Fonte: Fulvio Scaglione

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12/10/2018

 

Ciò che è fatto a pezzi. Il caso Khashoggi, un mondo di silenzio

di Fulvio Scaglione

 

Se vivessimo in un mondo più o meno normale, oggi tutte le cancellerie occidentali sarebbero impegnate a chiedere chiarimenti e inviare proteste alla casa reale dell’Arabia Saudita. E qualche Governo più deciso degli altri potrebbe magari convocarne l’ambasciatore per avere spiegazioni. Invece quasi tutto tace e, a parte le indiscrezioni lasciate filtrare ad arte dai servizi segreti della Turchia, un silenzio appena imbarazzato accompagna la sorte di Jamal Khashoggi, giornalista assai noto e apprezzato in Arabia Saudita e non solo, visto che di recente era diventato anche editorialista per il “Washington Post”. Donald Trump, grande sostenitore dei sauditi, ha taciuto per giorni e poi si è detto «preoccupato», lasciando a Mike Pompeo, il segretario di Stato, il compito di sfidare il ridicolo e invocare presso i sauditi una «inchiesta accurata» sulla sorte del giornalista.

Il problema è che c’è poco su cui indagare. Khashoggi è entrato nel consolato del proprio Paese a Istanbul il 2 ottobre, lasciando la fidanzata turca sul marciapiede ad attenderlo. E non ne è mai uscito perché, fanno sapere i turchi, sarebbe stato ucciso, poi addirittura fatto a pezzi e infine portato via da un commando di quindici agenti arrivati lo stesso giorno su due voli privati decollati dalla capitale saudita Riad. Ci sono i nomi, ci sono i volti, si sa che alcuni di loro fanno parte della guardia personale del principe ereditario Mohammed bin Salman e che con loro viaggiava anche un anatomopatologo, a quanto pare incaricato di sovrintendere allo smembramento del corpo.

Khashoggi, peraltro, non era un fanatico oppositore o , per dire, un qualche sovversivo che voleva minare le basi del regno sunnita-wahabita. Al contrario, era un giornalista sperimentato e, a suo tempo, molto inserito negli ambienti della casa reale saudita. Più volte aveva fatto parte della delegazione ristretta che accompagna il principe nei suoi spostamenti internazionali. Purtroppo per lui, negli ultimi tempi aveva cominciato a manifestare qualche dubbio sulla bontà delle politiche di Mohammed bin Salman. La guerra nello Yemen, che non approda a nulla tra mille atrocità. Il piano per la riforma economica del regno, chiamato “Vision 2030”, che fa acqua. Le purghe ai danni dei notabili sauditi della vecchia guardia. Troppo, a quanto pare. Non l’ha salvato nemmeno il fatto di essersi trasferito negli Usa.

Che altro serve per un minimo di sdegno? Soprattutto in America e in Europa, dove la libertà della stampa e dei giornalisti è un bene considerato prezioso e come tale sempre difeso. Invece nulla o quasi, anche da parte dei Governi che pure, or non è molto, hanno duramente criticato la Turchia per i giornalisti messi sotto processo e poi costretti all’esilio. Destino triste, il loro. Ma non come essere fatti a pezzi con una sega in una sede diplomatica.

Quanto avviene, o meglio non avviene, in questi giorni riflette a perfezione lo stato delle relazioni internazionali, in cui tutto il gran parlare di diritti e valori non vale per gli “amici” ma solo per i “nemici”. E l’Arabia Saudita è un amico troppo importante per tutti. Trump (ma anche Obama prima di lui) incassa miliardi rifornendola di armi e la considera fondamentale, insieme con Israele, nell’asse che dovrebbe opporsi alla crescente influenza dell’Iran. Nell’aprile scorso, Mohammed bin Salman ha compiuto una visita negli Usa in cui è stato onorato non soltanto alla Casa Bianca ma anche dai superintelligenti e superdemocratici boss della Silicon Valley e di Hollywood. Prima di sbarcare negli Usa, peraltro, lo stesso Salman aveva fatto tappa a Londra dove, portando in dote 100 miliardi di investimenti per l’Inghilterra post-Brexit, era stato accolto con tutti gli onori, pranzo con la regina Elisabetta compreso. E più o meno altrettanto potremmo dire per quasi tutti i Paesi europei.

L’Arabia Saudita lo sa e ne approfitta con l’arroganza di chi si sente intoccabile. Adesso c’è il caso Khashoggi, ma è solo l’ultimo di una lunga serie. In agosto Cynthia Freeland, ministro degli Esteri del Canada, aveva osato chiedere con un tweet la liberazione di un gruppo di saudite arrestate per le loro campagne in favore dei diritti delle donne. Per tutta risposta i sauditi cacciarono l’ambasciatore canadese, bloccarono tutti i voli per il Canada, congelarono le relazioni economiche e invitarono le migliaia di studenti sauditi a tornare a casa.

Nel 2016, a causa delle sue azioni nello Yemen, l’Arabia Saudita fu inserita nella lista Onu dei Paesi che violano i diritti dei bambini in zone di guerra. Subito partì il ricatto, poi ammesso dallo stesso segretario Ban Ki-moon: o ci cancellate dalla lista o tagliamo i fondi all’Onu. E cancellazione fu. Con la scomparsa di Khashoggi finirà allo stesso modo. Male che vada, Mohammed bin Salman farà qualche telefonata, ricorderà questo o quell’affare, parlerà del prezzo del petrolio o del terrorismo in Medio Oriente. Ma non dovrà nemmeno incomodarsi, il mondo gira così e tutti quelli che devono saperlo già lo sanno.

 

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