https://comune-info.net/

29 Agosto 2019

 

L’Amazzonia e l’inferno del potere

di Francesco Martone

 

I tanti “come” e i molti “perché” della progressiva distruzione del più fantastico tempio della bio-diversità del nostro pianeta. La storia dello sfruttamento dell’Amazzonia corre al ritmo della colonizzazione di un territorio che per decenni è stato visto come un ostacolo allo sviluppo. C’è stato il ciclo del caucciù, quello del caffè e poi i minerali, il legname pregiato, la soia… Anche oggi, quando la colonialità del potere affianca con maggiore intensità la ferocia del dominio del modello estrattivo, a guardare le foto satellitari che mostrano l’avanzare del fuoco, si nota facilmente come la linea di frontiera si muove soprattutto dove la strada è già stata aperta. Bisogna guadagnare terra per rispondere alla crescente domanda di carne e bestiame. Verso la Cina, soprattutto, ma anche verso l’Europa. È il fuoco lo strumento della crescita, le foreste e chi le abita sono il prezzo (minimo) da pagare. D’altra parte, i dati parlano chiaro: il 65 per cento delle terre deforestate è servito al pascolo, il 10 alle attività minerarie, il 6,5 all’agricoltura. Per decifrare quel che sta accadendo in questi giorni, sottraendolo all’incalzante rumore di fondo di un caos informativo senza memoria e orientato solo a “bucare” gli schermi col divampare degli incendi, Francesco Martone propone tre piste di ricerca: la fase estrattiva del capitale; l’intreccio delle tre B, le lobby del potere che oggi sostiene Bolsonaro; e il software che tenta di disarticolare e delegittimare il nemico. Già, ma chi è il nemico degli assassini dell’Amazzonia?

 

“A power inferno”, così intitolò all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle un suo saggio Jean Baudrillard, parafrasando il titolo di un film catastrofico che fece epoca, “Inferno di cristallo” o “Tower Inferno” in originale. Un inferno del potere. Questo potremmo dire oggi, come ieri, dell’Amazzonia, di quell’immagine che ciclicamente da qualche decennio, appare e riappare sui mezzi di comunicazione mondiali, e ciclicamente scatena indignazione e senso di impotenza. Come se l’Amazzonia fosse un po’ il simbolo dell’apocalisse passata e futura. 

 

Sono passati quasi 30 anni dall’omicidio di Chico Mendes, sindacalista dei “seringueiros” di Xapurì, nell’Acre regione di estrema periferia dell’Amazzonia brasiliana. E dallo storico incontro di Altamira, quando rappresentanti di popoli indigeni di tutto il Brasile si riunirono per coalizzare la loro opposizione alla costruzione delle grandi dighe. Fece storia la foto di un cacique indigeno che, senza tanti complimenti, sfoderò il suo machete sotto la gola di un funzionario del governo brasiliano. Allora, assieme all’apertura delle autostrade, la costruzione delle dighe era uno dei catalizzatori primi della colonizzazione dell’Amazzonia e dello sfruttamento delle sue ingenti risorse naturali. Allora erano minerali, ferro, oro, rame, dall’enorme invaso del Carajas, nello stato di Parà, per produrre alluminio a Trombetas, dove Bolsonaro oggi vuole costruire un’altra mega diga. 

La storia dello sfruttamento dell’Amazzonia procede di pari passo con quella della colonizzazione. A partire dal ciclo della gomma, primo grande vero atto di biopirateria, quando un avventuriero inglese rubò piante di Hevea Brasiliensis per ripiantarle nelle colonie della Malesia. Era il momento nel quale Goodyear aveva scoperto la vulcanizzazione della gomma. Poi il ciclo del caffè, quello dei minerali, quello del legname pregiato e quello della soia. Cicli che caratterizzano diverse fasi del colonialismo e dell’estrattivismo.

 

Durante il periodo della dittatura militare, l’Amazzonia era considerata come terra senza uomini per uomini senza terra. Si avviarono allora grandi progetti di colonizzazione e costruzione delle infrastrutture basiche per spingere in avanti la frontiera e disinnescare la tensione che si accumulava in seguito alla mancata riforma agraria in un paese che soffre tuttora uno dei tassi di diseguaglianza nella distribuzione della proprietà terriera più alti del mondo. Ai tempi di Chico Mendes, l’enfasi era tutta sui megaprogetti: Tucuruì, Balbina, Xingù, Carajas, Polonoroeste, Calha Norte. Quest’ultimo era un insieme di strutture e infrastrutture caro ai militari che, da sempre, si sono erti a paladini della sovranità nazionale, dei confini e della tutela di quella che considerano parte qualificante della propria sovranità. Da controllare e occupare.

