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Indice

1 - La ragion di Stato

2 - Antropologia della guerra

3 - La nascita di Usa e Urss

4 - La Grande Guerra

5 - Max Weber e la figura
del combattente

6 - La guerre c’est moi! Lo Stato moderno e il concetto di guerra

7 - Guerra e rivoluzione

8 - Guerriglia e istituzioni militari dopo Napoleone


17 giugno 2019

5 - Max Weber e la figura del combattente
by Giuseppe Gagliano

Il pensiero internazionale di Max Weber è al centro della quinta analisi dell’opera di Ekkehart Krippendorf curata da Giuseppe Gagliano.

Krippendorff prende in considerazione il pensiero politico di Max Weber: il padre delle moderne scienze sociali, spesso si occupò di politica internazionale, interesse non sorprendente da parte di un rappresentante della borghesia tedesca. Ciò che sorprende è piuttosto l’uso che lo studioso fa di concetti quali “i doveri di un popolo, imposti dal destino” e l’utilizzo insistito di espressioni come “onore nazionale”. Concetti e parole che sembrano contraddire la pretesa scientificità del pensiero weberiano, reintroducendo nell’analisi, in maniera neanche poi tanto sotterranea, “quei giudizi di valore di cui Weber riteneva di essersi sbarazzato in campo metodologico”. Il rovesciamento della razionalità politica weberiana, nell’ambito dell’analisi della politica mondiale, fu severamente sottolineato dal suo allievo Georgy Lukácks, il quale scriveva: 

questa scientificità apparente, questa rigida assenza di valori della sociologia è dunque, in realtà, il livello più alto finora raggiunto dall’irrazionalismo. Per la coerenza logica del pensiero di Weber, queste conseguenze irrazionali emergono più chiaramente. 

Weber fu spesso un fustigatore implacabile della condotta della classi dirigenti al potere, nella sua epoca (quella inglese è “un gregge di pecore”, i partiti americani sono “privi di idee, pure organizzazioni a caccia di posti di potere”, quella tedesca “un’orda di pazzi”), deplorò la vanità dei politici parvenu, i quali si compiacevano vanitosamente dell’esercizio del potere, ma non ha mai tradotto la presunta stupidità dei potenti, ch’egli pur bene descriveva in concetto politico, perché avrebbe in tal modo dovuto mettere in discussione quel tabù intellettuale, costituito per lui dalla ragionevolezza del potere statale.

Come tutto cominciò in Europa

Lo storico Mc Neill ha scritto sull’importanza delle epidemie e delle caste militari nella storia sociale europea. Egli considera epidemie e militari come “scrocconi sociali”: elementi patogeni e soldati sarebbero entrambi parassiti (micro parassiti i primi, macroparassiti i secondi). I soldati, specializzandosi nell’uso della forza, sono in grado di vivere senza produrre il cibo o i beni, che essi consumano. La modalità specifica con cui si sviluppa l’apparato militare e le armi che usa sono tanto il prodotto dello sviluppo tecnologico della società quanto delle strutture e dei rapporti sociali di classe: i tipi di armi non sono quindi neutrali dal punto di vista sociale, non sono il prodotto di una tecnologia socialmente imparziale, bensì riflettono i rapporti organizzativi di classe e quelli politici. Una dimostrazione di questo fatto viene rintracciata da Krippendorff nella prevalenza che in età romana tardo imperiale viene attribuita alla cavalleria piuttosto che alla fanteria. 

Nella tarda fase dell’Impero romano (di Occidente), la fanteria venne progressivamente sostituita dalla cavalleria armata e i compiti di difesa e di sicurezza – sia all’interno che verso l’esterno – vennero trasferiti a questa. Tuttavia non si trattò di una scelta “tecnica” a favore di un diverso e migliore sistema di armamenti, bensì dell’espressione della strisciante disintegrazione dello Stato e dell’erosione economica. L’esercito parassitario che, in quanto detentore monopolistico dell’uso della forza, andava alzando il sempre di più il proprio prezzo – non da ultimo il prezzo per il sostegno ai candidati al titolo imperiale – alla fine diventò troppo caro, il denaro in metallo scarseggiava ed iniziò un processo di disfacimento dell’esercito stabile. I soldati romani cominciarono ad approvvigionarsi da soli (…), il che condusse ad un indebolimento della disciplina e della predisposizione al combattimento della fanteria. Il lento dissolvimento della fanteria e la sua sostituzione con i cavalieri armati fu un fare di necessità virtù, poiché i cavalieri venivano reclutati dalle classi socialmente ed economicamente meglio collocate ed erano loro stessi in grado di fornire armi e dotazioni costose (…). 

