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https://comedonchisciotte.org/

12 Marzo 2019

 

La “disintegrazione” del capitalismo globale potrebbe scatenare la Terza Guerra Mondiale, avverte un importante economista dell’UE

di Nafeez Ahmed

Traduzione di NICKAL88

 

Un economista senior della Commissione Europea ha avvertito che una Terza Guerra Mondiale nei prossimi anni è un’”alta probabilità”, accentuata a causa della disintegrazione del capitalismo globale.

 

In un documento di lavoro pubblicato lo scorso mese, il Professor Gerhard Hanappi ha sostenuto che dal crollo finanziario del 2008, l’economia globale si è spostata dal capitalismo “integrato”, verso una svolta “disintegrante” segnata dalle stesse tendenze che hanno preceduto le antecedenti guerre mondiali.

Il Professor Hanappi è Presidente [dell’Istituto] Jean Monnet per l’Economia Politica dell’Integrazione Europea – incaricato dalla Commissione Europea – presso l’Istituto per i Modelli Matematici in Economia presso l’Università di Tecnologia di Vienna. È inoltre membro del comitato di gestione del gruppo di esperti sui rischi sistemici nella rete europea di ricerca sulla cooperazione scientifica e tecnologica finanziata dall’UE.

Nel suo nuovo documento, Hanappi conclude che le condizioni globali apportano inquietanti parallelismi con le tendenze, precedenti allo scoppio della Prima e della Seconda Guerra Mondiale.

 

Egli riscontra che i principali segnali di allarme che il mondo è su una brutta china verso una guerra globale includono:

l’inesorabile crescita della spesa militare;

le democrazie che passano a Stati di polizia sempre più autoritari;

l’accrescersi delle tensioni geopolitiche tra grandi potenze;

il risorgere del populismo trasversale alla sinistra e alla destra;

il degrado e l’indebolimento delle istituzioni globali consolidate che governano il capitalismo transnazionale;

e l’inarrestabile ampliamento delle disuguaglianze globali.

 

Queste tendenze, alcune delle quali erano visibili prima delle precedenti guerre mondiali, si stanno manifestando ancora con nuove forme. Hanappi sostiene che la caratteristica distintiva del periodo attuale è una transizione da una forma più antica di “capitalismo integrativo”, a una nuova forma di “capitalismo disgregativo”, le cui caratteristiche sono emerse chiaramente dopo la crisi finanziaria del 2008.

Per la maggior parte del ventesimo secolo, afferma, il capitalismo globale era avviato su un percorso “integrativo”, verso maggiori concentrazioni di ricchezza transnazionale. Ciò è stato interrotto dalle ondate di un violento nazionalismo che ha comportato le due guerre mondiali. In seguito, una nuova forma di “capitalismo integrato” è emersa sulla base di un quadro istituzionale che ha permesso, per 70 anni, ai Paesi industrializzati di evitare una guerra mondiale.

Questo sistema sta entrando in un periodo di disintegrazione. In precedenza, le fratture tra ricchi e poveri all’interno del sistema venivano superate “distribuendo un po’ dei guadagni dell’eccezionale aumento dei frutti della divisione globale del lavoro, verso le classi lavoratrici più ricche di queste nazioni”. Allo stesso modo, le tensioni internazionali erano diffuse trasversalmente alle strutture di governance transnazionale e agli accordi per la regolamentazione del capitalismo.

Ma dalla crisi finanziaria del 2008, la distribuzione della ricchezza si è aggravata con il declinante potere d’acquisto per il ceto medio e le classi lavoratrici, mentre la ricchezza diventa grandemente concentrata.

La crescita nei centri occidentali del capitale transnazionale ha rallentato, mentre gli accordi commerciali internazionali precedentemente sacrosanti sono stati ridotti a brandelli. Ciò ha alimentato un ritorno al nazionalismo, in cui le strutture globali e transnazionali sono state respinte e gli “stranieri” sono stati demonizzati. Poiché il capitale globale continua quindi a disintegrarsi, queste pressioni si intensificano, in particolare perché la sua motivazione intrinseca dipende sempre più dall’intensificarsi della concorrenza con i rivali esterni.

