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Gang attacks riders on Hong Kong subway


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martedì 23 luglio 2019

 

Hong Kong: c’è la mafia cinese dietro alle violenze della stazione Yuen Long?

di Armando Michel Patacchiola 

A rilanciare questa ipotesi è stato però il deputato democratico di opposizione ferito durante gli scontri, Lam Cheuk, che ai reporter ha lanciato il suo allarme sottolineando come non sia possibile che «Hong Kong permetta alle triadi di fare quel che vogliono e lasciarle colpire le persone mentre camminano per le strade».

Un gruppo di almeno 100 teppisti in maglia bianca, molti dei quali mascherati, ha aggredito a colpi di spranga, calci e pugni un gruppo di persone nella stazione di Yuen Long MTR, a nord est della penisola di Hong Kong, poco lontano dal confine cinese. Negli scontri sono state ferite 45 persone, di cui almeno uno verte in gravi condizioni di salute. Nessun resoconto ufficiale ha finora chiarito né chi siano gli aggressori né chi fosse il loro reale bersaglio. 

 

Secondo quanto raccontato dai testimoni sarebbero state colpite soprattutto persone che indossavano maglie nere, assieme agli ombrelli uno dei segni di riconoscimento dei manifestanti pacifisti, ma successivamente la situazione sarebbe degenerata e tutti i pendolari presenti in stazione, tra cui il deputato del Partito Democratico Lam Cheuk, e almeno due giornalisti e un operatore, sono stati raggiunti da raffiche di violenza . Tra loro la giornalista Gwyneth Ho, ferita mentre cercava di trasmettere una diretta streaming. Le immagini circolate in rete mostrano gli aggressori forzare le barricate di ingresso e accorrere in modo minaccioso verso i pendolari in attesa dei convogli o in transito sulla scala mobile della stazione. Altri mostrano gli aggressori varcare i vagoni e colpire i passeggeri indifesi e urlanti riversi nel tentativo di proteggersi, spesso con ombrelli o con altri oggetti di fortuna. Tra di essi anche un minuto ragazzo con gli occhiali spintonato mentre chiedeva in ginocchio clemenza agli assalitori. 

 

Gli scontri si sono poi spostati all’esterno della stazione, lungo le strade che la costeggiano. La Polizia, a pieno organico, è intervenuta solo verso la mezzanotte, le 18 ore italiane, mentre gli scontri sono iniziati alle 22.30 di domenica (le 16.30 italiane). Una lunga attesa di intervento nonostante i continui solleciti (circa mille chiamate, anche da parte dell’azienda dei trasporti) che ha adirato le vittime, tra cui proprio un gruppo di manifestanti pro-democrazia in stazione dopo aver calcato poco prima le strade del quartiere centrale di Wan Chai, cuore burocratico e tra le zone più ricche di Hong Kong. In realtà, riporta il South China Morning Post, un convoglio con due agenti è arrivato sul posto dopo 45 minuti, ma gli agenti si sono dovuti ritirare e attendere rinforzi in quanto da soli non erano in grado di affrontare gli aggressori e riportare l’ordine. Solo verso l’una tutti gli agenti, circa 100 unità, erano pienamente operative. La Polizia ha annunciato di aver arrestato sei persone, tra i 24 e i 54 anni, già recidive perché sospettate di aver preso parte alle aggressioni Yuen Long. Le strade attorno alla stazione sono state bloccate per più di tre ore.

 

Secondo quanto raccontato dalla Polizia poco dopo si sarebbero registrati scontri anche dall’altra parte della penisola, nel villaggio di Nam Pin Wai. Lì degli agenti in tenuta anti sommossa avrebbero circondato il villaggio verso l’una del mattino di lunedì (le 19 di domenica in Italia), ma non sarebbero intervenuti fino alle 3.30. In quella circostanza gli aggressori, secondo quanto riportato da RTHK, il servizio pubblico di Hong Kong, erano impegnati nel raccogliere armi. Ma all’ingresso nel villaggio la Polizia non ha trovato nessun tipo di armamento.

Poco dopo, durante la conferenza stampa che si è tenuta alle 5 di mattino, le 23 in Italia, l’assistente del comandante del distretto anti crimine della Polizia Yau Nai ha dichiarato che non è stato possibile arrestare nessuno adducendo che era impossibile decifrare i colpevoli e arrestare qualcuno «solo perché indossava qualcosa di bianco». Sul tema è intervenuto anche dal Capo esecutivo di Hong Kong Carrie Lam dichiarando «la violenza non è la soluzione ai problemi e chiama altra violenza. Faremo le dovute indagini».