La nascita del sistema feudale fra 700 ed anno 1000 e di soggettività politiche, certo molto diverse dallo Stato in senso moderno, fu implementato dalle caste militari, le quali avevano bisogno, dopo il disfacimento dell’Impero romano, di reinserirsi in un contesto istituzionale che ne giustificasse l’esistenza. 

Se la ricerca dello Stato fu un processo lungo, faticoso e solo imperfettamente completato, in età medioevale, ciò che riuscì ai guerrieri fu di costituirsi come classe dei cavalieri, la quale impose con successo il monopolio dell’uso fisico della forza in quanto diritto della propria classe(mentre solo più tardi sarà possibile concentrarlo nello Stato centrale). La sottomissione dei contadini resi sudditi, servi della gleba o semiliberi era una conseguenza del fatto che essi venivano spogliati delle armi ed esentati dal servizio di guerra, riservato ai signori (classe dei cavalieri). La fanteria composta da contadini, servi della gleba e schiavi, poteva combattere solo in casi eccezionali e solo al seguito, come truppa di sostegno con armamenti leggeri. Nel XVI secolo, una volta edificato l’edificio statale, l’esercito fu privato dei propri mezzi di produzione (le armi); è a questo punto che si compie la trasformazione dei militari da cavalieri feudali a ufficiali retribuiti. Ciò è forse anche un effetto dello sviluppo dell’economia capitalistica, il cui carattere essenziale è la separazione – imposta con le forme più diverse tra produttori e mezzi di produzione.


17 giugno 2019

 

6 - La guerre c’est moi! Lo Stato moderno e il concetto di guerra

di Giuseppe Gagliano

 

Sesto capitolo dell’analisi di Giuseppe Gagliano su “Lo Stato e la guerra” di Krippendorf, incentrato sulla nascita dello Stato moderno a partire dalle riflessioni sulla Guerra dei Trent’anni e la pace di Westfalia.

 

Nel 1648, la pace di Vestfalia conclude la guerra dei Trent’anni e segna la nascita dell’attuale sistema internazionale, consacrando lo Stato moderno come unico attore della politica, dotato di rappresentatività verso l’esterno e del monopolio della violenza legittima all’interno.

 

Tale risultato politico fu conseguito a seguito di uno sterminio di ampie proporzioni (vi furono zone come l’Assia o la Pomerania, in cui la perdita di popolazione si aggirò intorno al 60/70%). L’olocausto di una parte considerevole della popolazione fu il prezzo attraverso cui lo Stato riuscì ad affermarsi pienamente. Le classi dominanti raggiunsero la consapevolezza che l’unico strumento realmente efficace di legittimazione ideologica fosse il possesso di un esercito permanente, la qual cosa richiedeva però entrate stabili e durevoli, un’economia dalla quale si potessero ricavare tasse, vale a dire funzionante, ed infine una popolazione non troppo limitata. L’impulso delle classi di governo al ripopolamento non fu originato da ragioni umanitarie, quanto dalla necessità di costruire una base economica che finanziasse tale apparato militare. Anche l’organizzazione amministrativa e l’ideazione di un sistema di leggi (in sintesi l’elaborazione di una forma politica) furono in fondo funzionali alla costituzione di un esercito non mercenario. Anche non volendo comunque sposare la tesi (per alcuni estrema) circa la priorità temporale della nascita dell’esercito rispetto allo Stato, non si può non concordare sulla complementarietà della loro genesi, che si svolse in modo dialettico. 

