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11 ottobre 2018

«La libertà di stampa è un lusso che non possiamo permettervi», dice la coppia di personaggi facilmente riconoscibili nella copertina che Altan ha regalato ai lettori dell’Espresso in edicola fino al 20 ottobre. Noi, a differenza di loro, pensiamo però che non sia un lusso in democrazia la stampa libera, il pensiero critico, il gusto dell’indipendenza. Questo è l’impegno che L’Espresso vuole riaffermare con i suoi lettori, ringraziando per la solidarietà di tutti e per ogni sostegno futuro. Ogni giornale aperto, ogni copia acquistata e regalata a un amico è un dispiacere che si dà a Erdogan e ai suoi epigoni italiani che continuano ad attaccare la stampa autonoma. La presentazione del nuovo numero di Marco Damilano


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12 ottobre 2018

Elogio dell’indipendenza
di Marco Damilano

«La democrazia non è possibile con i media», dice Erdogan. Un modello di Stato che esclude la critica. Per questo i suoi epigoni italiani ci attaccano. Il teorema è: la stampa è autonoma dal governo, quindi va contro il popolo. E deve essere delegittimata

a scena che riassume tutto è quel Matteo Salvini che abbandona il palazzo del governo, scende in piazza indossando la divisa della Marina, la maglietta blu che in tv si scurisce e appare nera, le stellette sul colletto, inseguito dal compare di governo, Luigi Di Maio in maniche di camicia bianca. Un’immagine che arriva nelle case degli italiani mentre tutte le authority indipendenti senza eccezione bocciano il Documento di programmazione economica e finanziaria, mai così drammatizzato, e i mercati vanno all’attacco dell’Italia. Indipendenza: è sempre stata considerata una qualità della democrazia, un valore da tutelare. L’indipendenza e l’autonomia della magistratura, della ricerca, della stampa. Ma adesso non è più così, l’indipendenza non è più una virtù.

A dirlo, meglio di tutti, è stato il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdo?an. «Ciò che conta per noi è come ci giudica il nostro popolo. La democrazia è fatta dal popolo, c’è democrazia se c’è il popolo. La democrazia non è possibile con i media: ho visto grandi paesi che sono governati dai media e non dai loro leader. Ogni volta che parlavo, loro mi dicevano: “i nostri media dicono, i nostri media scrivono”. Allora io gli ho detto: “Scordatevi dei media, ditemi quello che dice il vostro popolo”», ha detto il numero uno turco ad Ankara una settimana fa. Un ribaltamento totale di quanto si è creduto per due secoli o quasi in Occidente: non esiste democrazia senza informazione, è la buona informazione che fa da pilastro al sistema di garanzie liberaldemocratiche. Il contrordine di Erdo?an ricorda i tre slogan incisi sulla facciata del ministero della Verità in “1984” di George Orwell: la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. E la democrazia non è compatibile con i media, aggiunge Erdogan, lui infatti considera il giornalismo e la liberà di pensiero e di scrittura crimini da espiare. Centoventi giornalisti in galera, l’ex direttore di Cumhuriyet Can Dundar condannato a cinque anni per un’inchiesta sul traffico delle armi e in esilio in Germania, lo scrittore e giornalista Ahmet Altan condannato una settimana fa all’ergastolo con l’accusa di aver favorito il colpo di Stato del 2016, un’accusa analoga a quella mossa alla più prestigiosa scrittrice turca Asli Erdogan, imprigionata e poi rilasciata.

Parole e azioni che ci riportano nella notte più buia dell’Europa. Quella raccontata nel 1947 dal filologo Victor Klemperer, tedesco di origine ebraica, in “La lingua del Terzo Reich”, il suo taccuino, il suo diario degli anni di ascesa del nazismo in Germania. «Attualmente la parola popolo (Volk) si usa tanto spesso, parlando e scrivendo, quanto il sale nelle pietanze, su tutto si aggiunge un pizzico di popolo: festa del popolo, compagno del popolo, comunità di popolo, vicino al popolo, estraneo al popolo, venuto dal popolo...», annota Klemperer il 20 aprile 1933, quando Adolf Hitler compie 44 anni ed è cancelliere del Reich da tre mesi. «Quel che conta è mettere il capo a diretto contatto con il popolo, con tutto il popolo, non solo con i suoi rappresentanti. Volendo rintracciare nel passato questi concetti, ci si imbatte inevitabilmente in Rousseau. Per Rousseau, lo statista è l’uomo che parla al popolo, alla gente riunita sulla piazza del mercato, per Rousseau le manifestazioni sportive e artistiche, cui prenda parte la collettività, costituiscono istituzioni politiche e mezzi di propaganda».

