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25 giugno 2019 

 

Vincenti e perdenti della globalizzazione: le tre fasi dell’economia globale

di Matteo Samarani

 

Abbiamo il piacere di pubblicare la prima parte di un’interessante analisi di Matteo Samarani sulle conseguenze economiche della globalizzazione, che richiama ed espande i temi trattati nell’intervista realizzata da Ivan Giovi all’economista Sergio Cesaratto. In questa prima parte dell’analisi sui vincenti e i perdenti della globalizzazione saranno analizzate le ragioni storiche che hanno portato alle dinamiche di cui oggi molto spesso si discute e saranno commentate le teorie sulla distribuzione della ricchezza dell’economista Branko Milanovic.

 

La globalizzazione– che lo si voglia oppure no, che si cerchi di comprenderla e di studiarla oppure di lasciare che sia il fato a guidarla – ha cambiato, sta cambiando e cambierà le nostre vite rispettivamente nel passato, nel presente e nel futuro. Fenomeni come questo sono ardui da essere qualificati in quanto toccano tematiche afferenti ad un insieme eterogeneo di discipline: da quelle umanistiche a quelle scientifiche. Seguendo un approccio che potremmo sintetizzare come “economico”, possiamo definire la globalizzazione come una progressiva integrazione economica e finanziaria del sistema internazionale, in altre parole, un fenomeno di crescente interdipendenza tra le economie mondiali (Marelli, Signorelli 2019).

 

Tale interdipendenza coinvolge non solo gli scambi commerciali ma anche i movimenti di capitali e le migrazioni tra i diversi paesi. Come tutti i processi che fanno da motore ai grandi cambiamenti strutturali del mondo essa implica dei soggetti che potremmo classificare come “vincenti”, e, se è vero che ci sono dei vincitori, devono necessariamente presentarsi anche dei vinti che andremo ad identificare come “perdenti” della globalizzazione.

 

GLOBALIZZAZIONE: CAUSE E PROFILI STORICI

Prima di parlare delle suddette categorie (e quindi degli effetti della globalizzazione) è bene analizzare la globalizzazione in base alle principali forze che l’hanno guidata. In questo senso, possiamo definire due fenomeni che hanno condotto il mondo verso una sempre più spinta interdipendenza: il crescente progresso tecnico e le liberalizzazioni. In merito al primo, esso ha contribuito in termini di incrementi della produttività e di abbattimento dei costi di trasporto e di comunicazione. Il secondo si sostanzia invece in una graduale dinamica decrescente delle barriere e delle tariffe doganali che hanno prodotto come conseguenza un significativo incremento del commercio mondiale.

Dal punto di vista storico è opportuno sottolineare che tale processo non è figlio di un cambiamento improvviso: esso ha origini che risalgono alla fine del XIX secolo. Nella figura 1, riferita all’economia statunitense, si evidenziano quelle che in letteratura vengono denominate le “tre fasi” della globalizzazione. Il grafico le definisce in funzione dei movimenti di tre variabili: immigrati negli USA, esportazioni/PIL (mondiale) e stock di IDE (investimenti diretti all’estero)/PIL.

 

Figura 1, fonte: Banca Mondiale

 

La prima fase (c.d. prima globalizzazione) coincide con il periodo a cavallo del 1870 caratterizzato, anche grazie all’affermarsi del cosiddetto “laissez-faire”, dalle prime liberalizzazioni. In corrispondenza dei due conflitti mondiali si nota una sorta di inversione di tendenza, causata principalmente dal riaccendersi del protezionismo, ma anche dall’instabilità valutaria figlia del crollo del Gold Standard. La seconda fase della globalizzazione vede la luce durante gli anni ’50 del secolo scorso e prosegue sino agli anni ’80, quando, di fatto, si instaura la terza fase, caratterizzata, oltre che dalle liberalizzazioni commerciali, dall’aggiunta di quelle finanziarie.