 

Dal punto di vista sociologico, lo Stato moderno è un prodotto dell’aristocrazia europea, anche se questa dovette allearsi con l’emergente borghesia cittadina. Si trattò tuttavia, almeno all’inizio di un patto fra partner di diverso peso politico. La nobiltà, avendo nel corso del tempo assimilato, per educazione e prassi di vita, un solido istinto del potere, dimostrò una notevole capacità di adattamento alle nuove situazioni. Dovette apprendere i nuovi compiti del funzionario colto  e dell’ufficiale disciplinato, lasciando perdere le antiche abitudini vassallatiche e l’esercizio della violenza privata. L’aristocrazia portò comunque in dote al nuovo sistema assolutistico la propria capacità di organizzare e servirsi della guerra. La guerra – secondo lo storico dell’assolutismo, Perry Anderson – rimase centrale nel nuovo sistema internazionale. L’assolutismo è – secondo Anderson – la prima forma che assume lo Stato moderno: esso non significò, tuttavia, la fine del dominio di classe nobiliare. Il governo aristocratico venne riconfermato anche nel nuovo ordinamento, riprendendone i valori di “fedeltà al principe”, “disponibilità al sacrificio” e “distinzione naturale fra chi comanda e chi è comandato”, valori che trovavano ora una nuova concretizzazione nell’apparato militare. 

 

Sotto il profilo dell’analisi storico-politica del sistema internazionale, la ratifica dell’ordine statale, avvenuta nel 1648 comporta anche la legittimazione della guerra come metodo della politica degli Stati. Il trattato di pace non intendeva affatto creare una pace durevole o addirittura perpetua, bensì semmai un meccanismo di conclusione delle guerre future, una volta che esse avessero raggiunto lo scopo che i suoi promotori si erano prefissati o quando le parti ritenessero poco sensato continuarle. Il 1648 fu anche l’anno di nascita delle conferenze internazionali, intese come strumento per la conclusione delle guerre. La dottrina politica che giustificava la guerra come strumento naturale era quella dell’equilibrio: occorreva vi fosse equilibrio fra gli Stati o le coalizioni, per poter garantire l’esistenza di tutti. La teoria dell’equilibrio non era soltanto uno strumento di giustificazione della guerra: “le coalizioni aventi lo scopo di mantenere l’equilibrio fra gli Stati avevano anche la funzione della deterrenza, la quale, per essere credibile, doveva costantemente essere dimostrata in guerra, per ripristinare l’equilibrio, potenzialmente sempre messo in pericolo dalla logico e dalla dinamica del fattore insicurezza.” Secondo Krippendorff dunque lo Stato e la sua burocrazia non nascono per il mantenimento della pace. La politica sociale, quella economica o quella demografica, la creazione di amministrazioni moderne, burocratiche, l’unificazione e la crescita territoriale, tutto fin dall’inizio era in relazione con la capacità dello Stato di condurre la guerra.”

 

Sotto Luigi XIV, l’apparato statale francese sviluppò un’organizzazione centralizzata di una perfezione fino a quel momento sconosciuta, che divenne e rimase per lungo tempo modello di tutti i grandi e piccoli principi. Il Re Sole promosse, durante il proprio regno, ventinove guerre, che ebbero un costo umano di circa nove milioni di persone e provocarono un impoverimento della popolazione e delle casse statali. Nonostante tutto ciò, molti monarchi europei imitarono la politica del perseguimento della fama personale, mascherata da ragion di Stato, senza preoccuparsi delle più o meno note conseguenze  catastrofiche per l’economia e la popolazione. Fra costoro ci fu anche Federico II di Prussia. La Prussia ed il sistema di Brandeburgo, nato dal sistema del 1648, rappresentavano in un certo senso la forma più pura ed estrema dello Stato militare moderno. “Era, innanzitutto, l’esercito permanente che dava una base al potere statale, il quale rendeva possibile unire in unicum parti separate di un territorio. Esso era la stampella del dominio di una sola persona ed invero la colonna su cui fissava la sovranità. Il mantenimento di questo esercito rese necessario un nuovo sistema di tasse ed influenzò notevolmente tutta l’amministrazione, tanto che addirittura i governi provinciali sotto Federico Guglielmo I vennero denominati camere di guerra e di dominio.” (K. Frantz, Der Militärstaat, Berlino 1859). Mirabeau, l’ambasciatore francese alla corte prussiana alla corte prussiana, definì la Prussia come lo Stato che possiede un esercito e la cui unica industria è quella militare. Se Federico Guglielmo, nonostante la costruzione di un notevole apparato militare, non condusse alcuna guerra, il suo successore Federico II, detto il Grande, impegnò la Prussia in una serie di conflitti per la conquista ed il mantenimento della Slesia. Secondo Krippendorff, a prescindere dalle motivazioni politiche che il sovrano prussiano dette delle proprie iniziative belliche, il motivo reale della sua condotta va ricercato nella fame di gloria del re germanico. A conferma di ciò, esiste una lettera di Federico II all’amico filosofo, Voltaire.


