https://www.ilpost.it/

sabato 9 marzo 2019

 

Le proteste in Algeria, spiegate da Elena Zacchetti

 

Per capirle non basta raccontare di un presidente di 82 anni, malato, che vuole un altro mandato: bisogna andare indietro fino alla guerra civile degli anni Novanta

 

Negli ultimi sei anni l’Algeria ha vissuto in una specie di limbo politico. È uno dei paesi più stabili del Nord Africa, è stato solo sfiorato dalle cosiddette “primavere arabe” iniziate nel 2011, e di recente è stato governato da un circolo di politici, uomini d’affari e militari che di fatto hanno preso il posto di chi l’Algeria avrebbe dovuto guidarla per mandato popolare: il presidente Abdelaziz Bouteflika, 82 anni, che però dal 2013 non si fa quasi più vedere in pubblico a causa della paralisi e dei danni provocati da un ictus. Poco più di una settimana fa, l’1 marzo, centinaia di migliaia di persone sono uscite dal limbo e hanno cominciato a protestare contro il presidente e l’idea di una sua candidatura alle prossime elezioni per ottenere un quinto mandato. «C’è sempre un momento in cui l’insulto diventa troppo umiliante, anche per quelli che si sono abituati al dolore. Gli algerini hanno raggiunto quel momento», ha scritto Roula Khalaf, vicedirettrice del Financial Times.

Venerdì 8 marzo ci sono state nuove proteste, le più grandi finora: sono state perlopiù pacifiche e organizzate in diverse città del paese. Ad Algeri, la capitale, la polizia ha sparato i gas lacrimogeni per impedire alla folla di raggiungere il palazzo presidenziale, e circa 200 persone sono state arrestate.

 

Per capire quello che sta succedendo in Algeria, e perché si stanno tenendo le proteste più grandi degli ultimi trent’anni, non basta partire dal 2013, anno dell”ictus di Bouteflika. C’è da tornare molto più indietro, almeno a quel conflitto durato per tutti gli anni Novanta che impedì agli islamisti di andare al potere e nel quale furono uccise circa 150mila persone.

 

Fino a poco più di dieci giorni fa, in Algeria aveva prevalso il timore che nuove grandi proteste avrebbero potuto causare l’inizio di un conflitto violento. Per una parte della popolazione algerina, ma non per i più giovani, il ricordo della guerra civile degli anni Novanta continuava a essere intenso.

La guerra civile fu devastante per l’intero paese. Iniziò dopo il primo turno delle elezioni parlamentari del 1991 (le prime multipartitiche dall’indipendenza), stravinto dal principale partito islamista algerino, il Fronte islamico di salvezza. L’esercito, convinto che l’esito del secondo turno avrebbe portato all’instaurazione di uno stato islamico, annullò il risultato delle elezioni facendo di fatto un colpo di stato e prendendo il controllo del governo. Il Fronte islamico di salvezza fu messo fuori legge e migliaia dei suoi membri furono arrestati. Quando gli islamisti riuscirono a organizzarsi in gruppi e milizie, iniziò la guerra civile tra forze governative algerine, appoggiate dai paesi europei e dagli Stati Uniti, e ribelli. Come succede in molte guerre civili, le violenze furono brutali e coinvolsero anche i civili. La situazione cominciò a calmarsi soltanto nel 1999, dopo l’elezione a presidente di Bouteflika, fino a pacificarsi all’inizio degli anni Duemila.

 

Negli ultimi vent’anni il governo e l’esercito algerini hanno usato la paura di quelle violenze come argomento per indebolire qualsiasi movimento di ribellione, riuscendoci. Quando all’inizio del 2011 iniziarono le primavere arabe, le proteste contro i regimi decennali e autoritari del Nord Africa e del Medio Oriente, in Algeria si stette per lo più a guardare.

Il giornalista algerino Mohamed Amine ha spiegato ad al Monitor, sito specializzato di cose nordafricane e mediorientali, che le proteste che si tennero in Algeria nel 2011 furono in realtà solo una piccola estensione delle primavere arabe. «Le richieste dei manifestanti nei quartieri poveri erano così legate alle condizioni sociali ed economiche che erano chiamate “proteste dell’olio e dello zucchero”». Mentre nella vicina Tunisia la primavera araba portava alla destituzione del presidente Ben Ali, e nella vicina Libia alla guerra contro Muammar Gheddafi, in Algeria la ribellione fu assorbita piuttosto rapidamente grazie a un programma di politiche mirate, come l’introduzione di sussidi per l’acquisto di prodotti alimentari, l’aumento degli stipendi e l’apertura del settore pubblico a nuove assunzioni.

