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giovedì 12 dicembre 2019

 

Algeria, il voto dell’astensione 

di Enrico Campofreda 

 

Il tam tam che corre sulle labbra dei giovani disoccupati (il 30% di ragazze e ragazzi d’Algeria fra i 18 e i 26 anni) è: oggi a casa, domani in strada. L’oggi è giorno di voto per le presidenziali sostenute con forza dall’uomo della forza, il generale Ahmed Saïd Salah.

 

Il tam tam che corre sulle labbra dei giovani disoccupati (il 30% di ragazze e ragazzi d’Algeria fra i 18 e i 26 anni) è: oggi a casa, domani in strada. L’oggi è giorno di voto per le presidenziali sostenute con forza dall’uomo della forza, il generale Ahmed Saïd Salah. Domani è giorno di preghiera, come quel 22 febbraio quando iniziò l’Hirak, il movimento di protesta che ha fatto cadere il presidente-raìs Bouteflika e che da mesi scuote un regime che cerca di perpetuarsi. Così gli osservatori s’aspettano una corposa astensione dell’elettorato algerino che, del resto, ha già espresso in passato (20% la percentuale delle ultime elezioni) la sua diaspora dal sistema. E se c’è una frangia di cittadini che in queste settimane ha risposto alle sollecitazioni di militari e Fln, sollecitazioni di vicinanza al voto, la spaccatura fra i due mondi è profonda. Gli elettori pro apparato, che dovranno scegliere fra candidati tutti prossimi al deposto ‘uomo-regime’, si sbracciano nel ricordare come il contestato esercito salvò il Paese dalla follìa jihadista del ‘decennio nero’ (1990-2000). Ma solo chi non c’era può credere a questa versione univoca dei fatti. Tutte le famiglie d’Algeria contano lutti per la passata guerra civile, combattuta senza esclusione di colpi e con massacri indiscriminati da parte del braccio armato del Fronte Islamico di Salvezza e dai reparti speciali delle Forze Armate.

 

Il voltare pagina, la riconciliazione fu una ricucitura parziale perché due degli elementi di quello scontro non sono stati mai sanati: l’arrivo di una vera democrazia - ignorata dal traghettatore Bouteflika - e l’equità sociale smentite dal familismo del suo clan, dalla conseguente corruzione, dalla repressione mai cessata come sa pure la nuova generazione, nata appunto dopo quel periodo e scesa in strada dalla scorsa primavera per mancanza di lavoro e prospettive d’ogni genere. Questa gioventù, sempre composta, sempre pacifica nei suoi cortei ha pagato con arresti (più di mille) il percorso di protesta. Ora non ripone nessuna speranza nei cinque candidati legati al passato e in nulla operosi per cercare migliorie. I loro curricula parlano chiaro. Abdelaziz Belaïd, il più giovane (56 anni) a proporsi come presidente è l’unico a non aver ricoperto cariche di ministro. E’ però cresciuto in seno al Fronte di Liberazione Nazionale, a lungo partito unico della nazione. Alle presidenziali del 2004 sostenne Ali Benflis, contro Bouteflika. Con le ‘aperture’ del 2012 formò un proprio gruppo il Fronte El Moustakbal e due anni dopo si presentò alle elezioni. La vendetta di Bouteflika consistette nel collocare proprio Benflis nel suo collegio del Nord-est, così Belaïd raccolse solo il 3% dei consensi. Ali Benflis di anni ne ha 75 e per due volte s’è opposto a Bouteflika senza successo. Ora che la sua pecora nera non c’è più, spera. E’ stato ministro della Giustizia prima del ‘decennio nero’. Tornò alla politica con Bouteflika, diventando per un triennio premier (2000-2003). Viene ricordato per l’emanazione d’un decreto che vietava ogni manifestazione dal 2001. Decreto cui più volte i governi algerini si sono richiamati, fino ai giorni nostri.

 

Albdelkader Bengrina, cinquantasettenne animatore d’un piccolo raggruppamento islamista (Al-Bina Al-Watani) che lo sostiene nella per lui impossibile corsa alla presidenza che i militari non permetterebbero mai. Tale presenza costituisce, però, l’alibi di ‘apertura e democrazia’ della lobby delle stellette che non dimentica come Bengrina nei mesi scorsi non muovesse obiezioni all’ipotesi d’una quinta candidatura presidenziale del vecchio e malato Bouteflika. Azzedine Mihoubi, sessantenne e giornalista assai gradito al regime, iniziò la carriera politica, quand’era ancora accesa la guerra interna, col Rassemblement National Démocretique, un partito che piace ai militari. Ricopriva l’incarico di ministro della Cultura nei giorni in cui la contestazione di febbraio ha preso avvio. Viene considerato un moderato fedele al sistema, e per questo è ben visto dal fronte di continuità col passato. Un altro vecchio perlomeno d’età (74 anni) è Abdelmadjid Tebboune. Fu primo ministro nel 2017 per pochi mesi, venne licenziato per aver colpito un affarista, appaltatore per conto del fratello del presidente Saïd Bouteflika. Eppure durante la crisi della recente contestazione si è espresso anche lui per un quinto mandato “all’eterno algerino”. Per questo panorama la gioventù disoccupata e al più sottopagata, 150-200 euro mensili per impieghi professionali da ottenere con la catena delle raccomandazioni, non vuole né può votare. E con loro migliaia di famiglie che vorrebbero un futuro. Dicono che l’Hirak proseguirà, chiunque sarà il presidente. Un presidente che guarda indietro non può guidare l’Algeria.

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