30 giugno 2019

 

7 - Guerra e rivoluzione 

di Giuseppe Gagliano

 

Settima puntata dell’analisi di Giuseppe Gagliano sull’opera più importante di Ekkehart Krippendorf, incentrata sullo studio della Rivoluzione francese.

 

Secondo Krippendorff, la storia non è solo ciò che è rimasto, ma anche ciò che avrebbe potuto essere e non si è realizzato. Generalmente, gli storici guardano con benevola sufficienza ai vinti, a coloro che erano portatori di prospettive, che sono state storicamente sconfitte, bollandoli come utopisti. I vinti, nella storia, vengono quasi sempre considerati con affettuosa commiserazione, perché magari poco rispettosi dei rapporti di forza esistenti. 

È possibile istituire un filo rosso, che leghi fra loro la rivolta degli schiavi nell’antica Roma (Spartaco) ai moderni pacifisti. Non si può dire che gli storici non serbino verso costoro una certa simpatia, ma si tratta di una simpatia venata da un certo compatimento. Lo stesso compatimento e la stessa simpatia che viene riservata agli ingenui. Raramente, gli studiosi prendono in considerazione l’idea che il corso degli eventi avrebbe potuto svolgersi differentemente da come si è storicamente realizzato. A buon diritto, la Rivoluzione Francese viene considerato l’evento storico più importante della Storia Moderna, in quanto da esso prende il via la trasformazione dello Stato dinastico in Stato nazionale con ciò che storicamente ne è conseguito. 

 

La Rivoluzione Francese segna anche la nascita della moderna democrazia. Krippendorff, basandosi sugli studi dello studioso tedesco Otto Hintze, prende in considerazione quelle tesi politiche che, molto diffuse in epoca rivoluzionaria, sono state politicamente accantonate nel corso della Rivoluzione in favore di una prospettiva statalista che si rivelerà vincente. Si tratta di teorie di origine rousseauiana sul dissolvimento delle unità statali territorialmente centralizzate in federazioni di comunità agricole auto amministrate. Tali tesi, oggi liquidate dalla storiografia contemporanea come chimeriche e scarsamente attuabili, ebbero in effetti nel XVIII secolo grande diffusione presso l’intellettualità europea dell’epoca, come il già citato Hintze afferma, nel suo Staatseinheit und Föderalismus:

Vi era una sorta di repubblica sovranazionale dei dotti, che si preoccupava poco delle lotte delle monarchie, mentre l’odio fra i popoli, che successivamente avvelenerà il nazionalismo, era all’epoca una cosa abbastanza sconosciuta. Anche la rivoluzione francese, nella sua prima fase, ha caratteristiche umanitarie e pacifiste. Se movimento federale significava il tentativo di fondere volontariamente le piccole patrie, limitate territorialmente, alla grande patria Francia, questa Francia doveva essere da parte sua una famiglia tra le altre famiglie nazionali; il nazionalismo appena nato voleva subito ampliarsi e divenire internazionalismo; si sognava una patria comune europea, una vera e propria patria dell’umanità.

 

Si trattava di una prospettiva condivisa in principio sia dai girondini, che – per bocca di Mirabeau ancora del 1791 – annunciavano che forse non era lontano il tempo in cui sarebbero stati cancellati i confini fra tutti gli Stati, quanto ai giacobini. Anzi proprio questi ultimi ne erano i più convinti assertori. Nel 1792, il montagnardo Lavicomterié scrisse un libro sulla municipalizzazione della Francia, concludendo: “Che male c’è se vi sono 83 repubbliche, se noi siamo felici”. Federalismo, felicità e pace fra i popoli costituivano un trinomio indissolubile, nei discorsi di molti capi rivoluzionari. Come mai dunque la prospettiva pacifista venne accantonata in favore di quella dittatoriale e militarista? 