Mentre il capitalismo integrato dipendeva da un quadro istituzionale transnazionale che permetteva uno “sfruttamento stabile a livello nazionale”, Hanappi sostiene che “il capitalismo disgregativo” considera questa struttura nel suo disaggregarsi tra gli Stati Uniti, l’Europa, la Russia e la Cina, ognuna delle quali persegue nuove forme di subordinazione gerarchica dei lavoratori.

Il capitalismo disgregativo, spiega, ricorrerà sempre più a “poteri di coercizione diretta, integrati da nuove tecnologie dell’informazione” per sopprimere le tensioni interne, nonché a una maggiore propensione alle ostilità internazionali: “I nuovi imperi autoritari devono confrontarsi l’un l’altro per giustificare la propria struttura interna di comando inflessibile.”

 

Grande conflitto di potere

Hanappi analizza tre potenziali scenari per come potrebbe svilupparsi un nuovo conflitto globale. Nel suo primo scenario egli analizza la prospettiva di una guerra tra le tre potenze militari più importanti: Stati Uniti, Russia e Cina.

Tutte e tre hanno subito forti aumenti nelle spese militari, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Nonostante una flessione per gli Stati Uniti dal 2011, il Presidente Trump ha dato inizio a un nuovo picco, mentre la spesa [militare] russa si è stabilizzata e le spese [militari] cinesi stanno aumentando rapidamente.  Tutti e tre i Paesi hanno anche vissuto una svolta autoritaria.

Basandosi sulla teoria dei giochi, Hanappi sostiene che la valutazione che nessuno di questi Paesi sarebbe in grado di “vincere” una guerra mondiale, potrebbe cambiare secondo le percezioni dei leader di questi Paesi. Secondo una stima, la Cina ha la più alta probabilità di sopravvivenza per il 52%, seguita dagli Stati Uniti per il 30% e dalla Russia per il 18%. Questo calcolo suggerisce che, tra tutte e tre le potenze, la Cina potrebbe essere la più incline a intensificare le attività di ostilità militare diretta che provocano i suoi rivali, se percepisce una minaccia diretta a ciò che considera suoi legittimi interessi.

Gli Stati Uniti e la Russia, al contrario, potrebbero trasferire l’attenzione delle loro attività militari su meccanismi più segreti, indiretti e di procura. Nel caso degli Stati Uniti, Hanappi sottolinea:

“… la strategia militare di Trump sembra includere la possibilità di delegare parte della responsabilità operativa locale a vassalli amici, che ricevono un massiccio sostegno da parte degli Stati Uniti, ad es.  Arabia Saudita e Israele in Medio Oriente. La Turchia, uno dei distaccamenti più forti della NATO nella zona, è un caso speciale. Sembra che sia stato permesso [alla Turchia] di distruggere lo Stato emergente della popolazione curda, che sarebbe stato più intimo allo stile di governance europea”.

Vi sono segni crescenti di forti tensioni di potere che potrebbero esplodere, in modo del tutto accidentale o per provocazione imprevista, in un conflitto globale che nessuno vuole.

La guerra commerciale USA-Cina è in escalation, mentre entrambe le potenze combattono sui segreti della tecnologia e discutono sulla crescente impronta militare della Cina nel Mar Cinese Meridionale. Nel frattempo, la massiccia espansione della US Navy e Air Force di Trump è indice dei preparativi per un importante potenziale conflitto con la Cina o la Russia.

Sia gli Stati Uniti che la Russia hanno gettato a mare un trattato nucleare cruciale, stabilito a partire dalla Guerra fredda, il che apre la strada a una corsa agli armamenti nucleari. La Corea del Nord rimane irriducibile riguardo al suo programma in corso per le armi nucleari, mentre Trump sta distruggendo l’accordo nucleare con l’Iran, disincentivando tale paese dal rispettare il disarmo e le sue condizioni.

