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05 gennaio 2019

 

Come si esorcizza la morte? Con la letteratura. E passeggiando per cimiteri durante le feste

di Davide Brullo

 

Per rispondere alla morte l'uomo ha inventato la letteratura, ma nemmeno nei libri si sente più parlare del vuoto della fine. Visitare un cimitero nei giorni dell'Epifania, però, significa riavvicinarsi a questa consapevolezza. E abbandonare una vita mortificata

 

asce la letteratura come risposta alla morte. Perché si muore?, latra Gilgamesh; Perché la vita se c’è la morte?, urla Giobbe. I momenti cruciali degli ‘omerici’ riguardano la morte: la discesa verso l’Ade, verso i morti – che impongono giudizio e non ammettono consolatoria consolazione – la festa che glorifica il morto in battaglia. Il morto è spogliato, delle sue spoglie si rivestono i vivi – corazza, elmo, amuleto, bracciale, parastinchi, orecchini – per questo il morto non muore mai. Bruciare il morto, perciò, non è incenerirlo: è dimostrare la forza di luce della morte, il morto visibile per miglia, immediatamente risorto, immortale. Il morto fiammeggia, lungo l’arco intero della vita.

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Bruciare il morto, in pubblico, rispetto alla cremazione: l’edificio anonimo, il dolore inqualificato, l’urna con le ceneri, semplicemente brutta, neppure ambigua, che qualcuno rovescerà nel mare, al vento, in qualche pittoresco luogo privo di culto, finché, finalmente, il morto muore per sempre. Resta, certo, come un brillio nel nostro ricordo privato – fotografia rituale sul cassettone, messa in onore di, messa in ordine dei ricordi parentali, caute verbosità di cordoglio – non è più riscossa civica, ma dismissione della speranza, sperando nel giudizio universale, demandando all’Altro – o al nulla – la funzione funebre.

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Nessuno parla dei morti – non si fa – la letteratura, che nasce per dire l’ultima, la sola parola ai morti, non si occupa più della morte, infangata nella vita – che non è vita ma il preludio della morte, definitiva – nel dibatto, nel ‘sociale’.

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Per carità: amo atrocemente la vita – amo come un disperso e un disperato – perché dialogo ogni giorno con i morti, scrivo per loro, in fondo, si vive rispondendo alla promessa pattuita con i morti – per prolungare l’unico gesto di una generazione, della catena umana. Come puoi amare un vivo se non hai custodia dei morti, se non ci si ama come sopravvissuti?

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Ora che i morti sono morti davvero, li abbiamo davvero uccisi, non restano che i viventi, vuoti e assassini, e questa vita mortificata. Più o meno questo mi dice Silvio Castiglioni, nell’ultimo caffè dell’anno. Parliamo spesso di morti, io e Silvio: d’altronde, lui è un attore, conosce l’arte di riportare in vita le parole pronunciate dai morti, è una specie di sciamano del verbo. Cita, a memoria, un piccolo libro di W. G. Sebald, Le Alpi nel mare. Gli dico, minaccioso: mandamelo!

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“Oggi sono ancora attorno a noi, i morti, ma talvolta mi viene da pensare che forse spariranno presto… Perdono importanza a vista d’occhio. Non si può più parlare di ricordo imperituro e di culto degli avi. Tutto al contrario, i morti debbono essere tolti di mezzo il più in fretta possibile e nella maniera più radicale”. Così scrive Sebald.

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Ho visto turbe di morti accucciati nei golfi di nebbia, mentre guidavo oltre Faenza, nei ricami romagnoli, verso la Toscana. A volte hanno figura di airone, altri volto di serpe: se non li accudisci, con devota delicatezza, i morti cercano di riprendersi la vita, ti massacrano, cannibali. Oppure – appaiono come un ronzio nella testa, impongono fughe catatoniche, sfasciano l’ecosistema familiare, ti conducono alla perdita, perché è pur meglio la perdizione a questa sedizione dei desideri.

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I morti stanno morendo per sempre – ma se muoiono i morti, attenti, moriamo anche noi, e non ci sarà stipendio buono e giusto a risarcire questa morte. Le parole di Sebald mi precipitano nel libro fondamentale di Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte. Me lo ha regalato, molti anni fa, l’incontenibile Girolamo Melis. “Al giorno d’oggi non è normale essere morti, e questo è un fatto nuovo. Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile… Il culto dei morti va diminuendo. Si parla sempre meno dei morti, si abbrevia, si fa silenzio – discredito della morte. Finita la morte solenne e circostanziata in famiglia: si muore all’ospedale – extraterritorialità della morte. La morte è oscena e imbarazzante – e altrettanto lo diventa il lutto, il buon gusto è quello di nascondere ciò che può offuscare il benessere degli altri… Noi non abbiamo più esperienza della morte degli altri. La maggior parte non ha mai più l’occasione di vedere morire qualcuno. È qualcosa di impensabile in tutt’altro tipo di società”. Questo scrive Baudrillard. Era il 1976. Il libro è stato tradotto in Italia quarant’anni fa. Ormai, i morti sono morti.

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Il deragliamento della morte e della parola ‘morte’. Non scrivere mai la parola ‘morte’ è una regola generica – agghiacciante – per chi titola gli articoli dei giornali. Il morto è colui che ‘ci ha lasciato’, d’altronde sono sempre i migliori quelli che ‘se ne vanno’ – e dove vanno a finire? – alla morte comunque c’è rimedio, la sofferenza passa. Minchionerie. La morte è tale perché irrimediabile, per fortuna, perché ti pone di fronte a quesiti assolutamente inderogabili, e il dolore non può, non deve passare, altrimenti il morto muore davvero e noi con lui.

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Già. Gesù dice “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8, 21), ma fa tornare in vita chi era creduto morto (Lazzaro). Fa rivivere i morti come presenza viva nella vita reale – ci distoglie dalla muta e remissiva adorazione formale della morte.

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Durante le feste visito i cimiteri, quelli in cui non ho cari o parenti su cui sbriciolare qualche preghiera. Che gesto di grazia quello delle anziane che mettono fiori sulla tomba degli sconosciuti, che gratuità invincibile prendersi cura dell’ignoto, di chi non può concretamente ‘ricambiare il favore’. Quando crediamo di accudire i morti, sono loro che ci abbracciano.

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D’altronde, senza la presenza costante dei morti, i soli che muoiono siamo noi, i morituri, i vivi che credono di vivere, anche se non siamo che l’acume della memoria partorita da uno che non c’è più, chissà quando, chissà perché.

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Questo inconcepibile tabù della morte nell’energia creativa degli scrittori, eppure Dante vaga per i regni per vedere il viso di Beatrice, la defunta; eppure il canto di Petrarca s’innalza quando Laura muore, e Shakespeare muore per dare vita ai suoi morti e Hermann Broch, per dire la vita dell’Occidente, racconta la morte di Virgilio.

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Quante volte siamo morti a una vita per intraprenderne un’altra? Chi ha talento, muore ogni giorno, rapinando la vita. Anche per questo occorre dare virtù di vita ai morti: accarezzarli, durante la notte, ripercorrere i contorni delle mani, senza verifica di memoria – sempre fallimentare – solo perché non abbiamo altra foga che l’amare. Saranno loro a dirci, limpidi.