Occorre preliminarmente dire che la strategia di esportazione della rivoluzione, attraverso le armi, fu portata avanti dalla Destra borghese e da quella parte della Gironda, che faceva capo a Brissot, nell’illusione che lo stato di guerra contro l’Europa fosse compatibile con il mantenimento dei diritti umani all’interno della Francia. È utile anche ricordare come non sia stata la Francia rivoluzionaria ad iniziare la guerra, ma che essa fu attaccata dai grandi Stati monarchici europei coalizzatisi contro di lei. Se ciò accadde fu tuttavia a causa della retorica militarista e nazionalista sviluppata dai Girondini, che minacciava le monarchie nazionali europee, erodendone dall’interno il consenso, oltre a costituire una sorta di pericolosa provocazione. Contro questa strategia, l’appello internazionalista e pacifista dei montagnardi in favore del disarmo unilaterale si rivelò scarsamente efficace.

 

Ancora, nel 1792, l’idea si potessero esportare gli ideali democratici e rivoluzionari, attraverso le baionette, veniva aspramente criticata dai radicali ed in particolare da Robespierre, che, nel convento di Saint Jacob, tuonava giustamente: “Nessuno ama i missionari armati ed il primo consiglio che danno la natura e la ragione è di respingerli come nemici”; lo stesso leader democratico metteva anzi in luce come la guerra avrebbe portato la stessa rivoluzione francese verso un’involuzione burocratica e militarista. 

I fatti daranno ragione a Robespierre, che poi tale militarizzazione della rivoluzione si sarebbe attuata compiutamente sotto la sua guida e quella del proprio partito, trascinato in una guerra, che non desiderava, dalla borghesia nazionalista, è solo una delle tante ironie della storia. La militarizzazione della rivoluzione e dell’economia, della società e delle strutture statali fu dunque l’esito di una decisione presa almeno parzialmente all’interno della stessa rivoluzione (dalla Gironda alto borghese). Si optò per una strategia di conquista e di espansione a spese della strategia federativa, pacifista e non militare. 

 

Da allora in poi non fu più possibile tornare indietro. Coerente con questa scelta fu quella di introdurre la coscrizione obbligatoria, anche per l’inutilizzabilità dell’esercito professionale, per ragioni prevalentemente finanziarie. L’appello alla Nazione in armi, al dovere che ogni membro della comunità la difenda attraverso il proprio sacrificio diverrà poi rituale anche al di fuori dei confini francesi e anche in contesti politico-istituzionali diversi rispetto alla Democrazia. Krippendorff cita, con amara ironia, l’Enciclopedia 

Britannica che, alla voce coscrizione, recita: “non c’è forse nessuna norma del diritto delle varie nazioni che abbia avuto tanta influenza sul destino dell’umanità come questa poco conosciuta legge francese”. Il nuovo esercito rivoluzionario venne poi rapidamente professionalizzato, accantonando quegli elementi di democrazia interna (ad esempio nella scelta degli ufficiali), che la Guardia Nazionale aveva assunto ai suoi esordi. Con la fusione, decisa nel febbraio 1793, fra Guardia Nazionale e vecchio esercito si compì poi il passo decisivo verso la ricostruzione e la continuità dell’apparato militare francese. Attorno al 1797, dopo la fine della dittatura robespierrista e prima dell’avvento di Napoleone, la Francia era, secondo Mc Neill, uno Stato ampiamente militarizzato. Lo studioso britannico, Best, autore del volume War and Society in Revolutionary Europe, rincara la dose, affermando: 

La Francia in guerra era un Paese non libero, con un’economia diretta dallo Stato (nella quale invero gli imprenditori se la passavano bene), una stampa controllata, una polizia segreta onnipotente. 

 

Ed ancora:

La Francia negli ultimi anni ’90 era diventata di fatto uno Stato militare, al punto che la sua trasformazione in dittatura militare rappresentò solo la logica fine di un’evoluzione.