All’inizio dell’anno scorso, uno studio statistico sulla frequenza delle guerre più importanti nella storia umana ha rilevato che i cosiddetti 70 anni di “lunga pace” non sono un fenomeno davvero insolito, che indica un periodo di pace senza precedenti. Lo studio ha concluso che non c’era motivo di credere che il periodo di 70 anni, a tutt’oggi, non avrebbe lasciato il posto a un’altra grande guerra.

 

Piccole guerre, contagio globale

Il secondo scenario di Hanappi analizza la prospettiva di una serie di “piccole guerre civili in molti Paesi”. Gli ingredienti di questo scenario sono radicati nella rinascita del populismo di destra e di sinistra. “Entrambe le varianti – a volte implicitamente, a volte esplicitamente – si riferiscono a una forma di Stato nazionale storico del passato a cui si propongono di tornare”, spiega Hanappi.

Mentre il populismo di destra si rifà ai regimi autoritari e razzisti, stabiliti in Germania e in Italia negli anni ’30, il populismo di sinistra aspira a ritornare al modello del “capitalismo integrato”, in vigore durante i trent’anni che hanno fatto seguito alla Seconda Guerra Mondiale e che ha reagito agli effetti ineguagliabili del capitalismo, attraverso la “rete sociale” del cosiddetto “welfare state” e varie forme di intervento statale nell’economia, accanto all’industria privata.

Ma la ricusazione è che il “capitalismo integrato” è già travolto dalle sue stesse contraddizioni interne, che sospingono il mutamento verso la disintegrazione.

Questo pone il populismo di sinistra in una posizione sistematicamente più debole, dato che il populismo di destra può far supporre i molteplici fallimenti del “capitalismo integrato”: il fallimento di “superare gli antagonismi di classe” e il fallimento di “realizzare la promessa di un sostanziale miglioramento di vita per la maggioranza delle persone”. Secondo Hanappi:

“I rappresentanti del capitalismo integrato sono screditati e non possono agire da leader, pertanto il movimento è costretto a sperimentare nuove forme di organizzazione nazionale. Più forme partecipative di organizzazione democratica richiedono più tempo, e con più gruppi sociali coinvolti ciò indebolisce questa forza di movimenti nei confronti del populismo di destra. Inoltre, la sua visione di un miglioramento del capitalismo integrato nazionale è ostacolata dal fatto che molte persone ricordano ancora i suoi fallimenti, mentre il canto della gloria nazionale che il populismo di destra canta si riferisce a un immaginato passato lontano mai visto da qualcuno.”

In questo contesto, egli sostiene, esiste il potenziale per le ondate di guerra civile nazionale tra i distaccamenti paramilitari emergenti di movimenti populisti di destra e di sinistra, nel contesto di entrambi i movimenti che adottano il potere statale ed entrano in conflitto con l’opposizione.

Hanappi avverte della possibilità di un effetto “contagio” regionale o globale, se questi fallimenti si verificano entro una scala temporale simile. In questo scenario:

“La fluida mobilità degli imprenditori politici ideologici nazionali, i creatori di movimenti populisti, incontra la rigidità dei terribili vincoli economici globali. Questo è lo scontro che provoca guerre locali.”

Questo scenario è anche supportato da dati statistici. Nel 2016, uno studio di Lloyds Insurers ha rilevato che dal 1960 c’è stata una crescente frequenza di “pandemie” inerenti al “contagio di violenza politica”, che coinvolgono focolai regionali e transnazionali di disordini civili all’interno e tra gli Stati.

Il rapporto afferma che la protesta sociale e il dissenso contro le politiche di governo del militarismo all’estero e l’austerità neoliberista in patria potrebbero agire come potenziali precursori dei “contagi” della violenza, assieme ad altri fattori di rischio, tra cui “un aumento della quota di utenti di Internet”, maggiore concentrazione urbana, aumento della mortalità infantile e una popolazione giovane in crescita.

 

Insurrezione globale dei poveri

Il terzo scenario di Hanappi è parallelo alla scoperta dello studio Lloyds, secondo cui nei prossimi anni il mondo rischia di affrontare una serie di “pandemie da pressione eccessiva” sotto forma di “anti-imperialismo” e “movimenti indipendentisti”, “proteste di massa pro-riforma contro il governo nazionale” e “insurrezione armata” o “insurrezione” associata a due particolari ideologie: “Marxismo” e “Islamismo”.