Le nuove misure erano state possibili grazie agli introiti della vendita del gas e del petrolio, risorse di cui l’Algeria è ricca. La paura di tornare alle violenze di una guerra civile aveva fatto il resto.

 

Oggi però le cose sono diverse e le proteste delle ultime due settimane potrebbero arrivare a un punto più avanzato di quello raggiunto nel 2011.

Anzitutto nel 2014 è cominciato a crollare il prezzo del petrolio, riducendo di parecchio la possibilità del governo algerino di finanziare grandi politiche economiche e sociali per ridurre il malcontento. Inoltre, l’annuncio della candidatura di Bouteflika per un quinto mandato presidenziale ha portato all’esasperazione una situazione già al limite, a cui si era arrivati dopo anni di politiche autoritarie, scandali di corruzione e misure inefficaci contro la disoccupazione. Le proteste delle ultime due settimane non si sono rivolte però solo contro Bouteflika: hanno preso di mira il cosiddetto “le pouvoir” (il potere), termine che molti algerini usano per descrivere coloro che governano il paese, tra cui membri del Fronte di liberazione nazionale (il partito di Bouteflika), alcuni potenti generali dell’esercito (come il capo dell’esercito, il generale Ahmed Gaid Salah), importanti uomini d’affari e anche il fratello minore del presidente, Said, 61 anni.

 

In Algeria la sfiducia verso il potere è una delle eredità della guerra civile degli anni Novanta, durante la quale le forze di sicurezza si occuparono di “far sparire” moltissime persone e i politici liberali di opposizione finirono per collaborare con i servizi segreti per contrastare i ribelli islamisti. Rana Jawad, corrispondente di BBC in Nord Africa, ha raccontato un aneddoto che aiuta a capire questo clima di paranoia. Ha scritto che un’attivista tunisina per i diritti umani che per anni ha visitato l’Algeria le ha detto che in passato la sfiducia era talmente tanta che le organizzazioni per la difesa dei diritti umani non condividevano le informazioni una con l’altra, bloccate dalla diffidenza reciproca.

Oggi la situazione rispetto al 2011 è quindi molto diversa. I cambiamenti non riguardano però solo i motivi della protesta, ma anche i loro partecipanti.

Alle ultime manifestazioni hanno partecipato soprattutto i giovani, che a differenza della generazione dei loro padri e dei loro nonni non hanno memoria della violentissima guerra civile degli anni Novanta: hanno molti meno freni e timori. Omar Belhouchet, direttore del quotidiano indipendente algerino El Watanha detto al New York Times che «i giovani non vogliono un quinto mandato» di Bouteflika: «Ne hanno abbastanza di questo regime autoritario che soffoca le persone, che spinge i propri cittadini a morire nel Mediterraneo», riferendosi ai migranti algerini che tentano di raggiungere via mare le coste europee. «L’intero sistema politico ha bisogno di essere cambiato».

 

Domenica scorsa il capo della campagna elettorale di Bouteflika, Abdelghani Zaalane, ha letto una proposta del presidente per provare disinnescare le proteste facendo un passo verso i manifestanti. Se Bouteflika verrà rieletto, scenario a oggi molto probabile, si impegnerà a convocare elezioni anticipate senza aspettare la fine naturale del suo mandato. Troppo poco e troppo tardi, hanno commentato gli studenti.

Secondo diversi media locali, ritirare ora la candidatura di Bouteflika per le prossime elezioni, fissate per il 18 aprile, potrebbe causare diversi problemi al suo partito, il Fronte di liberazione nazionale, che senza un successore forte e popolare rischierebbe di perdere quel potere che detiene dagli anni dell’indipendenza. Arrivati a questo punto, però, non è detto che per fermare le proteste sia sufficiente una decisione di questo tipo. «I problemi dell’Algeria sono, nelle parole di qualche osservatore della regione, più grandi di un presidente malato. Sono di un sistema che continua a funzionare grazie alle molte persone che lo tengono in piedi», ha concluso Rana Jawad.

 

 

top