Sostanzialmente, anche se Napoleone non si fosse fatto avanti, difficilmente la ricostruzione nazionale sarebbe avvenuta su basi del tutto diverse; lo stesso Krippendorff ci ricorda come Bonaparte non fosse l’unico candidato alla dittatura. Ciò che è importante comunque mettere in luce è che l’alternativa fra centralismo statale e federalismo municipale non si poneva più. Con ciò non si vuole mettere in secondo piano il ruolo di Napoleone, nella storia francese ed europea: la riorganizzazione dello Stato in senso non solo centralistico ma militare, attraverso il recupero di strutture appartenenti all’ancien régime,fu una scelta deliberata e niente affatto obbligata. L’esercito (considerato dal nuovo uomo forte come sinonimo di efficienza) divenne il modello, cui venne improntata l’impalcatura istituzionale della nuova Francia. Il nuovo sistema statale, che derivava dalla riforma napoleonica in Europa e sopravvisse alla sconfitta stessa della Francia, era in definitiva il vecchio ordine statale militare legittimato ora dalla nazione. Secondo Krippendorff, anche questo stato di cose non era comunque privo di alternative.


6 luglio 2019

 

8 - Guerriglia e istituzioni militari dopo Napoleone

di Giuseppe Gagliano

 

Si conclude oggi con l’ottavo capitolo la lunga analisi di Giuseppe Gagliano sull’opera più importante di Ekkehart Krippendorf.

 

L’espansione napoleonica provocò reazioni da parte delle popolazioni  occupate, vittime di spoliazione da parte dei soldati francesi. Una volta dissoltosi l’equivoco, secondo cui la Grande Armé sarebbe stata portatrice di indipendenza e libertà(equivoco che aveva inizialmente procurato simpatie agli occupanti francesi da parte di consistenti settori della borghesia europea) si sviluppò in alcuni Paesi occupati (Spagna, Russia e Prussia) una resistenza popolare verso l’armata napoleonica. Tale forma di resistenza militare assunse le forme della guerriglia ed ebbe origine in Spagna. Malgrado tali forme di lotta si fossero messe al servizio delle vecchie dinastie spodestate ed operassero in favore di una restaurazione monarchica e legittimista, il loro carattere era, secondo Krippendorf, obiettivamente rivoluzionario, poiché la guerriglia  in quanto guerra popolare non è soltanto guerra contro il dominio straniero ma, per esteso, anche contro il dominio repressivo dello Stato. Si tratta di una guerra popolare che si sottrae alle regole del gioco tradizionali, rifiutando organizzazione e gerarchie. L’insita pericolosità politica della guerriglia non sfuggì né ai Borboni né ai Romanov, che pure se ne servirono in chiave anti-francese: come sarebbe stato possibile che il popolo, protagonista della resistenza anti-bonapartista, non facesse in seguito pesare le proprie richieste di fronte ai restaurati sovrani?!

 

La casa reale spagnola, in particolare, una volta diminuita l’utilità dei guerrilleros dal punto di vista puramente militare di fronte all’importanza sempre crescente dell’armata di Wellington cercò di disfarsene, dopo gli inutili tentativi – da parte della Junta militare – di disciplinarne l’azione.  Krippendorff, a tale proposito, fa un parallelo fra i legittimisti borbonici spagnoli del XIX secolo ed i partigiani italiani, che combatterono i nazifascisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale:

 

Se al posto della Spagna dell’anno 1808 si prende l’Italia degli anni 1943-45 e al posto del duca inglese di Wellington, il comandante in capo delle truppe alleate generale Alexander, ecco che si evidenzia anche in questo caso la diretta attualità della guerra: i partigiani italiani, divenuti non più necessari, a causa del loro potenziale sociale rivoluzionario, vennero sostenuti pochissimo, in molti casi di fatto abbandonati nelle mani delle truppe tedesche e fasciste, e subito dopo la fine della guerra immediatamente privati delle armi.

Anche in Prussia, la Lega della Virtù, guidata dal maggiore Schill, incarnò qualcosa di simile alla guerriglia spagnola, sebbene con ampiezza e consistenza numerica minore; a differenza di quanto avrebbero fatto, almeno in un primo tempo i Borboni, però, la casa reale prussiana, a favore della quale questo movimento di liberazione dal basso pensava di combattere e congiurare, ne prese subito le distanze: di conseguenza i combattenti fatti prigionieri dai Francesi poterono essere fucilati come banditi.