Secondo Hanappi, la plausibilità di questo scenario si può trovare nelle “traiettorie profondamente divergenti, nell’ambito dell’economia mondiale, del benessere delle parti povere e delle parti ricche”.

Mentre il PIL ha continuato a crescere nel complesso, in quasi tutti i Paesi negli ultimi trent’anni si sono ampliate le disparità di reddito e di ricchezza, e ciò sembra destinato ad accentuarsi ulteriormente. Se continua questo ciclo, è plausibile un’aggregazione di lamentele tra i tre miliardi [della popolazione] più povera, stimolata dall’interconnettività delle comunicazioni nell’era dello smartphone.

Hanappi sostiene che, piuttosto che uno solo di essi, in realtà le condizioni globali rendono più probabile una combinazione di questi tre scenari.

“Il capitalismo disgregativo non è un vaticinio. Ciò è già sopraggiunto e dà forma alla vita di tutti i giorni. Lo svanire del capitalismo integrato non è neanche una previsione. Il capitalismo disgregativo dissolve il capitalismo, ma per farlo deve prima distruggere il capitalismo integrato, il suo immediato predecessore.”

La caratteristica distintiva del capitalismo disgregativo è la sua tendenza a stabilire “restrizioni nazionaliste e razziste” volte a escludere “ciò che i suoi leader definiscono una minoranza inferiore”, al fine di proteggere l’accumulazione di capitale per un’identità nazionale di mentalità ristretta, definita in modo campanilistico. Le vecchie istituzioni capitaliste integrate vengono abbandonate e sono introdotte nuove strutture di governance più coercitive.

In questo contesto, Hanappi conclude che “non necessariamente” avrà  luogo una Terza Guerra Mondiale, ma avrà “una probabilità spaventosamente alta”. Per evitare ciò, egli suggerisce, si richiede l’adozione di contro-strategie efficaci, come un movimento per la pace globale.

 

Oltre la disintegrazione: cosa viene dopo?

La diagnosi di Hanappi è acuta, ma alla fine è limitata, a causa della sua esigua attenzione all’economia. Manca alla sua analisi un qualsiasi riconoscimento delle crisi biofisiche che determinano la disintegrazione del capitalismo globale: i flussi ecologici ed energetici, per mezzo dei quali funzionano le economie capitalistiche – e quindi i limiti naturali (o confini planetari) vengono violati.

Tuttavia, il suo concetto di “disintegrazione del capitalismo” – portando con sé una maggiore propensione al conflitto violento – aderisce bene a un più ampio concetto ecologico di declino della civiltà, esplorato in un recente documento della studiosa di geografia americana Stephanie Wakefield, pubblicato su Resilience, rivista sottoposta a revisione paritetica.

Wakefield attinge al lavoro pionieristico dell’ecologo dei sistemi [naturali] CS Holling, secondo il quale gli ecosistemi naturali tendono a seguire un “ciclo adattativo” costituito da due fasi, “un front loop di crescita e stabilità e un back loop di rilascio e riorganizzazione”.

Sottolinea che, mentre il lavoro di Holling si concentrava sullo studio degli ecosistemi locali e regionali, rimaneva la questione se l’idea del “back loop” potesse essere applicata su scala planetaria per comprendere le dinamiche della transizione di civiltà: “Siamo in un “back loop  profondo” che presenta le stesse opportunità e crisi, come [quelle] degli studi nazionali sul back-loop che abbiamo descritto?” domandava nel 2004.

Wakefield esplora l’idea del “back loop” dell’Antropocene che segnala uno sfasamento, in cui un particolare ordine, struttura e sistema di valori che comprendono la relazione dell’umanità con la terra, sta vivendo una profonda frattura e declino:

“Le affermazioni inerenti alla supremazia umana sul mondo vengono letteralmente spazzate via dall’innalzamento del [livello del] mare e da potenti tempeste senza precedenti, mentre le diagnosi terminali della civiltà occidentale proliferano così rapidamente come fantasticherie della fine”.