I raid, secondo quanto riportato dalla Reuters, potrebbe esser stato pianificato dalla Triade cinese, uno storico quanto longevo gruppo criminale mafioso che anche durante le proteste del 2014 era stato accusato di voler approfittare delle proteste per restaurare l’ordine nell’ex enclave britannica. Il South China Morning Post ha aggiunto che potrebbero essere stati gli affiliati dei gruppi 14k e Who Shing Who. A rilanciare la pista mafiosa è stato però il deputato democratico di opposizione ferito durante gli scontri, Lam Cheuk, che ai reporter ha lanciato il suo allarme sottolineando come non sia possibile che «Hong Kong permetta alle Triadi di fare quel che vogliono e lasciarle colpire le persone mentre camminano per le strade». Anche Alvin Yeung, avvocato e parlamentare del Civic Party che assieme al Partito Democratico è in opposizione al governo Lam, si è detto sicuro dell'appartenenza alle Triadi degli assalitori di Yuen Long. Mentre su Twitter un altro deputato di minoranza, Ray Chan, attivista gay del partito People Power, ha evidenziato come nonostante l’alto numero di agenti presenti ad Hong Kong ci sia stata troppa attesa per l’intervento. Qualcuno ha azzardato anche che i ritardi siano stati pretestuosi, viste le acredini accumulte durante le proteste delle scorse settimane tra i manifestanti e gli agenti. In un comunicato firmato da 24 parlamentari il Partito Democratico ha accusato la Polizia di collusione con le Triadi. La Polizia ha però giustificato il ritardo adducendo che tutti gli agenti erano occupati a Sheung Wan, in centro, uno dei principali distretti per gli affari e per lo shopping, dove la locale stazione di Polizia era sotto attacco. In generale non è stata una giornata semplice per le forze dell’ordine di Hong Kong, visto che già durante il pomeriggio gli agenti erano stati costretti a sparare gas lacrimogeni e proiettili di gomma sulla folla dopo esser stati impegnati a lungo per contenere alcuni fuori programma dei manifestanti più disobbedienti, che si sono diretti verso la zona dei palazzi governativi. Verso le 19 è stato anche vandalizzato un edificio di rappresentanza del governo cinese, imbrattato con lancio di uova e con delle scritte sui muri tra cui «ci hai insegnato che le marce pacifiche sono inutili». Un atto condannato fermamente da Carrie Lam, che ha definito gli atti vandalici ad opera di «dimostratori radicali» una «sfida alla sovranità nazionale». Il più alto rappresentante cinese a Hong Kong, Wang Zhimin, ha definito gli scontri di ieri «un insulto a tutto il popolo cinese» in grado di danneggiare gravemente «lo spirito di stato di diritto molto apprezzato di Hong Kong» e «i sentimenti di tutto il popolo cinese, compresi i sette milioni di connazionali di Hong Kong». Wang Zhimin ha aggiunto che i protestanti stanno superando il limite mettendo a rischio il criterio «un Paese (la Cina)» «due sistemi». Nel complesso la gestione delle proteste è stata ben assorbita e ben gestita da Pechino. Il Presidente della Repubblica cinese Xi Jin Ping ha ricevuto persino i complimenti del suo omologo statunitense Donald Trump, con cui si sta battendo a colpi da dazi commerciali, e che forse nel tentativo di bloccare la reazione cinese non ha lesinato a definire «responsabile» il comportamento tenuto finora durante le scorse proteste. A sostenere quest'ultimi e le loro ambizioni democratiche anche un altro rivale della Cina, Joseph Wu, ministro degli esteri di Taiwan, l'isola in cui nel 1949 si asseragliarono i ribelli del partito nazionalista (KTM) e che tutt'oggi si oppone alle riunificazione con la Cina. Wu ha chiesto che a seguito delle numerose proteste vengano celebrate elezioni «genuine» e che pertanto vengano accettate le numerose istanze della popolazione. 

 

Secondo quanto riportato dagli organizzatori della protesta, il settimo week end consecutivo, ha raggruppato 430 mila manifestanti. Un numero contestato dalle forze dell’ordine che ha invece ridotto le presenze a 138 mila. Una contro-manifestazione era andata in scena sia ieri, sabato 21 luglio, che domenica scorsa, in concomitanza della protesta principale. Le proteste, lo ricordiamo, erano iniziate per contestare una legge che avrebbe cambiato il sistema giudiziario di Hong Kong, modellato sul Common Law, e semplificato la possibilità di estradizione verso la Cina di personaggi che così sarebbero stati così giudicati dal contestabile sistema giudiziario cinese. Tra questi anche i protagonisti delle proteste di piazza Tienanmen, a Pechino, nella notte del 3 e del 4 giugno 1989, ancora perseguitati dal Partito Comunista cinese. La legge è stata effettivamente sospesa, ma i manifestanti hanno proseguito le protese per timore che venga poi rivitalizzata. Inoltre durante queste settimane gli abitanti di Hong Kong hanno chiesto meno interferenze della Cina sull’ex colonia britannica e di poter anche eleggere direttamente i propri rappresentanti. Attualmente il Consiglio legislativo della regione amministrativa speciale di Hong Kong è un corpo semi-democratico che comprende 70 membri. 35 di questi sono eletti direttamente con il sistema proporzionale, mentre gli altri 35 sono eletti indirettamente attraverso collegi professionali. L’amministratore delegato di Hong Kong ha il compito di formare un governo di coalizione. Per la sua scelta la costituzione prevede che venga attribuita a un uomo di spicco, di nazionalità cinese, tra quelli residenti a Hong Kong. Ma questa figura è di fatto scelta dal Partito Comunista cinese, attraverso una commissione di oltre 1000 persone. In passato il governo cinese aveva promesso un’elezione diretta del suo amministratore delegato entro il 2017, ma su come cambiare il sistema politico hongkongese c’è differenza di vedute tra gli attivisti della democrazia e il governo centrale di Pechino. Oggi i timori sono gli stessi che hanno preceduto la Rivolta degli ombrelli, una protesta pacifica durata 79 giorni a partire dal settembre del 2014: quelli di gettare l’ex enclave britannica in una «democrazia fittizia», sempre più dipendente da Pechino. 

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