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24 dicembre 2019

 

La vergogna di Natale di Netflix

di Daniele Dell'orco

 

Con grande piacere condividiamo questa interessante riflessione di Daniele Dell’Orco, giornalista e responsabile editoriale di “Idrovolante Edizioni”, sul recente caso della produzione blasfema di Netflix. Uno spaccato sulla natura distorsiva dell’asservimento delle priorità aziendali e della programmazione alle “logiche” degli algoritmi.

 

Alla festa per i suoi 30 anni Gesù si presenta a Nazareth con un biondo, baffuto e caricaturale fidanzato, e tra le varie cose deve fare i conti con una Maria che fuma, un Giuseppe geloso e un Dio Padre prepotente e seduttore.

 

“La prima tentazione di Cristo“, il film blasfemo del duo brasiliano Gregorio Duvivier e Fábio Porchat, sbarca su Netflix come “Speciale di Natale” vietato ai minori di 14 anni e pone una duplice questione: una di carattere politico e una di carattere morale.

 

Partiamo da quest’ultima.

Vi pare normale che una delle multinazionali simbolo dell’Occidente progressista e politicamente corretto, che predica rispetto per l’altro, tolleranza, accoglienza, antirazzismo e comprensione possa accettare di diffondere un film che, comicamente o meno, irride la confessione di miliardi di persone (nel solo Brasile, tra l’altro, vivono oltre 180 milioni di cristiani) proprio in occasione del Santo Natale? Netflix permetterebbe mai di mandare in onda un simile show con Maometto come protagonista?

La domanda è retorica, visto che qualcosa di simile in passato è già accaduto, quando su specifica richiesta del regime dell’Arabia Saudita rimosse un episodio di “Patriot Act”, uno show del comico statunitense Hasan Minhaj, e in particolare un episodio in cui Minhaj criticava il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. E questo è già grave.

Ma ora attenzione, perché l’altra questione è ben più complessa.

Netflix conta quasi 200 milioni di abbonati in tutto il mondo e con loro si comporta come fosse uno Stato di grandi dimensioni. Dispone, cioè, di una linea di condotta ideologica politica e civile che sottopone a chi versa la “tassa” comunemente chiamata abbonamento.

Ma il fatto che Netflix sia apertamente globalista e progressista non dipende solo dall’orientamento dei suoi fondatori (Reed Hastings ha finanziato la campagna elettorale di Hillary Clinton). Perché in una corporation del genere le persone chiave vanno e vengono. Sono i cittadini-clienti che rimangono. Tutti loro, com’è ormai tipico degli “Stati multimediali”, non rispondo a un Presidente del Consiglio, bensì a quel Leviatano immateriale chiamato algoritmo.

Ora, qualcuno si è mai chiesto come funziona l’algoritmo di Netflix?

Perché cioè, Netflix “consiglia” ai suoi utenti un film, una serie, un documentario piuttosto che un altro evitandogli la briga di dover scandagliare tutto il catalogo?

 

Si svolge tutto su due livelli.

Uno, quello classico, si basa sulla raccolta di dati dei singoli che mescola le interazioni con il servizio (attività di visione e valutazioni di altri titoli), le ricerche fatte da altri abbonati con preferenze simili alle nostre, la presenza di un genere, di una categoria, di un attore che ha già riscontrato il nostro interesse.

L’altro, molto meno ortodosso, è la vera magia di Netflix. Si tratta di un’analisi delle abitudini e dei comportamenti più raffinata che riguarda non l’offerta di serie tv o film ma direttamente la loro produzione. Cary Joji Fukunaga, che per Netflix ha diretto la serie “Maniac”, ha spiegato qualche mese fa a GQ America quali sono i criteri con cui Netflix costruisce un prodotto: “Sono una data company e sulla base della mia esperienza posso dire che sanno esattamente come gli spettatori guardano le cose. Quindi possono guardare la tua sceneggiatura e dirti: sappiamo che se girerai questa scena, perderemo tot spettatori in quel momento. Fa effetto. Non è come dire: abbiamo opinioni diverse, discutiamone e vediamo chi ha ragione. L’algoritmo ha sempre ragione, alla fine”.

La formula magica, allora, si basa sui profili etnici, politici, sociali e culturali dell’intera massa di utenti. Nel caso specifico, essendo evidentemente in larghissima parte secolarizzati, gradiscono di più la sceneggiatura de “La prima tentazione di Cristo” al trash (tragi)comico violento tout-court alla Charlie Hebdo, per intenderci. Se per assurdo da domani questi 200 milioni di avatar dovessero riscoprirsi tutti neonazisti in breve tempo l’algoritmo di Netflix lo capirebbe e gli sceneggiatori inizierebbero con buona probabilità a proporre film suprematisti, o apologetici, o antisemiti.

In base a questa logica perversa ai “cittadini di Netflix” non verrà mai sottoposto nulla di critico, ma solo ciò che vogliono vedere e vorranno vedere potenzialmente per sempre. È una mega bolla virtuale che non indottrina direttamente le persone ma asseconda e cavalca un processo di indottrinamento a cui sono già sottoposte. E da cui, in questo modo, non potranno rinsavire mai più.

È evidente che un meccanismo del genere debba porre dei seri interrogativi dal punto di vista dell’esercizio della sovranità. Perché quei 200 milioni di abbonati sono anche 200 milioni di elettori, che votano in decine di Stati diversi ma con la stessa base ideologica di fondo. Anziché masticare agenda politica locale, assaporano ogni giorno, nel loro tempo libero, piccoli cucchiaini di sciroppo ideologico che andranno a convertire a tempo debito in una X sulla scheda. E faranno “campagna elettorale” involontaria quando consiglieranno ad altri simili a loro di abbonarsi a Netflix. Quando il sistema Netflix, che cresce a dismisura, avrà reclutato un miliardo di persone, che fine farà il pluralismo? Che fine farà la libertà d’espressione?