La lingua del Terzo Reich è, prima di tutto, popolaresca più che popolare, povera, «di estrema povertà. La sua è una povertà di principio: è come se avesse fatto voto di povertà». Il suo segno di interpunzione dovrebbe essere il punto esclamativo, ma in realtà se ne fa un uso discreto perché «tutto è appello e esclamazione, con tanta naturalezza da renderlo inutile: dove sono infatti le affermazioni piane, semplici, da cui dovrebbero distinguersi quelle esclamative?». Abbondano i verbi meccanici come «sincronizzare, livellare, uniformare». L’aggettivo più ripetuto è “storico”: «È storico ogni discorso del Führer, anche se dice cento volte le stesse cose, storico è ogni suo incontro con il Duce, anche se non modifica in nulla le circostanze del momento, storica è la vittoria di una macchina da corsa tedesca, storica l’inaugurazione di una autostrada, storica è la festa del raccolto, ogni congresso del partito, storica ogni solennità di ogni genere. E poiché il Terzo Reich è fatto solo di solennità - si potrebbe dire che soffre di mancanza di quotidianità - ritiene che tutte le sue giornate siano storiche».

Qui ci vorrebbe un punto esclamativo, non di affermazione, ma di stupore. Perché, evidentemente, nelle nostre democrazie abbiamo messo in circolo molti anticorpi per difenderci dagli abissi del male di quell’oscuro passato, ma non quelli che ci preservano dalla banalizzazione del linguaggio e dalla necessità di trovare, a giustificazione di ogni difficoltà, i nemici - manco a dirlo - del popolo. Storico e senza precedenti è tutto quello che il governo gialloverde fa e soprattutto dice. Storica deve apparire a Danilo Toninelli ogni giornata che trascorre al ministero delle Infrastrutture, e con ragione, dal suo punto di vista: chi lo avrebbe mai detto che sarebbe arrivato alla guida di un ministero uno così? Storici sono il Def, lo scontro con l’Europa, il reddito di cittadinanza, la pensione di cittadinanza, la cancellazione della legge Fornero, la pace fiscale che ora si chiama così ma è il solito caro, vecchio condono. Chi si mette di traverso non capisce la storicità del momento, di questo istante, o è un nemico del popolo e dunque va cancellato. Indipendenza diventa così, automaticamente, la condizione di chi non è schierato con il governo, ovvero con il popolo. Una condizione di pericolo, da eliminare. Indipendenti sono i magistrati perché non eletti dal popolo e per questo Salvini li attacca. Indipendenti sono i componenti dell’Ufficio parlamentare di bilancio e per questo Di Maio li attacca. Indipendente è la Banca d’Italia e per questo il rivoluzionario in vacanza Alessandro Di Battista ne chiede lo stravolgimento della governance. Il Movimento 5 Stelle ha acceso molte speranze quando si era presentato come il network dei cittadini senza colore politico, dunque indipendenti dai partiti. Oggi si è trasformato nel partito più militarizzato di tutti, richiedendo un giuramento di fedeltà, la limpieza de sangre, a ogni militante, eletto, candidato a ricoprire una carica pubblica. A partire dal professor Giuseppe Conte, c’è anche lui a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio. Lui non scende in piazza, non si affaccia al balcone, non rassicura, non dispone, non parla. Si limita a carezzare e custodire il pennacchio del comando, il pennacchione della sua vanità personale. Non indipendente, ma dipendente, dipendentissimo dai suoi vice, quelli che vanno in piazza in camicia e maglietta, da loro ora dipendono, come si dice, i destini della Nazione.