Una volta sconfitto Napoleone, l’ordine europeo venne restaurato : gli Stati e le loro dinastie nuove-vecchie si confermarono reciprocamente, ribadendo i loro possedimenti territoriali, secondo una nuova distribuzione. Sulla scorta dello storiografo Taylor, Krippendorff nega qualsiasi originalità al principio dell’equilibrio europeo, formula partorita in seno al Congresso di Vienna del 1814-15 ed elaborata da Metternich.  

Come già Taylor, anche Krippendorff asserisce che non fu Metternich a sviluppare il sistema dell’equilibrio delle forze, né egli avrebbe fornito un particolare contributo per svilupparlo: le grandi potenze esistevano anche senza questo equilibrio ed alla teoria della politica internazionale, egli avrebbe offerto solo una serie di banalità. L’autore sottolinea come l’intera personalità dello statista austriaco, oggetto di ambigua rivalutazione da parte dei liberali contemporanei, fosse assolutamente mediocre. Molte delle famose massime del diplomatico viennese (“deve tutto peggiorare, prima che migliori” o “dopo la guerra l’Europa ha bisogno della pace”) sono improntate ad una sconfortante convenzionalità e molti osservatori a lui coevi hanno messo in rilievo la vanità e l’autocompiacimento dell’uomo. Del resto la stessa teoria dell’equilibrio delle forze, cui sono dedicate intere biblioteche, non è forse anch’essa un prodotto intellettuale assai poco sofisticato: è banale come la personalità di Metternich e nonostante questo, anzi forse proprio per la sua semplicità, ha avuto grande influenza.

La cosa più rimarchevole, dal punto di vista culturale, nei decenni dopo il 1815, fu la popolarizzazione dell’esercito: quasi dappertutto fu introdotta la coscrizione obbligatoria per l’intera popolazione maschile; la funzione repressiva dell’esercito venne mascherata attraverso il velo  della nazionalizzazione, che ne occultò il carattere di strumento di dominio. 

Tale operazione non poté funzionare ovunque: l’impopolarità del governo zarista impedì ad esempio che qui potesse essere introdotta la leva obbligatoria; per ragioni diverse essa fu abolita in Francia, in cui i restaurati Borboni temevano che un esercito nazionale potesse divenire un pericolo per loro e per le classi al potere, data la perdurante simpatia nei confronti dell’ormai sconfitto Napoleone. L’esercito francese rimase durante tutto il XIX secolo un “vero esercito di caserma”, che conduceva una vita isolata al di fuori della Nazione. Aveva un numero di effettivi abbastanza esiguo (240.000 unità), in quanto la sua funzione non era quella di strumento di politica estera, quanto di polizia interna. 

 

Tolstoj – guerra e Stato

Il romanzo Guerra e Pace di Leone Tolstoj è considerato unanimemente una delle maggiori opere letterarie. Tuttavia l’opera tolstoiana è molto più di un romanzo; essa costituisce anche un tentativo di affrontare il problema della verità storica. La critica letteraria ha comunque ritenuto irrilevanti ed artificiose la filosofia della storia e la spiegazione della guerra che sono alla base dell’opera. Si è trattato di temi che hanno impegnato lo scrittore russo anche decenni dopo la stesura del proprio capolavoro ed ai quali alla fine Tolstoj giunse a trovare una risposta per lui soddisfacente: “Finché continueranno ad esistere governi ed eserciti, la fine delle guerre non è possibile.” Egli espose tali conclusioni in numerosi volantini, pamphlet, lettere (tra le altri a Gandhi) e saggi. La condotta di Tolstoj finirà per dividere i suoi ammiratori, alcuni dei quali chiederanno invano allo scrittore di tornare alla pura letteratura. Al contrario, Rosa Luxembourg e Lenin si occuperanno di lui e della sua importanza per la futura rivoluzione. La sostanza circa il nesso tra guerra e Stato per Tolstoj può essere esemplificato da questa frase: “(…) ogni governo ed a maggior ragione un governo al quale viene lasciato il potere militare è un’istituzione terribile, anzi la più pericolosa del Mondo”

 

8 – fine