 

Chico e Ilzamar Mendes. Tra i primissimi a saper coniugare la difesa dei lavoratori con quella dell’ambiente, Mendes fu assassinato nel 1988: “Prima pensavo di lottare per i raccoglitori di caucciù, poi per l’Amazzonia, poi mi sono reso conto che stavo combattendo per l’umanità”. Foto tratta da truthout.org

 

Il fattore “S”, quello della sovranità nazionale, è ricorrente nella retorica delle destre brasiliane, sempre connesso all’Amazzonia. Basti ricordare l’opposizione netta del Brasile a ogni proposta avanzata – poco prima della Conferenza di Rio del ’92 – di dichiarare l’Amazzonia patrimonio comune dell’umanità o di elaborare una Convenzione internazionale vincolante sulle Foreste. Sulla spinta di Rio, i G7 approvarono allora un Piano Pilota sull’Amazzonia che, evidentemente, non è riuscito – lo diciamo con il senno di poi – ad aggredire le cause che sono alla radice della distruzione della foresta. Oppure si pensi agli slogan biascicati dall’attuale presidente contro chi sarebbe reo di immischiarsi in cose che non li riguardano.

 

 

Cause che riguardano il potere, di chi lo ha e di chi lo vorrebbe avere, di chi ne ha diritto e non ce l’ha. Non sarà certo una manciata di milioni di dollari a risolvere quelle cause. Venti milioni, per l’esattezza, stanziati nel G7 di Biarritz e, prima respinti con sdegno, e poi accettati dal presidente brasiliano, più – eventualmente – quelli del Fondo Amazzonia, coordinato dal governo norvegese e oggi congelato. Cause storiche, fatte di corsi e ricorsi, di dilemmi e nodi mai veramente sciolti, che riguardano il modello estrattivista, l’equità sociale, quella che un grande studioso latinoamericano della decolonialità, Anibal Quijano, chiamava la colonialidad del poder. Una sorta di razzismo istituzionalizzato che vede oggi proprio in Bolsonaro il suo più truce rappresentante.

 

E poi c’è la riforma agraria mai fatta. Dopo i governi militari e quelli liberisti venne l’onda del progressismo, di Lula e di Dilma, che però – come in molti altri casi negli esperimenti del “Socialismo del XXI secolo” in America Latina – non riuscirono a scalfire più di tanto strutture di privilegio incrostate nella storia del paese. Anzi, restarono  fedeli al modello estrattivista, a casa propria e d’esportazione, seppur per redistribuire i proventi in politiche sociali e non nelle casse dei ricchi di sempre, e con eccezioni importanti, visto che in ogni modo si tentò di porre freno per lo meno alle attività illegali di estrazione in Amazzonia. Senza però sortire effetti di rilievo sui tassi di deforestazione.

 

Da Odebrecht a Petrobras (imprese coinvolte negli scandali di corruzione che hanno scatenato un terremoto in tutta la politica continentale), fino alla BNDES, la Banca Brasiliana di Sviluppo, il modello progressista cambiava di colore politico, ma continuava a considerare gli ecosistemi come territori di conquista. Ne fa fede il megaprogetto di diga di Belo Monte, che avrebbe dovuto rappresentare la classica “cattedrale nel deserto” del progressismo. Una contraddizione che si ripete in continuazione in America Latina, dalla Bolivia di Evo  Morales (gli incendi nella foresta del Chiquitano sono altrettanto drammatici), al Venezuela di  Maduro, all’Ecuador di  Correa e Moreno: l’urgenza di ripagare un debito storico e sociale verso gli esclusi comporta l’ accumulazione  di un debito ecologico per queste e le generazioni a venire. Una sorta di “Comma22”, un gatto che si morde la coda, si direbbe a casa nostra. 

 

Tra l’agosto del 2017 e il luglio del 2018 l’Amazzonia ha perso più di un miliardo d’alberi, 7900 chilometri quadrati di foresta, la cifra più alta dell’ultimo decenni.

 

Esistono quindi varie piste di lavoro per comprendere quel che sta passando in Amazzonia e come provare a decifrarlo politicamente per costruire ipotesi di risposta plausibili. 

