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martedì 12 marzo 2019

 

Il clan Bouteflika ritira la candidatura e scippa le elezioni 

di Enrico Campofreda 

“Ogni Stato ha il suo esercito, ma in Algeria l’esercito è lo Stato” affermava in una recente intervista televisiva un ex membro dell’Intelligence locale, senza nascondere una realtà evidente. Né per quella nazione liberata dal giogo coloniale con le armi e ricondotta a una normalizzazione autoritaria con le armi del suo esercito, che già nel 1965, umiliava i combattenti della battaglia di Algeri. Opera dei Boumédiène e Bouteflika, passando per Bendjedid e soprattutto i presidenti-militari (Kafi e poi Zéroual) che ordinavano stragi notturne nelle case degli algerini, rapivano e uccidevano non solo i fondamentalisti del Gruppo Islamico Armato, ma qualsiasi cittadino, abitante di villaggio fosse sospettato di opposizione alla  legge marziale applicata per anni. Il ‘decennio nero’ della guerra civile resta lo spettro richiamato dalla linea del raggiro e della forza che ha tenuto in piedi per un quinquennio la sceneggiata del Bouteflika in carrozzina, maschera dietro cui agisce il nutrito clan che, in queste tre settimane di ribellione popolare, il mondo ha potuto conoscere.  

 

Il Bouteflika minore Said, il Capo di Stato maggiore delle Forze Armate Salah da tutti indicato come il pilastro del sistema, forte degli 800.000 militari in servizio, l’esercito più numeroso del continente. Il famigerato boss dell’Intelligence Tartag, mentre in queste ore che preparano il futuro il premier Ouyahia s’è messo in disparte a favore del suo ministro dell’Interno Bedoui.  La notizia del ritiro della candidatura del vecchio Bouteflika ha riportato la festa per via, ma deve fare i conti con la contropartita richiesta: la sospensione delle elezioni, che fa correre la mente a quel dicembre 1991 quando la consultazione vinta dal Fronte Islamico di Salvezza venne cancellata dal successivo colpo di stato militare. I manovratori del fantasma presidenziale parlano di sosta momentanea per riformulare la Costituzione, sottoporla e referendum e tornare alle urne. Passerebbe almeno un anno, forse più. Il tempo utile al clan di prendere le misure per tenere il passo con la rifiorita voglia di partecipazione della gente. Intanto Salah parlando nella locale Scuola militare, sonda l’umore di ufficiali e nuove leve e lancia messaggi trasversali.

 

Quando afferma che nessun partito algerino vuole un ritorno agli anni della paura, quasi ammonisce che uno stato protratto di agitazione e soprattutto non aderire al percorso che il gruppo di potere sta offrendo a un popolo insofferente, può diventare pericoloso. Il generale fa intendere che l’epoca buia, ben nota a chiunque abbia trent’anni, può ripresentarsi. E’ la minaccia del sistema, ora che non solo adolescenti e giovani, ma l’Algeria adulta e lavoratrice rimette la faccia nelle strade. Si teme che il ‘lavoro’ degli altri due padrini del clan di potere, finora utile a contenere le fila dei lavoratori con la centrale sindacale UGTA, e a orientare il Forum imprenditoriale, opera rispettivamente di monsieur Sidi-Said e monsieur Ali Haddad, abbia esaurito la funzione incantatrice e mediatrice. Non è detto che sia così, ma ci si prepara a ogni evenienza. Infatti il progetto di rimandare le consultazioni è subdolo come lo sono le parole di Salah: “l’esercito condivide le stesse aspirazioni del popolo”. E la piazza, finora decisa e gioiosa, potrebbe vedere scenari peggiori della breve primavera 2011.

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