 

TERZA FASE: NEOLIBERISMO E FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA

Questo terzo periodo è fondamentale ai fini della nostra analisi perché, arrivando ai giorni nostri, ci consente di contare i punti e definire chi ha guadagnato e chi invece ha subito perdite dal processo di globalizzazione. In aggiunta all’intensificarsi del processo di interdipendenza delle economie mondiali, questi anni vedono cadere la supremazia intellettuale del paradigma keynesiano: per tre decenni, dalla fine della guerra fino alla metà degli anni ’70, gli Stati hanno gestito con successo l’economia e i cicli economici, allo scopo di governarne la durata e l’ampiezza. Come la teoria neoclassica era stata messa a dura prova dalla Grande Depressione del 1929, la teoria keynesiana viene messa a dura prova negli anni Settanta, quando si manifesta una crisi economica accompagnata da una forte inflazione: c.d. stagflazione (Saraceno, 2019). Negli anni Ottanta la sconfitta delle idee keynesiane in ambito accademico è accompagnata nei paesi anglosassoni da una rivoluzione conservatrice che, dapprima con l’elezione della “lady di ferro” Margareth Thatcher nel Regno Unito nel 1979, e poi con l’elezione del Repubblicano Ronald Reagan nel 1980 negli USA, consacra anche a livello politico una sorta di nuovo consenso nel verso del neoliberismo. L’affermazione di questa dottrina non è marginale alla nostra analisi, perché porta con sé il dogma “meno stato e più mercato”, e di questo ne risentiranno, soprattutto in termini redistributivi, le classi medie dei paesi avanzati occidentali.

 

Un’altra palese implicazione delle politiche neoliberiste, a seguito delle già menzionate liberalizzazioni finanziarie, è stata la finanziarizzazione dell’economia: secondo l’FMI nel 2006 solo il 2,2 per cento delle transazioni finanziarie riguardavano scambi relativi all’economia reale, mentre il restante 97,8 per cento rivestivano carattere speculativo. La ratio che ha spinto le classi dirigenti anglosassoni ad abbattere i controlli sui movimenti di capitali sono riconducibili al tentativo di massimizzare l’efficienza dei mercati finanziari attraverso la promozione di una loro struttura pro-concorrenziale. Tuttavia il loro grado di efficienza ha fallito uno dei test più significativi andando a sbattere contro lo scoglio della crisi del 2008. C’è da dire che diversi analisti sono convinti che le liberalizzazioni degli anni Ottanta sono state troppo spinte: le tanto acclamate politiche di apertura hanno portato a fenomeni “perversi” in cui l’orizzonte temporale degli investimenti finanziari si è inesorabilmente spostato dal lungo periodo, associato normalmente ad investimenti produttivi, al breve periodo, associato invece ad investimenti a carattere speculativo. Inoltre il nuovo scenario globale è stato protagonista di una crescente instabilità finanziaria: le fuoriuscite di capitali dai paesi possono verificarsi in maniera rapida e disordinata, con comportamenti imitativi, recando gravi danni alla sostenibilità finanziaria delle economie (Marelli, Signorelli 2019). Il nuovo scenario finanziario internazionale, caratterizzato da un vasto “menù” di scelta d’investimento apparecchiato dinnanzi ai grandi fondi speculativi globali, ha altresì dato luogo ad una sorta di meccanismo di autoalimentazione della ricchezza che ha consentito ai soggetti più ricchi del globo di arricchirsi ulteriormente. E’ doveroso sottolineare le infauste conseguenze che tale meccanismo ha esercitato sulla dinamica distributiva della ricchezza, a vantaggio di quelli che andremo ad identificare in seguito come “i plutocrati mondiali”.  

 

VINCENTI E PERDENTI: FACCIAMO CHIAREZZA

Tra tutte le analisi che mettono in mostra le disuguaglianze a livello globale e gli effetti della globalizzazione, è dovere citare quelle dell’economista serbo Branko Milanovic che ha lavorato presso la Banca Mondiale e insegna presso la City University di New York. Un’analisi empirica da lui svolta, dalla quale sembra apparire una sorta di “elefante”, riesce bene a spiegare la dinamica della distribuzione globale dei redditi. Ma cos’ha da dirci un elefante sui grandi vincitori e i grandi sconfitti della nostra epoca, la più globalizzata della storia?