Indipendente, naturalmente, è la stampa. Il giornalismo, l’informazione, la scrittura, i nemici dei nuovi democratici alla Erdo?an, in tutto il mondo. «La letteratura può soltanto influenzare l’animo umano, può cambiare una persona e una persona può provare a cambiare il mondo», ha detto il premio Nobel Svetlana Aleksievic a Francesca Mannocchi nella splendida intervista che pubblichiamo qui di seguito. Deve essere questo che fa paura ai nuovi capi, gli amici del popolo in cui non ci sono singole individualità, speranze o aspirazioni, ma tutti sono costretti a identificarsi nel sogno di chi guida il popolo.

In Italia, in un Paese dalla fragile tradizione democratica e dall’ancor più flebile orgoglio di categoria da parte dei giornalisti, il messaggio dei nuovi potenti rischia di arrivare come un’intimidazione per tutti. Salvini è partito dall’Espresso nel suo attacco, il 29 settembre, perché dal 1955 in poi, fino ad arrivare ad oggi, questo giornale è un sinonimo di indipendenza e di autonomia da ogni potere: politico, economico, editoriale. A ruota, come sempre, è arrivato Di Maio (6 ottobre) estendendo l’attacco a Repubblica, che dal 1976 ha portato sul quotidiano le stesse caratteristiche di autorevolezza e di critica al potere del nostro settimanale, il dna comune di Eugenio Scalfari, e a tutte le altre testate del gruppo. Ci attaccano in modo vile, augurandosi la nostra fine e la nostra estinzione, perché non possono confrontarsi con i nostri argomenti e con le nostre idee, che possono essere agitate in modo polemico ma sempre rispettoso delle persone, soprattutto dei nostri lettori. Hanno paura della nostra libertà, sapendo che siamo schierati ma non appoggiamo nessun partito e non abbiamo nessuna intenzione di sconfinare in un ruolo che non è il nostro.

In questo numero continuiamo a indagare nei luoghi dell’alternativa: una città come la Milano del sindaco Beppe Sala, la Cgil dilaniata al suo interno, le idee e le parole-chiave che ci offrono Helena Janeczek, Roberto Andò, Laura Pugno, Paolo Di Paolo, dopo il Decalogo della scorsa settimana. Nessuno di questi percorsi è scontato, niente va preso senza esercitare il pensiero critico, senza essere, come diceva qualcuno, all’opposizione di se stessi. Nel suo taccuino Klemperer scrive che l’interpunzione più importante è il punto interrogativo, «la posizione più lontana dalla stolida sicurezza di sé» dei potenti di ogni epoca.

Si può essere di parte, schierati, fedeli a se stessi e ugualmente critici, interrogativi, decisi ad ascoltare le domande più che a far calare dall’alto le risposte. Si può essere tenaci sostenitori di idee, principi, valori, identità e al tempo stesso essere indipendenti anche da noi stessi, dai nostri pregiudizi, da punti di vista logori e superati. Non pretendo che Salvini e Di Maio comprendano questo paradosso, ma questo è l’impegno che L’Espresso intende riaffermare con i suoi lettori, ringraziando per la solidarietà di tutti e per ogni sostegno futuro.

Ogni giornale aperto, ogni copia acquistata e regalata a un amico è un dispiacere che si dà a Erdo?an e ai suoi epigoni italiani. Un atto di civiltà, al contrario di quanto pensava anni fa uno dei leader (di sinistra) qui inserito in una rapida fotogallery di politici di ieri e di oggi che con L’Espresso hanno intrecciato polemiche furibonde nel corso degli anni. Nessuno di loro, va detto, era arrivato al punto di augurarsi la cancellazione di una voce avversaria o scomoda. «La libertà di stampa è un lusso che non possiamo permettervi», dice la coppia di personaggi facilmente riconoscibili nella copertina che Altan ha regalato ai lettori dell’Espresso. Noi, a differenza di loro, pensiamo però che non sia un lusso in democrazia la stampa libera, il pensiero critico, il gusto dell’indipendenza.
Da sempre contro il potere

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