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01 marzo 2019

 

Acqua avvelenata dalle industrie: e ora in Veneto è pericoloso bere dal rubinetto

di Luca Rinaldi

 

I composti chimici sversati nelle acque dalle industrie conciarie del vicentino sono contaminanti pericolosi con effetti gravi, soprattutto sulle donne. Un problema noto da anni ma su cui nessuno, o quasi, ha fatto qualcosa

 

Una cifra: 136 milioni di euro. È la stima del disastro ecologico fatta dall’Istituto superiore per la protezione ambientale (Ispra) per l’inquinamento da sostanza perfluoroalchiliche (Pfas) nell’area tra le province di Vicenza, Verona e Padova. La seconda falda acquifera più grande d’Europa porta i segni degli scarti dell’industria conciaria veneta e l’assenza di una normativa sui limiti agli scarichi. Così, per trent’anni, in natura sono stati sversati gli scarti delle sostanze utilizzate per impermeabilizzare abiti e pelli, produrre pentole antiaderenti o carta da forno. A questo servono i Pfas, che hanno contaminato nel tempo 180 mila chilometri quadrati fra le tre province venete coinvolgendo 50 comuni e 350 mila persone.

Gli ultimi studi in ordine di tempo hanno mostrato come gli Pfas siano causa di tumori e infertilità. Una storia fatta di inquinamento industriale, ma anche di reticenze, assenza delle istituzioni e finanza corsara. Fino all’arrivo di un commissario straordinario nominato dal governo a maggio per gestire l’emergenza e i denari per le bonifiche.

 

LA SCOPERTA DELL’INQUINAMENTO

Sono passati sei anni dallo studio dell’Irsa-Cnr che in seguito a una specifica convenzione con il ministero dell’Ambiente partorì il primo approfondimento sulla presenza delle sostanze perfluoroalchiliche nelle acque venete. Nel 2013, in Veneto l’Istituto effettuò il monitoraggio concentrandosi soprattutto nel distretto industriale di Valdagno e Valle del Chiampo. Qui si trova il più importante polo tessile e conciario italiano e lo stabilimento della Miteni, società che produce fluoricomposti a Trissino in provincia di Vicenza. Le analisi fecero emergere valori anomali delle sostanze nelle acque potabili campionate da punti di erogazioni sia pubblici che privati. Subito viene individuata quale fonte principale della contaminazione prima dalla ricerca Irsa, poi dell’Arpav e dai carabinieri del nucleo operativo ecologico, la stessa Miteni, attiva dagli anni ’70, quando si chiamava Rimar e la proprietà era della famiglia Marzotto.

Un inquinamento di vecchia data ma scoperto solo nel luglio 2013. Il Cnr lascia pochi dubbi e avverte del «possibile rischio sanitario per le popolazioni che bevono le acque prelevate dalla falda». Tuttavia, nonostante lo studio Irsa e la trasmissione dei dati dall’agenzia regionale per la protezione ambientale del Veneto (Arpav) alla Regione e alla procura la situazione rimane sotto traccia e senza apparenti sviluppi.

Nemmeno la costituzione del Coordinamento Acqua Libera dai Pfas (Legambiente insieme ad altre dodici associazioni), una campagna di sensibilizzazione e le denunce presentate contro ignoti alle procure di Vicenza e Verona sembrano scuotere le istituzioni. Almeno fino al 2016, quando il governatore Luca Zaia si fa avanti e chiede risorse al governo per un piano di interventi e monitoraggio sanitario, oltre che per l’installazione di filtri in grado di trattenere i contaminanti.

Con ritardo partono le analisi delle acque pubbliche e dei pozzi privati degli agricoltori e i risultati restituiscono una situazione che porta all’individuazione di una “zona rossa”: un momento che cambia radicalmente le abitudini di vita dei cittadini delle province esposte perché acqua, ortaggi e uova risultano contaminati.

 

LA STORIA IGNORATA

Ma davvero si può dire che fino al 2013 non c’era coscienza sulla presenza, sull’esposizione e i pericoli delle sostanze? Di sicuro c’è che a cavallo tra il 1990 e il 2009 (periodo in cui la proprietà dell’azienda era divisa tra Mitsubishi ed Eni e poi alla sola Mitsubishi) – quindi ben prima della ricerca Irsa-Cnr – la Miteni stessa aveva incaricato varie società di consulenza di effettuare delle indagini per valutare lo stato di inquinamento del sito e fornire possibili soluzioni per il confinamento della contaminazione rilevata. Come rileva un’analisi di Greenpeace, «Miteni, che aveva l’obbligo giuridico di comunicare agli enti competenti (Regione, Provincia e Comune) le risultanze emerse, non ha mai trasmesso i risultati delle indagini». La stessa società ha ricondotto la contaminazione a un incidente avvenuto nel 1967 sotto la gestione Marzotto con conseguente interramento di rifiuti industriali, ma mai ha informato di essere a conoscenza della sorgente dell’inquinamento e che la stessa mai sia stata rimossa continuando così a contaminare terreno e falda.