In questa nuova fase, c’è un parallelo tra l’escalation delle crisi ambientali e l’intensificarsi della disgregazione politica.

“Si amplia l’elenco dei punti di svolta, indotti dall’Antropocene, ai quali ci si avvicina o che vengono superati: il crollo della [rendita] pesca; la perdita di biodiversità; lo scioglimento delle calotte polari e l’innalzamento dei mari; [una concentrazione di] 350 ppm [che] ora [ha raggiunto] i 400 ppm di CO2; l’input di azoto antropogenico; l’acidificazione dell’oceano e la decolorazione  della barriera corallina; la deforestazione … Ma questi processi combinati nella stessa misura, dal 2011 [ci fanno capire] anche che siamo in un’epoca di rivolte, rivoluzioni, esperimenti locali e movimenti sociali trasversali a sinistra e destra che, per la mentalità del front loop possono apparire follia, ma che sono molto reali.”

Ma il parallelo tra disordine ambientale e politico non è casuale. Piuttosto, è una caratteristica fondamentale di ciò che Wakefield chiama il “back loop dell’Antropocene”, una fase di declino sistemico che vede il disfacimento del vecchio ordine, ma che contemporaneamente apre nuove possibilità per l’emergere di un nuovo sistema.

“In breve, una cosa sembra chiara: non siamo più nel front loop”, scrive Wakefield.

“Se il front loop fosse lo ‘spazio operativo sicuro’ dell’Antropocene … questo mondo complesso, non lineare della ‘post-verità’ di frammentazione, frattura, dissoluzione e trasfigurazione è ciò che io propongo che venga chiamato back loop dell’Antropocene.”

 Il front loop quindi equivale all’apice del “capitalismo integrato” di Hanappi, emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale, che ha continuato a evolversi, passando per un “periodo d’oro” della crescita neoliberista dagli anni ’80 ai primi anni 2000.

Da allora, abbiamo assistito sempre più all’eruzione delle contraddizioni interne, in merito a questo “front loop” e al capitalismo integrato, sotto forma di una traiettoria di disintegrazione che manifesta il “back loop” del declino sistemico della civiltà:

“Il back loop è il nostro presente, il momento di individuare il fallimento dell’Antropocene, in cui il passato (back loop) non è scomparso, ma i suoi strascichi stanno scoppiando in modi imprevedibili nel presente.”

La fase di disintegrazione del capitalismo, quindi, fa parte di un più ampio “ciclo adattativo” del capitale globale che ora si trova al culmine di un collasso protratto. Eppure, l’adozione di questa prospettiva sistemica, al di là del pensiero econometrico in un quadro ecologico più profondo, ci consente di vedere qualcos’altro oltre la distruzione in svolgimento del vecchio ordine, bensì all’interno di questo processo il vero emergere di possibilità senza precedenti per l’affermazione di un nuovo ‘front loop’:

“Considerare l’Antropocene attraverso la prospettiva del ciclo adattivo, e in particolare il nostro principio del ‘momento attuale’ di elementi di scombussolamento, modalità confuse di conoscenza e [coscienza] di essere [in] un back loop, ha una serie di benefici”, suggerisce Wakefield. “Il principale tra questi è la capacità di considerare l’Antropocene, non come una tragica fine o un mondo di rovine, ma come una scomposizione in cui la possibilità è presente e il futuro più aperto di quanto generalmente immaginato.”

Il riposizionamento della condizione umana, da parte di Wakefield nell’ambito del “back loop”, apre lo spazio per immaginarlo parte di una serie storica più lunga di cicli di declino e rinnovamento della civiltà, in cui il compito che ci attende è cogliere il nostro ruolo nell’essere operativi e migliorare le possibilità di rinnovamento.