 

Figura 2, fonte: Branko Milanovic, 2016

 

La figura 2 (“elefante di Milanovic”), ha da dirci più di quello che a prima vista si potrebbe immaginare. Sull’asse orizzontale troviamo i percentili della distribuzione globale dei redditi, dagli individui più poveri al mondo, a sinistra, a quelli più ricchi a destra. L’asse verticale mostra la crescita cumulata dei redditi reali (corretti per l’inflazioni e le differenze nei livelli di prezzo tra i vari paesi) fra il 1988 e il 2008. Questo periodo, che abbiamo definito sopra come “terza fase” della globalizzazione, ha immesso nell’ambito dell’economia mondiale interdipendente paesi come Cina, India e le economie a pianificazione dell’Unione Sovietica e dell’Europa dell’Est. Concentriamoci ora sui punti di maggiore interesse nel grafico: analizzeremo rispettivamente i punti A,B,C.

 

Il punto A divide la distribuzione del reddito mondiale in quanto si trova intorno alla mediana: la metà sulla sinistra è la sezione meno agiata del mondo, mentre la metà di destra è quella più agiata. Esso rappresenta gli individui che hanno visto una maggior crescita del reddito reale, pari a circa l’80 per cento nel ventennio preso ad esame. C’è da aggiungere che la crescita è stata elevata non solo per le “teste” in corrispondenza della mediana, ma anche per un’ampia categoria di individui che va dal quarantesimo percentile globale fino al sessantesimo. Questi individui appartengono a economie emergenti asiatiche, in modo prevalente alla Cina, ma anche ad India, Thailandia, Vietnam e Indonesia. Sono soggetti che appartengo alla metà delle distribuzioni dei loro paesi di origine e che vengono definiti da Milanovic come “la classe media globale emergente”, e sono senza dubbio i maggiori beneficiari della globalizzazione.

 

Passiamo ad analizzare il punto B. Esso si trova alla destra del punto A e questo ci segnala che chi appartiene al punto B è più ricco di chi è situato nel punto A. Notiamo anche che sull’asse verticale il punto B fa segnare un valore molto vicino allo zero.  Gli individui che appartengono a tale gruppo sono rappresentati dalla classe media delle economie dell’area OCSE, ed in modo prevalente dalle classi medio-basse degli USA, del Giappone e della Germania. In altre parole (per dirla alla Milanovic): “i vincitori sono stati i poveri e le classi medie asiatiche; i grandi perdenti, la classe media inferiore del mondo ricco”. Un risultato inaspettato per i promotori della rivoluzione Thatcher-Reagan degli anni Ottanta.

 

A fronte di questi primi risultati sorge spontanea una domanda: la stagnazione dei redditi in occidente è risultato del successo asiatico? La risposta a questa domanda è subordinata all’analisi del punto C. Questi individui rappresentano il più ricco 1 per cento a livello globale e provengono per la maggior parte dalle economie ricche (quelle appartenenti alla suddetta area OCSE). Essi sono, senza ombra di dubbio, vincitoridella globalizzazione quasi quanto gli appartenenti al punto A, e vengono definiti dall’economista serbo “i plutocrati mondiali”. Si può quindi giungere alla conclusione che la stagnazione dei redditi che ha coinvolto la classe medio-bassa dei paesi ricchi sia dovuta all’arricchimento di chi era già ricco nei paesi ricchi, incrementando le disuguaglianze anche all’interno degli stessi paesi.

 

Arrivati a questo punto è doveroso rispondere ad un’altra domanda: quali sono stati gli effetti della crisi finanziaria del 2008 sulla distribuzione del reddito e della ricchezza?

 

Figura 3, fonte: Branko Milanovic, 2016

 

La figura 3 mostra il guadagno percentuale di reddito reale in diversi punti della distribuzione globale del reddito in due diversi periodi: 1988-2008 (analizzato in precedenza) e 1988-2011. I dati empirici mostrano una continuazione e persino un’accelerazione delle tendenze riscontrate nel periodo precedentemente analizzato. L’effetto della crisi finanziaria sulla distribuzione globale dei redditi è stato quindi quello di rafforzare una dinamica già esistente: i “vincitori” e i “perdenti” della globalizzazione sono ancora identificabili nei soggetti che abbiamo descritto sopra.