La prima è quella dei cicli di estrazione, della fase estrattivista del capitalismo, elemento comune a destra e manca. Oggi, secondo i dati a disposizione, non sarebbe più la soia a rappresentare il “driver”, il motore centrale della deforestazione in quella che possiamo definire la Foresta Amazzonica, giacché l’Amazzonia “legale” comprende anche altri ecosistemi quali il Pantanal e il Cerrado, colpiti anch’essi dall’ondata di incendi a ridosso della stagione della semina. Oggi solo il 2% della soia prodotta in Brasile viene da aree deforestate, il resto dal cosiddetto “Cerrado”, aree già deforestate a suo tempo per far spazio a bestiame o coltivazioni. E che sembrano essere quelle dove la maggior parte degli incendi ha luogo. Anche se poi con un effetto domino ormai incendiare foresta pare essere diventato un atto collettivo di conquista di territorio un po’ ovunque in quella regione. Basta vedere la distribuzione degli incendi sulle foto satellitari, è una frontiera che avanza da dove già si coltiva o lungo le strade già aperte. E che avanza con il fuoco per guadagnare terra soprattutto per la produzione di carne e bestiame, di cui il Brasile è tra i principali esportatori, prima fra tutti verso la Cina, poi l’Egitto e poi l’Unione Europea. Già in passato il fuoco era lo strumento principale per conquistare terreno: acquisiva diritto alla proprietà fondiaria chi rendeva la foresta produttiva, ossia la tagliava e bruciava e ci metteva quattro vacche per poter accedere ai sussidi statali. Oggi i dati parlano chiaro: il 65% delle terre deforestate è per trasformazione in pascolo, il 10 percento per attività minerarie, il 6,5% per l’agricoltura. 

 

Una situazione che rischia di peggiorare ulteriormente per una serie di fattori endogeni ed esogeni. Anzitutto, va detto che l’Amazzonia non può essere considerata come un territorio isolato dal contesto globale, checché ne dica il governo brasiliano, e non solo per l’importanza che ha per i cambiamenti climatici e per la biodiversità ma soprattutto per la ricchezza del suo suolo e sottosuolo che la mette al centro delle strategie di liberalizzazione degli scambi commerciali, sia direttamente che indirettamente. Ad esempio,  è evidente che la guerra sui dazi tra Pechino e Washington principale esportatore di soia verso la Cina, sta spingendo Pechino a dipendere sempre più dalla soia e dalla carne brasiliana, con un aumento esponenziale del volume di importazioni e anche di investimenti nel settore agroalimentare.

 

Maggiore domanda di carne comporta la necessità di maggior offerta, ed ecco quindi l’urgenza di avanzare la frontiera e conquistare più terreno per il pascolo. Non andrebbe meglio con l’accordo, recentemente concluso, tra il Mercosur e la UE, che porterebbe a un aumento delle importazioni di prodotti a “rischio” dai paesi del Mercosur in nome del mantra di una liberalizzazione dei mercati che, contro ogni evidenza, si insiste nel poter supporre segnata da razionalità e sostenibilità. Fa riflettere, ma non sorprende certo constatare che dopo anni di elaborazioni la UE sia stata capace di produrre un piano di azione per la deforestazione e il commercio di prodotti a rischio da foreste tropicali, debole e senza carattere vincolante. E che solo Irlanda e Francia si siano espresse criticamente sull’accordo UE-Mercosur all’indomani del divampare degli incendi e delle risposte altrettanto incendiarie del presidente brasiliano. 

 

La seconda pista di lavoro è quella che riguarda chi ha il potere oggi in Brasile e sostiene il governo, quell’intreccio fatale tra le lobby del bue, quelle evangeliche, e quelle della “bala”, della pallottola. È una pista che porta a occuparsi di chi prospera negli anfratti dell’illegalità o della mancanza di legge, tratto distintivo di gran parte dell’Amazzonia, dove i grandi latifondisti ancora assoldano pistoleri e sicari di professione, ma anche delle grandi catene di comunicazione. Dall’altra parte, c’è il contropotere di chi il potere dovrebbe averlo e lo rivendica legittimamente, ossia di chi in quella foresta vive da tempo immemorabile, i popoli indigeni, oggi in prima fila per la difesa della foresta e nell’opposizione alle politiche di governo. I movimenti indigeni oggi sono usciti dalla foresta per conquistare le strade e le piazze delle città. Fecero la loro prima grande comparsa ai tempi del governo di Temer prendendosi le strade di Brasilia, sotto una pioggia di lacrimogeni e colpi di idrante. Fa riflettere che quest’anno invece il “Campamento da Terra” di Brasilia si sia svolto senza soffrire alcun tipo di repressione. 