Ciò significa andare ben oltre i tradizionali modelli di resilienza del “front loop”, adattando strutture politiche ed economiche in vigore, stantie e infrante, a un mondo in cui si intensifica la crisi, in modelli di resilienza che mirano a reinventare e riprogettare noi stessi e le nostre strutture da zero:

“Invece di accettare la fine dell’operato umano, eccetto quello della gestione della crisi – e piuttosto di immaginare noi stessi come vittime o responsabili del back loop – sostengo che esiste un’altra possibilità: decidere per noi stessi, localmente e in modi diversi, dove e come vivere nel back loop. “

Vivere in tale contesto richiede molto più che “combattere contro o vivere nella paura” del back loop. Richiede un certo grado di accettazione, trovandovi il proprio posto: “sentirsi familiari, a proprio agio e coinvolti in esso … Un abituale, quotidiano atto di creazione e costituzione libera”.

E ciò richiede il riconoscimento, in linea di principio, che ci stiamo muovendo in un terreno davvero sconosciuto, il che può essere realizzato solo eliminando i vecchi “modi di pensare e agire dal fore loop”.

Nel back loop, tutto è disponibile – non solo vecchie infrastrutture, ma anche ideologie politiche e presunte realtà filosofiche. E così, per rispondere alla fase di disintegrazione del capitalismo e alla minaccia di una guerra globale, ci viene richiesto di più rispetto ai vecchi modelli, come l’idea di un “movimento per la pace globale” – abbiamo bisogno di un ethos e di una pratica completamente nuovi, dedicati all’inaugurazione di un nuovo mondo:

“Quello che ci suggerisce il back loop è che l’Antropocene è ora un momento per l’analisi, per lasciare andare – delle basi per pensare e agire – e aprirci alle possibilità offerte a noi qui e ora. Questo è uno spazio operativo “non sicuro” perché abbiamo già superato le soglie, ma anche perché non ci sono progetti, non ci sono eccezionalità, né garanzie e assicurazioni: occorre solo diventare creatori di nuovi valori e nuove risposte”.

Il lavoro di Wakefield ci ricorda che, mentre i pericoli di una Terza Guerra Mondiale si stanno intensificando nel back loop antropogenico del capitalismo disgregativo, le opportunità di rinnovamento, riorganizzazione e rinascita stanno rapidamente emergendo.

Queste devono essere comprese e attivate, indipendentemente dal fatto che la guerra divampi o meno. Inoltre, dobbiamo lavorare per dare l’allarme senza sosta, a tutti i livelli, per aumentare la consapevolezza della vera natura del cambiamento di fase in cui ci troviamo ora come specie. Qualunque cosa emerga, in ultima analisi, la fine non è vicina – piuttosto, ci troviamo all’alba sconosciuta di un nuovo inizio.

 


Il Dr. Nafeez Ahmed è l’editore fondatore del progetto di investigazione giornalistica INSURGE intelligence finanziato dai lettori al 100%. Il suo ultimo libro è Failing States, Collapsing Systems: BioPhysical Triggers of Political Violence (Springer, 2017). È un giornalista investigativo da 18 anni, ex The Guardian in cui ha riferito della geopolitica delle crisi sociali, economiche e ambientali. Ora parla di “cambiamento di sistema globale” per Motherboard di VICE. Ha firmato articoli in The Times, The Independent on Sunday, The Independent, The Scotsman, Sydney Morning Herald, The Age, Foreign Policy, The Atlantic, Quartz, New York Observer, The New Statesman, Prospect, Le Monde diplomatique, tra gli altri luoghi. Ha vinto due volte il Project Censored Award per il suo report investigativo; due volte è stato inserito nella classifica dei 1.000 più influenti londinesi della classifica dell’Evening Standard; e ha vinto il Premio Napoli, il più prestigioso premio letterario italiano istituito dal Presidente della Repubblica. Nafeez è anche un accademico interdisciplinare ampiamente pubblicato e citato che alla violenza ecologica e politica applica analisi di sistemi complessi. È ricercatore presso il Schumacher Institute.


Link: https://medium.com/insurge-intelligence/the-disintegration-of-global-capitalism-could-unleash-world-war-3-warns-top-eu-economist-769487210e8f

21.02.2019

 

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