 

Ci sono due aspetti essenziali che cercherò di evidenziare nella parte conclusiva di questo lavoro. Il primo è quello di andare ad approfondire i motivi che hanno spinto il mondo verso una così spiccata ingiustizia sociale. Il secondo sono i risvolti a livello politico ed istituzionale che tali disuguaglianze hanno contribuito a generare: in altre parole, l’affermazione nei paesi a più vecchia industrializzazione dei populismi e dei tentativi negli stessi di ritorno al protezionismo.

 

Seconda parte dell’analisi di Matteo Samarani sulle conseguenze economiche della globalizzazione.

INGIUSTIZIA SOCIALE: COSA NON HA FUNZIONATO?
La teoria che pone le basi al liberismo cercando di cogliere i benefici derivanti dal libero scambio è la teoria dei vantaggi comparati  di David Ricardo. Secondo l’economista britannico ciascun paese si specializza nelle produzioni in cui gode di un vantaggio comparato (settori in cui opera in maniera più efficiente), questo fa sì che il libero scambio generi un beneficio netto, sia ai paesi avanzati, che a quelli meno sviluppati, in quanto entrambi esporteranno i prodotti dei settori in cui sono più efficienti e importeranno gli altri dal resto del mondo. Il problema, come evidenziato da J. Stigliz, è che alcuni economisti e certi politici hanno raccontato una sorta di “bugia innocente”, ossia, che il commercio internazionale crea posti di lavoro. In realtà, se è vero che le esportazioni generano posti di lavoro e che le importazioni li distruggono e se è vero anche che i paesi avanzati esportano prodotti che necessitano di meno manodopera rispetto  ai beni importati dai paesi in via di sviluppo, dato che nel lungo periodo le importazioni e le esportazioni si equivalgono, le prime distruggeranno molti più posti di lavoro di quanti non ne creeranno le seconde. Tuttavia i teorici della globalizzazione avevano sostenuto che se i vincitori avessero condiviso la grande torta da essa derivante, avrebbero potuto compensare i perdenti generando un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. Ma la teoria diceva che potevano farlo non che lo avrebbero fatto (Stigliz, 2018). 

In questo senso, uno dei principali problemi della globalizzazione è stata la sua governance. In tema di accordi commerciali essi sono stati sistematicamente volti ad avvantaggiare i paesi avanzati, ma non i paesi avanzati in termini assoluti, bensì in termini relativi: tali accordi erano stipulati con l’intento specifico di favorire gli interessi delle grandi multinazionali dei paesi avanzati (proprio quell’uno percento più ricco in grado di esercitare una notevole influenza nei round commerciali), con conseguente sbilanciamento a favore delle imprese e a scapito dei lavoratori. Si aggiunga inoltre che con un commercio perfettamente libero e mercati ben funzionanti vi è una convergenza dei salari e questa convergenza punta sicuramente verso il basso: se un paese dell’area Ocse importa dai paesi in via di sviluppo prodotti ad alta intensità di manodopera, avrà meno bisogno di produrli sul suolo nazionale. Questo, spingendo la domanda di lavoro verso il basso, ridurrà i salari dei lavoratori, soprattutto quelli meno qualificati (c’è da dire che la spinta al ribasso dei salari avviene solitamente nei paesi con istituzioni del mercato del lavoro più flessibili, nei paesi più rigidi solitamente è la disoccupazione a vedere un rialzo). Inoltre, nei paesi avanzati, la domanda di lavoro nel settore manifatturiero è stata penalizzata dal fenomeno della terziarizzazione, ovvero, la transizione di un’economia a prevalenza di occupati nel comparto industriale, ad un’economia che occupa la maggior parte della sua forza lavoro nel terziario. 

I salari dei lavoratori sono diminuiti anche a causa di due altre variabili fondamentali: l’indebolimento del potere contrattuale e il progresso tecnico. Il primo, oltre ad essere stato influenzato dalle revisione al ribasso dei poteri sindacali imputabile alla suddetta rivoluzione Thatcher-Reagan, è stato influenzato anche dalla minaccia delle aziende di delocalizzare in paesi a più basso costo del lavoro. I sindacati non potevano trovare rimedio a questa causa e si è venuto a creare una sorta di circolo vizioso al ribasso (riduzione poteri sindacali-riduzione salari). Il secondoha ridotto la domanda di manodopera meno qualificata portando un ulteriore livellamento verso il basso dei salari (con crescenti disuguaglianze tra lavoratori qualificati e meno qualificati). 