 

La coalizione delle tre “b”, “Bala, Buey, Biblia”, che sostiene Bolsonaro e i suoi, paradossalmente vive una sorta di schizofrenia. Gli stessi allevatori che beneficiano delle politiche lassiste e anti-ecologiste del governo, a un certo punto hanno provato a convincerlo ad ammansire la sua retorica incendiaria, per paura di un boicottaggio internazionale  delle loro merci. Perfino i militari pare abbiano svolto un ruolo chiave nel provare a smorzare l’irruenza del presidente esortandolo ad ammettere che in effetti in Amazzonia esiste un problema serio che va affrontato. Cosa che prima il presidente non si sarebbe mai sognato di fare, fino al punto di defenestrare di sana pianta uno degli esperti dell’INPE (Instituto De Pesquisas Espaciais), l’ente di ricerca spaziale brasiliano che, con i suoi satelliti, monitora in tempo reale lo stato di salute dell’Amazzonia. C’è chi i poteri vuole mantenerli e chi ne vorrebbe di più. Per i militari il discorso è complesso: da una parte rispondono al riflesso pavloviano di difendere la sovranità nazionale, dall’altra poco digeriscono di essere usati per operazioni di ordine pubblico, allora ben venga il loro ruolo di “pompieri” dei fuochi che divorano la foresta. Anche per continuare ad avere voce in capitolo. 

 

La terza pista riguarda il “software”, la subcultura che Bolsonaro e i suoi cercano di costruire per disarticolare e delegittimare chi oggi si mobilita per l’ambiente, e per ridisegnare a tavolino i paradigmi stessi dell’indigenismo e dell’ambientalismo. Un software fatto di criminalizzazione delle ONG (guarda te, l’accusa di appiccare gli incendi non ricorda quella del suo degno compare di casa nostra che accusava le ONG di essere colluse con i trafficanti di esseri umani?), di razzismo istituzionalizzato, di derisione e delegittimazione delle rivendicazioni dei popoli indigeni, di una strategia di “divide et impera” che vuole anteporre a tutto un sedicente interesse nazionale, una sovranità di facciata che usa l’Amazzonia proprio come il suo compagno di merende Matteo Salvini usa il Mediterraneo. Non è certo un caso che ambedue sono insorti indignati all’annuncio del Sinodo Amazzonico che si terrà in Vaticano a ottobre. E c’è poi il “lawfare”, la lotta a colpi di leggi fatte o smantellate. Quel che colpisce in Bolsonaro è la sistematicità con la quale ha provveduto a disarticolare l’architettura di governo e controllo ambientale, dall’IBAMA che ha come compito quello della “fiscalizzazione”, del controllo delle pratiche illegali, dall’estrazione al commercio, al Ministero dell’Ambiente. Alla soppressione di tutte le leggi per la tutela dell’ambiente, delle foreste e dei diritti dei popoli indigeni. 

 

Vale la pena a tal riguardo sottolineare come proprio sul tema indigeno, Bolsonaro ha dovuto subite una dura sconfitta. Prima dell’estate il Congresso, sulla spinta del lavoro fatto dall’unica parlamentare indigena eletta, Joenia Wapichana, aveva approvato una legge che restituiva l’autonomia della Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI) ente preposto alla demarcazione delle terre indigene come stabilito dalla costituzione del 1988. Bolsonaro, con una mossa a sorpresa, ha tentato di mettere la FUNAI sotto la competenza del ministro dell’agricoltura, di fatto subordinando i diritti degli indigeni a quelli del grande latifondo e dell’agribusiness. Immediatamente dopo il voto al Congresso, si è affrettato a emanare un decreto che annullava la legge, ma ai primi di agosto il Tribunale Supremo Federale ha invalidato la sua decisione. Un’impasse significativa che ha dato ancor maggior impulso alla resistenza delle organizzazioni indigene determinate a difendere la loro terra fino all’ultimo sangue. Lo stanno facendo, con forte protagonismo delle donne, che finalmente mettono in discussione anche le strutture patriarcali esistenti in molte culture autoctone. Donna è Joenia, donna è la presidente , per la prima volta nella sua storia, della Federazione delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana (COIAB), Francinara Baré. Donna un’altra leader di primo piano, Sonja Guajajara. Proprio le donne, che in quanto indigene già soffrono la “colonialidad del poder” e poi in quanto donne il machismo e il patriarcato anche nelle loro comunità e movimenti, e poi ancor di più aggredite per difendere la terra. Già perché il Brasile continua ad essere uno dei paesi al mondo con il più alto tasso di omicidi di difensori della terra. Secondo i dati ultimi di Global Witness, il Brasile è quarto al mondo per il numero di omicidi di difensori della terra, dopo Filippine, Colombia e India con 20 difensori della terra uccisi nel 2018. Le cause principali sono l’opposizione alle attività estrattive e dell’agribusiness. 

