  non ha funzionato, ammesso e non concesso che a Duma, il 7 aprile, fossero effettivamente state usate armi chimiche. La problematica giuridica, negli Stati Uniti, investe piuttosto il rapporto presidente- Congresso e la discussione concerne il punto se Trump possa agire autonomamente o debba invece ricevere un’autorizzazione parlamentare.

 

Le motivazioni del Regno Unito
Una precisa  motivazione sotto il profilo del diritto internazionale è stata invece data dal Regno Unito, che il 14 aprile ha pubblicato il documento “Syria action – Uk government legal position”. Si tratta di una dichiarazione accurata, ma non condivisibile nella parte relativa al fondamento giuridico del ricorso alla forza armata.

 

Secondo il documento, al Regno Unito sarebbe consentito, “in circostanze eccezionali”, di usare la forza in territorio altrui a titolo di intervento umanitario allo scopo di alleviare le sofferenze della popolazione, purché siano riscontrabili le seguenti tre condizioni:

L’esistenza di un’emergenza umanitaria riconosciuta dalla comunità internazionale nel suo insieme;

L‘inesistenza di mezzi alternativi all’uso della forza per salvare vite umane;

Il ricorso a un uso proporzionato della forza, finalizzato al solo obiettivo di alleviare le sofferenze della popolazione.

 

Senza ok CdS Onu non c’è diritto d’intervento umanitario
Sul punto ci siamo già espressi a proposito del raid su Khan Shaykhun e non rileva il fatto che il 14 aprile si sia trattato di un intervento collettivo e non di un singolo Stato. Di regola l’intervento umanitario comporta una prolungata presenza in territorio altrui allo scopo di cambiare la struttura del governo al potere, che sottopone a trattamenti disumani e degradanti la propria popolazione o una minoranza etnica. L’intervento può avvenire anche in soccorso degli insorti che combattono il governo costituito, che ha agito e agisce in violazione dei più elementari diritti umani.

 

Nel caso del bombardamento del 14 aprile niente di tutto questo ha avuto luogo. Si è trattato di un intervento più limitato allo scopo di impedire l’uso di armi di distruzione di massa, ma che niente aggiunge in termini di legalità/illegalità dell’intervento. L’uso della forza è vietato dalla Carta dell’Onu. E’ ammesso solo in legittima difesa individuale o collettiva  o se autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (CdS). Nel caso concreto nessuno dei tre Stati intervenienti aveva subito un attacco armato e il CdS non aveva autorizzato niente.

Non rileva, in proposito, che il Consiglio possa essere bloccato dal veto di un membro permanente. Non rileva neppure il fatto che la forza sia stata usata per impedire l’uso di armi di distruzione di massa. Nel 1981 Israele attaccò il reattore nucleare Osirak in Iraq, ma fu condannata dal CdS.

 

Il raid missilistico del 14 aprile è stato approvato, in termini più o meno calorosi, dagli occidentali. Per quanto riguarda l’Italia, il Governo dimissionario si è espresso in termini più cauti e meno entusiastici  rispetto alle dichiarazioni rilasciate in occasione del raid di Khan Shaykhun. Tra l’altro è stato sollevato il problema delle basi italiane e il premier Gentiloni ha affermato che non ne sarebbe stato consentito l’uso per raid in partenza dal territorio italiano. Il punto merita un approfondimento non possibile in questa sede, poiché è stata comunque concessa un’assistenza logistica.

 

Una responsabilità dell’Opac?
L’Opac (l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) ha condotto una missione d’inchiesta sul terreno a  Khan Shaykhun, accertando che erano state usate armi chimiche. Attualmente gli ispettori dell’Opac sono a Duma. La missione d’inchiesta verifica solo se siano state usate armi chimiche, senza attribuirne la responsabilità. Dopo l’adesione della Siria alla Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche (2013), la maggior parte di questi ordigni è stata distrutta, così come gli impianti per la loro produzione: un processo che si è prolungato fino al 2017.

 

E’ possibile che esistano ancora armi chimiche e/o che se ne continui ancora la produzione? Un’ipotesi è che le armi chimiche siano un residuo di quelle non dichiarate o site nel territorio che era in mano all’Isis, il sedicente Stato islamico. L’altra, più inquietante, è che siano ancora in funzione impianti per la loro produzione. Le armi chimiche sono difficile a distruggere, ma facili a produrre.

 

La Convenzione sul disarmo chimico vieta la produzione di armi chimiche e nello stesso tempo consente la produzione di materiali chimici usati per scopi pacifici (ad esempio in agricoltura). Per evitare che tali prodotti siano convertiti in armi chimiche, la Convenzione prevede rapporti dettagliati da parte dell’industria chimica e appropriate ispezioni. Tutto questo è stato fatto nel caso siriano? Il 14 aprile missili hanno colpito supposti siti di produzione di armi chimiche nella zona di Damasco e dintorni. Si trattava effettivamente di impianti per la produzione di armi chimiche o di stabilimenti per l’industria chimica? Tutto questo dovrebbe essere accertato con ispezioni ad hoc, senza limitarsi alla missione in corso a Duma.

 

Conclusione
Non esiste un diritto d’intervento umanitario esercitato dagli Stati singolarmente o collettivamente considerati, senza l’autorizzazione del CdS. Tale diritto non può essere esercitato neppure quando il CdS sia paralizzato dal veto di uno dei membri permanenti. E’ vero che una parte della comunità internazionale si è dichiarata a favore. Ma è altrettanto vero che una parte più numerosa è contraria. Quanto affermato vale anche in caso di ricorso a “missili umanitari”, che non comportano la dislocazione di truppe in territorio altrui, usati al solo scopo di impedire che uno Stato faccia di nuovo ricorso all’uso di armi di distruzione di massa.

 

Ciò detto, occorre ribadire:

l’uso di armi di distruzione di massa costituisce, come si legge nel documento britannico, un crimine internazionale, la cui repressione dovrebbe essere affidata alla Corte penale internazionale. Nel caso concreto l’impresa si rivela difficile se non impossibile: la Siria non ha ratificato lo statuto della Corte; né sarebbe possibile un deferimento della situazione alla Corte da parte del CdS, poiché una risoluzione in tal senso sarebbe bloccata dal veto russo.

 

Il ricorso alle armi chimiche costituisce una violazione nei confronti di tutti i membri della comunità internazionale. Essi hanno il diritto di reagire singolarmente e collettivamente con misure non implicanti l’uso della forza contro lo stato responsabile e i suoi sostenitori. L’impiego di misure restrittive (sanzioni) ne costituisce l’esempio più pertinente.

 

top