Oltre a tutto questo vi è un ultimo aspetto da considerare: la globalizzazione, guidata dalle grandi aziende mondiali, ha fatto spuntare in tutto il mondo quelli che vengono chiamati “paradisi fiscali” permettendo alle multinazionali di eludere le imposte che dovrebbero pagare. Questo, oltre che spingere tutti i paesi del mondo ad una concorrenza al ribasso in termini di pressione fiscale, ha altresì ridotto il gettito fiscale dei paesi più avanzati, andando a penalizzare ulteriormente i lavoratori. Questi hanno sofferto quindi tre volte: per i salari più bassi, per lo spostamento su di loro del carico fiscale, e per i tagli ai servizi pubblici che sono una diretta conseguenza dell’elusione delle imposte da parte delle aziende (Stigliz, 2018).

Secondo Stigliz, l’abbassamento dei salari non è stato una conseguenza “accidentale”, bensì era l’obbiettivo: infatti, prendendo come spunto alcune osservazioni dall’opera La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, ricorda che quando gli imprenditori si uniscono per sollecitare una particolare politica, è indubbio che abbiano pensato alle sue conseguenze, anche in termini di costo del lavoro.

 

DISUGUAGLIANZA: LA SCOMPARSA DEL CETO MEDIO E LE IMPLICAZIONI POLITICHE
Le pressioni al rialzo delle disuguaglianze hanno dato il via al fenomeno del declino della classe media: secondo una analisi del solito Milanovic, negli Usa la quota della classe media, definita come la quota di individui con redditi disponibili attorno alla mediana, è calata dal circa il 33 per cento nel 1979 al 27 per cento nel 2010. Inoltre il suo reddito medio, che ammontava all’80 per cento del redito medio generale statunitense nel 1979, cala sino a raggiungere il 77 per cento della media nel 2010. La politica e le istituzioni non sono certo immuni a questo fenomeno, anzi, negli ultimi anni ne sono state fortemente influenzate. L’incremento della forbice delle disuguaglianze, la sempre più evidente scomparsa della classe media e, più in generale, il crescente numero di individui che hanno perso la partita della globalizzazione, hanno spinto l’opinione pubblica nella culla di quelle forze politiche che vengono definite populiste: la Brexit, l’affermazione di Donald Trump negli Usa, i crescenti consensi di Marine Le Pen in Francia e il governo Giallo-Verde formatosi all’indomani delle elezioni del 4 Marzo 2018 in Italia sono solo alcuni esempi. Oltre ai cambiamenti strutturali dell’economia mondiale, i crescenti successi di queste forze politiche sono anche frutto dei fallimenti del centro-sinistra: il neoliberismo è divenuto parte integrante dell’orientamento politico anche in questi ambienti, ciò li ha portati a seguire quasi ciecamente l’agenda della globalizzazione della destra. Dato che più nessuno pensava a difendere gli interessi dei “perdenti” è nato una sorta di vuoto politico, terreno fertile per la demagogica propaganda populista. Non importa se il problema sia l’immigrazione, la tecnologia o la mala gestione della globalizzazione: chi ha perso il posto di lavoro o ha visto diminuire le proprie entrate, sosterrà il demagogo di turno che promette di porre rimedio alla sua condizione.

La politica commerciale spesso proposta dai nazional-populisti per porre rimedio ai malesseri del proprio elettorato è quella del protezionismo(le politiche di Donald Trump ci offrono un buon esempio). Tuttavia il protezionismo, oltre a non essere la soluzione ai suddetti malesseri, potrebbe addirittura incrementarli. Punto primo:  dato che l’occupazione nei paesi avanzati all’interno dei comparti industriali è in declino a causa della già citata terziarizzazione, anche se la quota di occupazione mondiale restasse invariata, l’occupazione manifatturiera dei paesi post-industriali sarebbe in calo. Punto secondo: anche al presentarsi di una remota possibilità di ripresa della produzione industriale in questi paesi, la produzione verrebbe probabilmente gestita mediante attrezzature automatizzate per il cui impiego sarebbero necessarie competenze diverse rispetto a quelle facenti capo ai disoccupati del settore manifatturiero. Punto terzo: l’innalzamento di barriere tariffarie, oltre a penalizzare le imprese importatrici ed i consumatori (essi si troverebbero infatti a dover pagare un prezzo maggiore per i beni importati), potrebbe scatenare delle guerre commerciali con conseguente incertezza e crollo della produzione mondiale che si tradurrebbe paradossalmente in un ulteriore crollo dell’occupazione, a svantaggio proprio della base elettorale di questi partiti

politici.