Nel 2005 – si è appreso leggendo il rapporto dei carabinieri del Noe – l’azienda procede anche all’installazione di una prima barriera idraulica per contenere la contaminazione. GreenPeace fa notare ancora come «Nel bilancio 2009, Miteni SpA fa poi riferimento all’implementazione di una barriera idraulica, “secondo i programmi concordati con le autorità locali».

Una indagine epidemiologica indipendente che concluse come alcuni composti Pfas, in particolare quelli a «catena lunga», avessero proprietà cancerogene e di interferenti endocrini provocando così ipercolesterolemia, coliti ulcerose, malattie tiroidee, tumori del testicolo e del rene.

 

«Come concorda tutto questo – si interrogano gli attivisti – con le ripetute asserzioni delle varie autorità locali, che sostengono di essere state informate di un “rischio PFAS” solo nel 2013?». Una domanda a cui probabilmente verrà data risposta se l’inchiesta chiusa a metà gennaio dalla procura di Vicenza avrà uno sbocco processuale.

Le accuse sono di avvelenamento delle acque e «disastro innominato» per i fatti accaduti fino al 2013, che gli stessi pm ritengono essere dolosi. I tre gruppi di indagati, in tutto 13 persone, sono ex manager Mitsubishi, i vertici della società Icig-International proprietaria di Icig Italia 3 holding srl, a cui è passato il controllo dell’azienda nel 2009 e i responsabili dello stabilimento e dell’area tecnica. Miteni negli ultimi anni si è sempre difesa sostenendo che dal 2017 gli scarichi «hanno valori inferiori ai limiti stabiliti per le acque potabili», e che l’azienda ha contribuito nel periodo solo allo 0,86% del carico totale di Pfas nello scarico consortile. «Il 99,14% – ha sostenuto il management dell’azienda – è immesso da altri e ovviamente continuerà», mettendo così sotto accusa tutto il distretto conciario della zona.

 

IN ITALIA IL FALLIMENTO, IN LUSSEMBURGO I MILIONI

L’ultimo proprietario di Miteni è il gruppo International Chemical Investors Group (ICIG), controllato dalla holding lussemburghese ICI SE. ICIG nel 2009 ha comprato dal gruppo Mitsubishi la società per un euro. Tra il 2007 e il 2016 mai è stato chiuso un bilancio in attivo. Una vendita anomala dietro cui potrebbe esserci, scrive ancora GreenPeace in un report, la stima di perdite dovute anche a rischi di tipo ambientale. Inoltre la forza lavoro si è ridotta nel tempo di circa il 30% e già nel 2016 il collegio sindacale nella relazione allegata al bilancio sottolineava il rischio per la continuità aziendale in assenza di una ricapitalizzazione. Nello stesso anno la holding proprietaria in Lussemburgo, che ha un fatturato di 2 miliardi di euro, registrava una cassa di circa 240 milioni di euro.

Eppure Miteni, dove i lavoratori presentano valori di Pfas nel sangue migliaia di volte superiori alla norma, lo scorso novembre è stata dichiarata fallita dal tribunale di Vicenza. Uno scoglio per i denari della bonifica, che verranno gestiti dal commissario straordinario Nicola dell’Acqua: la magistratura dovrà dunque dimostrare a processo la diretta responsabilità della holding lussemburghese per recuperare il denaro sufficiente a coprire la messa in sicurezza e per riaffermare il principio del «chi inquina paga».

 

IL PRECEDENTE IN OHIO

Eppure nel 2001 un episodio avrebbe dovuto fare da spartiacque, cioè la class action negli Stati Uniti degli abitanti dell’Ohio contro la multinazionale DuPont. Al termine del procedimento i residenti ottennero, grazie al lavoro del legale Robert Billot, un risarcimento di 300 milioni di dollari. 70 furono utilizzati per una indagine epidemiologica indipendente che concluse come alcuni composti Pfas, in particolare quelli a «catena lunga», avessero proprietà cancerogene e di interferenti endocrini provocando così ipercolesterolemia, coliti ulcerose, malattie tiroidee, tumori del testicolo e del rene. Da questa parte dell’oceano però i Pfas non sono previsti dalla legge come inquinanti e la pericolosità è messa in discussione.

Da almeno due anni le ricerche sui Pfas trovano sempre più spazio su riviste scientifiche di primaria importanza che stanno delineando un quadro preoccupante per le popolazioni colpite. Ultimo in ordine di tempo uno studio durato due anni del gruppo di ricerca dell’Università di Padova coordinato dal professor Carlo Foresta che ha analizzato i livelli ormonali delle ventenni residenti nell’area rossa della contaminazione: i risultati individuano il composto come responsabile dell’alterazione della fertilità della donna, provocando la poliabortività.

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