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04 settembre 2019

 

"Chi non legge condanna il mondo al trionfo delle bestie apocalittiche". Harold Bloom riscopre il sacro nella letteratura 

 

Possessed by memory, il nuovo libro dello scrittore americano, allinea tutti i miti di una carriera straordinaria, dai Salmi a Lev Tolstoj, e ridà centralità agli autori del passato

 

Quando era più pimpante, Harold Bloom incendiava. In una fatidica intervista disse che Dario Fo era “semplicemente ridicolo”, che Toni Morrison non era degna del Nobel per la letteratura (“Siamo vecchi amici e le voglio bene. Ma dopo Amatissima ha scritto solo supermarket fiction, perseguendo una crociata socio-politica”), che Il giovane Holden “fra 30 anni, chi se lo ricorderà?”. Rifiutò un invito a corte da parte di Giovanni Paolo II (“Cristianità è sinonimo di antisemitismo”), difendeva la grande letteratura dei “maschi, europei, bianchi, defunti”, allineati nell’epocale Canone Occidentale (in Italia lo stampa Bur), mettendosi contro mezza accademia. Ci ha insegnato a volare alto, a pretendere, dai libri, un abisso, imponendo allo scrittore di essere un devastatore di mondi, un ideatore di cosmi. Per altro, scrive benissimo.

 

Mesce la scrittura al sacro, il libro al Libro, la letteratura alla teologia, Harold Bloom, con l’ambiguo intento, credo, di defraudare Iddio dal suo trono. A suo dire, i poeti sono angeli e gli scrittori Titani: che riconquistino il cielo dove abita l’usurpatore, il Dio-monolite. In ogni caso, Il Genio, costruito secondo la sequenza della Kabbalah, è un libro enciclopedico e semplice, un perpetuo invito alla lettura e alla vigoria di verbi verticali. Il libro che preferisco, Rovinare le sacre verità. Poesia e fede dalla Bibbia a oggi era stampato da Garzanti, era il 1992, chi lo pubblica più? Un tot di anni fa, quando pareva che Bloom ci lasciasse le penne, mi chiesero un ‘coccodrillo’ precauzionale. Questa operazione da becchino giornalista non mi garbava. Scrissi. Bloom sopravvisse. Cancellai tutto, ispirandogli, mi auguro, una vita decuplicata.

Harold Bloom, nato a New York da un ebreo di Odessa, ha compiuto il mese scorso 89 anni, una cifra mistica. L’8 rovesciato è l’infinito; il 9 è la trinità al cubo. Per festeggiarsi ha pubblicato un nuovo libro, per Knopf, Possessed by Memory. The Inward Light of Criticism, in cui allinea i suoi ‘miti’, dal libro dei Salmi a Lev Tolstoj, dall’Ecclesiaste a William B. Yeats e Delmore Schwartz. Il bello di Bloom è che è assertivo, colto, ironico, gnostico. Dicono, va da sé, che proprio questo sia “il suo libro più personale e persuasivo”.

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Insieme ad Harold Bloom – per quel che conta – sono certo della grandezza di Wallace Stevens, di certo non inferiore a quella di Ezra Pound e di Thomas S. Eliot, anzi. “Alla fine dei miei ottanta, sosto nella stagione dell’elegia. La maggior parte dei miei amici più cari è andata. Sono ossessionato da diversi passaggi della poesia di Wallace Stevens, nello specifico da The Course of a Particular. Nelle sue ultime poesie, Stevens ascolta la voce del mondo prima della creazione. Sebbene non si occupi di occulto o di speculazioni ermetiche come William B. Yeats e D.H. Lawrence, Stevens sente le voci. Quando cadono, le foglie gridano, le case ridono, le sillabe sono evocate senza suono, esuli dal discorso, il vento respira, i pensieri ululano nella mente, il sole colossale è un urlo scarno, la fenice canta un canto straniero. Insonne come molti vecchi, sogno il sogno di Stevens”.

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Ciò che mi affascina di Bloom è che per lui le poesie dei grandi poeti sono cartigli da cui esasperare un destino. Sono rasoi su cui sono dettati verbi di rischio, implorazioni che sostengono l’Everest della nostra vita. Il ‘credo’ di Harold Bloom – che informa il suo pensiero critico – si legge in un libro, Visioni profetiche. Angeli, sogni, resurrezioni (il Saggiatore, 1996), anch’esso fuori catalogo, come mai? Forse Bloom, troppo anticonformista, decrepito decano del Canone, baluardo della letteratura come sola sapienza e sola salvezza, è un pericolo, ostacolo all’universo universitario dei perbenisti? In quel libro, Bloom – gitando tra Emerson e Valentino, tra Amleto e la Torah, tra Rimbaud, William Blake e il Vangelo di Tommaso, tra Rilke e i millenaristi, in modo piuttosto spericolato – denuncia la sua gnosi (“Se cerchi te stesso al di fuori di te stesso, vai incontro a un fallimento, erotico o ideologico che sia”), lui, aristocratico dell’intelletto, disincarnando la letteratura dalla carne del mondo, del tempo. Si può non essere d’accordo – io la penso altrimenti – ma che avventura cosmica, che verticale pretesa.

