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5 maggio 2019

 

Giganti della tecnologia e dell’industria finanziaria  

di Marshall Auerbach

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Questo articolo è stato prodotto da Economy for All, un progetto dell’Independent Media Institute. I giganti della tecnologia sono un grosso problema, ma l’industria finanziaria incontrollata potrebbe far saltare in aria in un lampo l’economia. Con tutta l’attenzione sull’alta tecnologia, pare che abbiamo dimenticato le cause reali del crollo del 2008.

 

A giudicare dal discorso pubblico mentre ci dirigiamo alle prime fasi dell’elezione presidenziale del 2020, i banchieri non risultano essere più il nemico numero uno. Quel titolo risulta attribuito all’alta tecnologia. Tuttavia, non dimentichiamo che le azioni di numerose istituzioni finanziarie nel periodo precedente il 2008 sono state largamente responsabili delle catastrofiche perdite di lavoro di milioni di famiglie, del pignoramento delle loro case, della distruzione dei loro risparmi per la pensione, del collasso di una moltitudine di aziende, di un continuo strangolamento in una miriade di forme di debito e di un’incessante macchina di lobbismo che esonera la finanza da qualsiasi tipo di controllo che abbia un po’ di mordente.

La reazione legislativa a questo fiasco, la legge Dodd-Frank, è in tutte le maniere e, tanto per cominciare, non era neppure così rigorosa. E’ stata approvata al fine “di ‘promuovere la stabilità finanziaria’, ‘sollevare la nostra economia’ e ‘por fine ai troppo grandi per fallire’” ha sostenuto l’osservatore finanziario Tyler O’Neil, “e la legge non ha realizzato nessuno di questi obiettivi”. In realtà, ha creato una serie di incentivi perversi che probabilmente hanno reso i nostri problemi parecchio peggiori. La riforma finanziaria può essere una notizia vecchia, ma ci stiamo dirigendo in maggiore prossimità a un’altra crisi economica, in cui le “notizie vecchie” potrebbero benissimo ridiventare nuove e rilevanti.

Perché? Tanto per cominciare la Dodd-Frank non ha modificato strutturalmente il sistema bancario (diversamente dal seguito della Grande Depressione con la legge Glass-Steagall). Le grandi banche “troppo grandi per fallire” (TBTF) sono diventate ancora più grandi. E per ‘più grandi’ intendiamo una considerevole partecipazione proprietaria a più del 60 per cento del PIL.

Un esempio di spicco è la nuova creazione del Consumer Financial Protection Bureau [Ufficio Protezione Finanziaria dei Consumatori] (CFPB, una proposta di Elizabeth Warren che inizialmente si era dimostrata una delle poche riforme efficaci introdotte dalla nuova legislazione bancaria). Il CFPB è stato in larga misura svuotato dal capo ‘facente funzioni’ Mick Mulvaney. Analogamente le norme sul controllo della grandi banche sono state annacquate dalla appropriatamente intitolata Legge Crapo  [Crap = merda], e le prescrizioni legislative dettagliate della Dodd-Frank sono state lasciate in larga misura alla discrezione di agenzie operative amiche delle banche, quali la Federal Reserve, l’Ufficio del Controllore della Valuta (OCC) e la Securities and Exchange Commission (SEC) [analoga alla nostra Consob], le quali tutte si sono storicamente dimostrate prone alla cattura del regolatore.

Persino uno degli architetti che hanno contribuito alla Dodd, Lawrence Summers, in articolo scritto con la laureanda Natasha Sarin, non ha trovato alcuna prova “che i mercati… considerino oggi le banche più sicure di quanto erano nel periodo pre-crisi”. Molte delle stesse pratiche che hanno condotto al collasso del sistema finanziario nel 2008 sono oggi prevalenti quanto lo erano nel 2007. Esse includono la rinascita di alcuni dei prodotti più tossici che hanno contribuito all’ultimo crollo, quali le obbligazioni sintetiche con collaterale debitorio (CDO) e le correlate obbligazioni con collaterale finanziario (CLO), assieme a un continua cultura regolamentare che tuttora si manifesta in preferenze politiche che favoriscono gli interessi dell’industria rispetto a quelli dei cittadini comuni.

Considerato il rinnovato entusiasmo dei Democratici per l’antitrust (almeno quando si applica alla grande industria tecnologica) la domanda è se “ridimensionarle” per promuovere una maggiore concorrenza sia la via da percorre con le banche o se un approccio più “funzionale” alla disciplina abbia più senso procedendo. Sulla grande industria tecnologica ho scritto in precedenza che la dimensione di per sé può non essere il parametro migliore per definire una regolamentazione ottimale. Lo stesso potrebbe valere per le banche.

Imporre semplicemente un frazionamento del settore, sposato alla concorrenza del “libero mercato” e ad altre riforme basate sul mercato, è improbabile che sia sufficiente (tale critica di applica tanto ai Repubblicani quanto ai Democratici). Come hanno osservato i professori Marc Lavoie e Mario Seccareccia “una maggiore competizione potrebbe essere una buona cosa in industrie che producono, diciamo, ‘congegni’, poiché il prezzo inferiore che potrebbe potenzialmente derivare da minori profitti e maggiore produttività che sarebbero influenzati dalla concorrenza avrebbe un impatto positivo sul benessere della comunità in generale”. Ma Lavoie e Seccareccia riconoscono anche che l’attività bancaria non è unicamente una questione di profitti fini a sé stessi o di mercati competitivi; perciò “applicare questi principi di concorrenza al settore bancario, dove esistono enormi esternalità, potrebbe essere disastroso”.

Una di tali “esternalità” deriva dal fatto che il settore bancario ha una dimensione sociale unica che per molti versi non si presta prontamente a tutti i dettati di un sistema di libero mercato competitivo. C’è un motivo per cui il nostro governo, dopo la Grande Depressione, prese una consapevole decisione politica di garantire le passività del sistema bancario  attraverso la Federal Deposito Insurance Corporation (FDIC). Fu per proteggere l’integrità del sistema di pagamenti, la linfa vitale di un’economia, e le imprese e i consumatori che dipendevano dal credito offerto dalle banche.

Un oligopolio controllato che disincentivi le banche dal darsi a speculazioni rischiose è una via da percorrere (funziona ragionevolmente in Canada, ad esempio) perché concentra la spinta disciplinare sulla funzione e sul risultato, anziché sulla sola dimensione. Tuttavia le banche statunitensi sono molto più grandi in termini di attivi. “Troppo grandi per fallire” (TBTF) è rilevante qui perché la Dodd-Frank non ha fatto nulla per impedire che le banche diventino più grandi, anche se perseguono molte delle stesse politiche avventate che hanno fatto saltare banche nell’ultimo ciclo. Di fatto, l’implicita rete di sicurezza del TBTF ha virtualmente garantito che i banchieri potessero continuare ad assumere eccessivi “rischi di coda” (cioè un rischio eccessivo di bancarotta), sostiene il professor Edward Kane.

E’ in quel senso che la dimensione conta: in larga misura come i costi di una grande bonifica ambientale aumentano in proporzione alla dimensione, così le esternalità sociali ed economiche sono molto maggiori quando associate a una grande banca. