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martedì 15 ottobre 2019

 

Non tutta la plastica negli oceani resta lì per sempre

 

Il polistirolo si disgrega al Sole molto più velocemente di quanto si pensasse e senza lasciare tracce pericolose, sostiene un nuovo studio

 

Il polistirene (polistirolo) è uno dei tanti tipi di plastica che inquinano gli oceani, ma secondo una ricerca scientifica da poco pubblicata potrebbe avere effetti meno devastanti di quanto stimato finora. Un gruppo di ricerca della Woods Hole Oceanographic Institution e del Massachusetts Institute of Technology (Stati Uniti) ha scoperto che il polistirene si degrada più velocemente del previsto al Sole, impiegando secoli o decenni a seconda delle circostanze, e non millenni come era stato precedentemente stimato da altri studi, compreso uno pubblicato lo scorso anno dalle Nazioni Unite. La nuova ricerca sta facendo discutere proprio per questo e richiederà ulteriori approfondimenti, per comprendere meglio i processi che fanno degradare questo materiale.

 

I termini “polistirolo” e “polistirene” indicano la stessa cosa: il primo è molto più diffuso in Italia, ma sarebbe più corretto utilizzare il secondo, almeno secondo le indicazioni dell’Unione internazionale di chimica pura e applicata (IUPAC), l’organizzazione non governativa che si occupa dei progressi nella chimica e di rendere comune l’impiego di termini e definizioni nel settore. La desinenza “-olo” è di solito riservata agli alcoli, ma siccome il monomero da cui deriva il polistirene veniva chiamato tradizionalmente “stirolo” – invece che “stirene” – si è creata un po’ di confusione. Come suggerisce il nome, il polistirene è un polimero dello stirene, un idrocarburo aromatico.

 

Con il polistirene si producono molti oggetti usa e getta, come piatti e posate di plastica, vasetti per lo yogurt, rasoi, custodie per CD e contenitori per le uova. Il materiale viene anche utilizzato per produrne una versione espansa (quella che di solito chiamiamo “polistirolo”) e che viene impiegata per gli imballaggi o come sistema isolante.

Il polistirene può essere riciclato, ma la sua grande abbondanza e il fatto che non tutti i paesi abbiano sistemi di riciclaggio adeguati fanno sì che grandi quantità di rifiuti costituiti da questo materiale finiscano nei corsi d’acqua e infine nei mari e negli oceani. La loro presenza è da tempo fonte di preoccupazione per gli esperti e per chi si occupa di preservare gli ambienti marini.

 

Collin P. Ward, uno degli autori del nuovo studio, ha spiegato che di solito i legislatori partono dal presupposto che “il polistirene duri per sempre”, arrivando alla conclusione che sia meglio mettere al bando buona parte dei prodotti creati con questo materiale. Per questo, insieme ai suoi colleghi, ha fatto qualche esperimento per capire se davvero il polistirene duri così a lungo, una volta smaltito.

I ricercatori hanno condotto test di laboratorio su cinque diversi campioni di polistirene, per valutare l’effetto della luce solare. Ogni campione è stato immerso in acqua in contenitori di vetro, poi sigillati, ed esposti a una speciale lampada che imita la luce solare. Come atteso, il polistirene si è disgregato nell’acqua, che è stata poi analizzata dal gruppo di ricerca.

 

Secondo Ward e i suoi colleghi, la luce solare riporta il polistirene ai suoi elementi chimici di base, come il carbonio, che si dissolve nell’acqua senza particolari conseguenze. Nel processo si produce pochissima anidride carbonica, tale da non avere un ruolo determinante nei processi che contribuiscono a causare il riscaldamento globale.

 

In precedenza altri studi si erano occupati della capacità di alcuni batteri di digerire la plastica, disgregandola e rendendola innocua per l’ambiente. Questi processi possono avvenire per alcuni tipi di materiali plastici, ma non per il polistirene che ha una struttura più complessa, che la rende indigesta ai microbi. In compenso, questa caratteristica sembra essere ideale per subire l’influenza della luce solare, portando a una disgregazione molto più marcata rispetto a quanto ci si potesse attendere.

Gli autori della nuova ricerca invitano comunque a essere cauti, anche perché non è completamente chiara la natura del carbonio che si produce nel processo; serviranno altri studi per comprenderne meglio le caratteristiche.

 

In un’intervista, gli autori della ricerca hanno inoltre ipotizzato che il loro lavoro potrebbe essere utile per risolvere un mistero col quale si confrontano da anni gli esperti di inquinamento degli oceani: il 99 per cento della plastica che dovrebbe essere identificabile, semplicemente, non si trova. In sostanza, le stime sulla quantità di plastica che si è ammassata negli oceani finora non corrispondono ai ritrovamenti a campione. Il tema è molto dibattuto e una maggiore velocità nella disgregazione del polistirene potrebbe essere parte della risposta. Negli oceani sono comunque presenti materiali plastici molto diversi tra loro, non tutti si disgregano facilmente ed è stato osservato che le microplastiche, derivanti dal loro deterioramento, finiscono nella catena alimentare di numerose specie marine e, in ultima istanza, della nostra.

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