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“Un legame connette la creazione di una poesia, l’illusione del ritorno, la tenue attesa che prima o dopo ascolteremo la voce che ha preceduto l’instaurazione del cosmo, abbandonato e perduto, sul quale vaghiamo incapaci di distinguere ciò che era e che ci sforziamo di ritrovare”. La poesia è questo afflato nostalgico – o piuttosto, il fiorire di un nuovo affronto?

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Ancora Harold Bloom, nelle prime, delicatissime pagine del nuovo libro. “Quando ero giovane leggevo incessantemente la poesia: ero solo e pensavo che quelle poesie potessero diventare persone. Quel vagabondaggio non poteva resistere alla maturità, ma ho continuato a cercare quella voce che precedeva la mia alienazione… Nella mia esperienza, ci sono alcune visioni e voci sorgive che sfondano la roccia del sé e liberano qualcosa come una scintilla, un respiro, in una momentanea consapevolezza che pare conoscere ogni cosa. Quando mi chiedo chi devo conoscere, ascolto il suono primordiale, in naufragio nel cosmo, in esilio tra gli spazi interstellari, che mi chiama… Ora, alla mia età, ascolto il silenzio originario e voci che scendono dalle sfere dentro e oltre la roccia dell’io. Quando Amleto conclude mormorando ‘Il resto è silenzio’, intende sia l’accettazione dell’oblio che il desiderio di quello che gli ermetici chiamano Pleroma o Pienezza. Valentino, lo gnostico autore del Vangelo di Verità, così termina il suo discorso: ‘non è conveniente per me, dopo che sono stato nel Luogo del riposo, parlare di altre cose’. Anche per lui tutto il resto è silenzio”. Che la poesia sorga nella tentazione del silenzio è inutile ricordarlo.

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Sulla “Los Angeles Review of Books”, William Giraldi interroga a lungo Harold Bloom, in un pezzo intitolato Paladin of Literary Agon: A Conversation with Harold Bloom. Ecco alcune frasi peculiari.

“Tra gli anni Ottanta e Novanta, ho trascorso molto tempo con Philip Roth. Hart Crane mi ha iniziato alla letteratura. Dopo di lui ho letto Shakespeare, Milton, Whitman, i romantici, i vittoriani, la poesia del XX secolo, con quella furia che Crane mi aveva trasmesso. La mia esperienza essenziale di lettura si riduce alla Bibbia ebraica, a Dante, a Shakespeare. Continuo a leggere quasi ogni giorno Yeats, D.H. Lawrence, Hart Crane, Stevens”.

“Ormai sono una reliquia, ma continuo a credere che il futuro – se ce ne sarà uno – dipenderà dai lettori autentici di tutto il mondo. Senza leggere Dante, Shakespeare, Montaigne, Cervantes e i loro rari colleghi, non possiamo imparare a pensare. E se non riusciamo a pensare, beh, il futuro è del Trionfo del Mondo, cioè a dire delle bestie apocalittiche”.

“L’alta letteratura ha tre attributi principali: potere cognitivo, originalità, splendore estetico… La cultura non riguarda la moda. La cultura ‘popolare’ è un ossimoro. Il cattivo gusto non è cultura. Ci sono diversi scrittori di opere immaginifiche, anche in questo tempo. A mio avviso, lavorano meglio se non si occupano di cronaca”.

“I rapporti con i miei amici e mentori persistono nonostante la loro morte. Non sono un occultista né un medium, ma in qualche moro mi parlano dall’aldilà. Non sono cambiati, hanno una urgenza più toccante”.

“Mi vedo come un rabbino secolare. Uno che legge alla comunità e a se stesso. Dio mi meraviglia. Non posso accettarlo. Non posso rifiutarlo. Il dio di mia madre e di mio padre non può essere soltanto una vecchia storia. Non mi fido del Patto, ma non posso negare lo straordinario”.

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Harold Bloom è il baluardo di una letteratura sconfinata, che scollina oltre la radice del mondo, che scava nel dettaglio delle stelle. Non è poco, non è fuga, rifugio. (d.b.)