 

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: È  POSSIBILE UNA GLOBALIZZAZIONE ALTERNATIVA?
A fronte dei fallimenti della governance della globalizzazione è opportuno chiedersi se esiste una strada alternativa per sostenere un modello di sviluppo economico più equo e socialmente inclusivo. In questi termini, sono interessanti le proposte che arrivano dall’economista statunitense Joseph Stigliz che nella versione più recente dell’opera La globalizzazione e i suoi oppositori ci offre degli spunti interessanti, spunti che ho cercato di rielaborare e riassumere in queste cinque riflessioni: 

Se si vuole davvero porre rimedio, occorre invertire la tendenza, riponendo meno fiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato, rendendosi conto dei fallimenti a cui esso spesso incorre, e favorendo un’azione pubblica più incisiva. Sarebbe opportuno, per esempio, regolamentare i mercati finanziari disincentivando la speculazione a breve termine fonte, come abbiamo visto, di instabilità finanziaria ed economica.

È indispensabile riscrivere le regole della globalizzazione in modo da colmare quel divario che vede favorite le grandi multinazionali a scapito del potere contrattuale dei lavoratori e dell’erosione dei loro salari. Sarebbe sensato, in ambito di accordi internazionali, mettere sul tavolo la questione del dumping sociale (tratto caratteristico dei Paesi in via di sviluppo), così da porre un freno alla convergenza al ribasso dei salari.

Bisogna prendere atto del declino in termini occupazionali del settore manifatturiero a favore del settore terziario (c.d. terziarizzazione): infatti l’occupazione in ambito manifatturiero sta diminuendo perché il ritmo di crescita della produttività supera il ritmo di crescita della produzione. In questi termini è necessario intervenire mediante una trasformazione strutturale dell’economia volta a facilitare questa transizione e orientata sui servizi e sulla conoscenza. Saranno dunque fondamentali politiche in materia di istruzione in cui il settore pubblico dovrà svolgere un ruolo fondamentale nella creazione di una società dell’apprendimento.

Mettere in atto politiche volte a garantire la protezione sociale: servono politiche per sostenere le persone che perdono il lavoro a causa della globalizzazione o della tecnologia. Politiche attive del lavoro volte a riqualificare i disoccupati e reinserirli nel mercato del lavoro. Inoltre servono trasferimenti per quei soggetti che non riescono a trovare lavoro in modo da permettergli un’esistenza dignitosa (la flexicurity dei paesi scandinavi è un buon modello di riferimento).

Occorrono politiche macroeconomiche più efficaci in grado di mantenere l’economia ad un livello vicino alla piena occupazione, in modo da evitare elevati livelli di disoccupazione ciclica che rischia di trasformarsi in disoccupazione strutturale. Tra queste sarebbero opportune: politiche fiscali espansive con spese per investimenti, infrastrutture e tecnologie; espansioni di bilancio in pareggio aumentando le impose di pari passo con le spese, che – per il principio del moltiplicatore del bilancio in pareggio, e, se le imposte e le spese vengono scelte attentamente (sarebbe opportuno tassare i redditi elevati o comunque i patrimoni più consistenti) – permettono di far crescere il reddito e di incrementare l’occupazione.

Seguendo questo percorso alternativo sarebbe possibile rendere la globalizzazione un processo da cui la maggior parte degli individui trarrebbe vantaggi e non il contrario. Questo avrebbe come conseguenza il ricucirsi delle fratture sociali che stanno caratterizzando i paesi occidentali negli ultimi tempi, facendo ritrovare all’opinione pubblica la fiducia nelle istituzioni: condizione necessaria per la stabilità di un sistema democratico. 

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