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23 Agosto 2019

 

Dall’Amazzonia all’Antartide, la Terra e i rifugiati climatici

 

In questi giorni la Foresta Amazzonica, il principale polmone della Terra, brucia a ritmi preoccupanti. Le immagini satellitari diffuse dalla Nasa testimoniano un’intensità delle fiamme così elevata da essere visibile dallo spazio. L’Istituto Nazionale brasiliano di Ricerche Spaziali riporta che dall’inizio dell’anno sono scoppiati circa 73.000 incendi con un aumento dell’82% rispetto all’anno precedente. Foreste che nel prossimo futuro non potranno più svolgere quel fondamentale ruolo di assorbimento dei gas che contribuiscono all’accelerazione del cambiamento climatico come avvenuto fino a oggi.

Quando nel 2017 con la missione MOAS siamo arrivati in Bangladesh abbiamo avuto modo di vedere con i nostri occhi gli effetti devastanti della deforestazione nell’emergenza di ampliare i campi profughi per i rifugiati Rohingya in fuga dal Myanmar, per estendere le esistenti aree urbane e per gli affari legati alla compravendita del legname. Le ricerche scientifiche e le immagini satellitari degli ultimi anni non possono che confermare ciò che abbiamo visto attorno a noi e le conseguenze che tali azioni hanno avuto. Effetti ancor più evidenti durante la stagione monsonica, quando la furia delle acque mostra come la deforestazione abbia incrementato allagamenti e smottamenti, causando ulteriori problematiche in un Paese già ad alto rischio di inondazioni, che deve fronteggiare una serie di complesse questioni sociali e politiche in un contesto di scarsità di risorse.

Gli uragani Florence e Michael, che hanno colpito gli Stati Uniti, l’America centrale e i Caraibi, la siccità in Europa e quella in Argentina che ha ridotto le coltivazioni di soia e mais contribuendo alla recessione del Paese, le inondazioni nel Kerala in India che hanno ucciso circa 500 persone e ne hanno costretto oltre un milione ad abbandonare le loro case, l’estate estrema del Giappone, dove le inondazioni che hanno ucciso almeno 230 persone, sono state seguite da un caldo record e poi dal tifone Jebi, la più potente tempesta che abbia colpito il Paese negli ultimi 25 anni; il tifone Mangkhut nelle Filippine e in Cina, che ha ucciso 133 persone e distrutto 10.000 case, la siccità a Città del Capo, in Sudafrica, i violenti incendi in California, tra i quali il Camp Fire di novembre, che è stato il più letale e il più distruttivo della storia dello Stato, uccidendo almeno 85 persone, i 34 gradi registrati nel Circolo polare artico nel mese di luglio e gli straordinari incendi in Svezia e in Scandinavia.

Questa terrificante lista elenca soltanto i principali fenomeni climatici estremi avvenuti nel 2018, di cui si sente parlare nei media nel momento in cui avvengono ma che successivamente vengono dimenticati con estrema facilità.

I climatologi hanno confermato che dal 1800 il tasso di riscaldamento del Pianeta è aumentato tra 1 e un 1,5 gradi con un’accelerazione sempre maggiore e che le stime prevedono che possa superare la soglia limite di +1,5 gradi entro il 2040.

Il rapporto “Counting the Cost: a year of climate breakdown” dell’ong Christain Aid esamina gli eventi meteorologici estremi, i loro costi e il loro legame con i cambiamenti climatici in un anno segnato da episodi che hanno colpito ogni continente, uccidendo, ferendo, costringendo milioni di persone a spostarsi e causando gravi danni economici. Secondo i dati forniti dal Global Report on Internal Displacement, ogni anno dal 2008 al 2016 una media di 26,4 milioni di persone in tutto il mondo sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni, i propri villaggi e i propri Paesi a causa di fenomeni atmosferici violenti, tempeste, alluvioni, inondazioni, monsoni, uragani, tsunami o siccità.

La maggior parte degli spostamenti legati ai pericoli naturali e agli impatti dei cambiamenti climatici è interna, con le persone colpite che rimangono all’interno dei loro confini nazionali.Tuttavia, si verifica anche uno spostamento oltre i confini, che può essere correlato a situazioni di conflitto o violenza.

Il 67,8% degli spostamenti interni a causa di catastrofi naturali è avvenuto nell’Asia Orientale e nell’area del Pacifico. Nel mondo i Paesi maggiormente colpiti (per milioni di abitanti) sono stati: Cuba, Fiji, Filippine, Tonga, Sri Lanka, Ecuador, Haiti, Myanmar, Belize e Bahamas. Ma la lista, alla luce degli evidenti mutamenti climatici degli ultimi anni, rischia di diventare sempre più lunga: secondo numerose ricerche scientifiche il numero di rifugiati climatici aumenterà nei prossimi anni.

Al di là di tale rischio si pone una questione di riconoscimento giuridico e politico. La definizione giuridica di “rifugiato” indicata nella Convenzione di Ginevra del 1951  non menziona i rifugiati climatici.

Di conseguenza, non esistendo una definizione chiara per questa categoria, la risposta nazionale e internazionale è stata fino ad oggi debole e inadeguata. Soltanto nel Global Compact on Safe, Orderly and Regular Migration adottato a stragrande maggioranza dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 2018, vengono citati i rifugiati climatici e viene riconosciuto che: “il clima, il degrado ambientale e le catastrofi naturali interagiscono sempre più con i fattori trainanti dei movimenti di rifugiati”.

Per questo è necessario far sentire le nostre voci affinché si intraprendano delle azioni a livello internazionale per semplificare gli spostamenti da un’area all’altra e per assicurare la tutela dei diritti umani di tutti coloro i quali sono costretti a fuggire dalle proprie case, dai propri villaggi e dalle proprie città.

Seppure sia stato riconosciuto lo status di rifugiato climatico è oggi utopico pensare che a queste persone possa essere assicurato lo spostamento da un’area all’altra attraverso vie sicure e legali considerando che neppure coloro i quali fuggono dalle guerre e dalle torture possono usufruire di tale diritto.

Senza alcun provvedimento, il crescente flusso di rifugiati climatici si aggiungerà al traffico di esseri umani e un numero sempre maggiore di persone rischierà la propria vita finendo nelle mani dei trafficanti per fuggire dal proprio Paese. Cosa stiamo facendo per scongiurare che ciò avvenga? Ci stiamo ponendo questa domanda affinché vengano individuate delle risposte concrete?

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