 

Non avrà vita facile Bolsonaro, con un Congresso determinato a mettergli i bastoni tra le ruote. È notizia recentissima, infatti, l’annuncio del presidente della Camera dei Deputati Rodrigo Maia di impegnarsi per bloccare ogni progetto che avrà impatto sull’ambiente o sui diritti dei popoli indigeni, annuncio fatto in occasione di un incontro con sette ex-ministri dell’ambiente, tra cui José Lutzemberger e Marina Silva, avvocati, deputati e associazioni ambientaliste. 

 

Illegalità, invasioni delle terre da parte di cercatori d’oro, pistoleros senza scrupoli, crimine organizzato, fattori incentivati e certo non repressi dal governo attuale rappresentano una miscela micidiale che mette a repentaglio l’incolumità e lo spazio di azione di individui e comunità che proteggono le loro terre e l’ambiente. Va anche ricordato a chi si chiede se l’Amazzonia sia di tutti noi, che l’Amazzonia, quelle terre e quelle foreste, non sono né nostre né di classi storicamente dominanti che le considerano terreno di conquista o colonizzazione. Sono di chi le abita da millenni e ne ha diritto sovrano. Di chi sa come proteggerle e tutelarle per le prossime generazioni. E di chi, a causa della distruzione delle foreste, non solo soffrirà la perdita di ecosistemi o gli effetti “fisici” dei cambiamenti climatici, ma gli effetti di un vero e proprio genocidio culturale. Giacché la loro cultura, visione del mondo, spiritualità e cosmologia dipendono dall’integrità e dal rapporto simbiotico con quegli ecosistemi e i loro cicli vitali. Un crimine contro l’umanità, sia per gli effetti sulle popolazioni che verrebbero espulse dalle loro terre in una sorta di landgrabbing con l’uso del fuoco che per gli effetti sugli equilibri climatici e sulla biodiversità. La Corte Penale Internazionale, proprio per gli effetti del landgrabbing, sui diritti dei popoli li definì come un crimine contro l’umanità e si dichiarò competente a considerare denunce contro chi si fosse macchiato di tale crimine. Ora il Tribunale per i Diritti della Natura annuncia una sessione su Amazzonia e diritti della Natura che si terrà in occasione della Conferenza ONU sul Clima, a Santiago del Cile, a

dicembre di quest’anno.

 

Se una soluzione al problema amazzonico, e in generale dei cambiamenti climatici,  andrà messa in campo dal “basso”, da parte di chi oggi osserva attonito l’avanzata delle fiamme, quella passerà necessariamente attraverso il rafforzamento della capacità di incidenza, mobilitazione e pressione dei popoli indigeni e dei movimenti loro alleati. Secondo il Rights and Resources Institute (RRI), le foreste e le terre curate e protette dai popoli indigeni e comunità autoctone contribuiscono notevolmente alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Verrebbero infatti conservati e quindi non immessi nell’atmosfera, 300 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di sette volte le emissioni globali del settore energetico nel 2017. 

 

Al contempo sarà urgente contribuire a disarticolare dall’esterno quelle spinte che accelerano la pressione sulla terra e sulla foresta, la domanda di prodotti a rischio e la liberalizzazione degli scambi commerciali. 

 

Si tratta, né più e né meno, che di creare alleanze e piattaforme comuni con chi sfida la logica dell’estrattivismo, il patriarcato, e la colonialità del potere. In Amazzonia come a casa nostra, in nome dei diritti dei popoli e della Madre Terra. Un passaggio essenziale, che presuppone però un cambiamento radicale della visione del mondo, giacché per un cambiamento radicale di paradigma sarà urgente superare una visione antropocentrica, e mettere in campo un approccio che riconosca pari dignità a tutto il vivente e alla Madre Terra. Si tratta, come spiega assai bene la sociologa argentina Maristella Svampa,  di praticare una sintesi tra chi pensa che ci si trovi nell’Antropocene, dove si ritiene che l’uomo indistintamente sia responsabile della distruzione e dell’alterazione degli ecosistemi, ma che in quanto tale è calato negli stessi e quindi apprende a relazionarsi con questi, e chi pensa che ci si trovi nel Capitalocene. Ossia che la distruzione dell’ambiente sia conseguenza del modello capitalista. Coniugare quindi una critica radicale al modello dominante e allo stesso tempo rafforzare la relazione “positiva” e rispettosa tra umani e natura. Quello che oggi praticano, nella quotidianità delle loro lotte, i movimenti indigeni di ogni parte del mondo.  

top