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4 Settembre 2018

 

Il Tibet è vessato dalla Cina, ma nessuno lo racconta (e intanto i monaci si danno fuoco)

 

L’occupazione da parte di Pechino è più rigorosa che mai. I governi occidentali, spaventati all’idea di irritare il loro importante partner commerciale, rinunciano a dare visibilità a una questione gravissima e delicata

 

Se ne parla solo quando c’è una visita del Dalai Lama – o, in tono minore, dell’attore hollywoodiano Richard Gere. Altrimenti sull’occupazione del Tibet da parte della Cina (si potrà scrivere “occupazione”? O forse no perché, come scrive qui l’associazione Italia-Tibet, “Pechino potrebbe irritarsi”?), in atto dal 1950, ci sarebbe solo silenzio.

È una situazione di censura che presenta risvolti paradossali: dal 2009 sono stati quasi 160 i monaci che si sono dati fuoco, in una forma di suicidio rituale, per denunciare le condizioni difficili dei tibetani. Volevano far conoscere al mondo le violenze subite da parte dei cinesi, parlare della repressione sistematica in atto nei confronti della cultura, della lingua e dell’identità tibetana, mettere in evidenza la distruzione dell’ambiente naturale, gli arresti, le torture e condanne a morte senza processo. E invece nessuno ne parla: non ci sono campagne, non si fanno manifestazioni. Le uniche sono quelle dei gruppi degli emigrati tibetani (che sono parte in causa e, del resto, una delle pochissime fonti da cui provengono informazioni non ufficiali sul Paese.

La politica della Cina sulla questione è nota: vuole mantenere il controllo dell’area e il riserbo assoluto sull’argomento. La pressione è fortissima e agisce a più livelli, mettendo a tacere denunce risoluzioni, anche quelle portate avanti da parte dei maggiori organismi internazionali (Unione Europea compresa). Il Dalai Lama, considerato da Pechino espressione di un sistema di credenze religiose “medievali” che bloccano lo sviluppo del Tibet, nel 2011 ha rinunciato a rivestire il ruolo di guida politica del popolo tibetano, affidandola all’avvocato Lobsang Sangay, ora Primo Ministro del Governo in esilio. Una mossa strategica importante: il governo cinese non potrà approfittare del vuoto di potere provocato dalla morte del Dalai Lama per imporre un proprio uomo al governo del Paese. 

Gli scontri, insomma, continuano. Il Dalai Lama ha da tempo rinunciato a un’ipotesi di Tibet indipendente, privilegiando per il suo Paese una forma di autonomia da Pechino rimanendo nei confini cinesi (la cosiddetta Via di Mezzo). Ma nemmeno questa posizione ha ricevuto aperture da parte dei vertici cinesi. Pechino tira dritto: considera il Tibet un territorio suo, liberato dalle truppe di Mao che hanno portato libertà e progresso. Non ha nessuna intenzione di negoziare. Anzi, in cantiere ci sarebbero diversi progetti infrastrutturali, come la ferrovia Lanzhou Shigatse, che passando lungo l’Himalaya, raggiungerebbe Katmandu. Trasporterebbe, come si dice qui, “i coloni” e avvantaggerebbe il “riflusso di materie prime”.

 

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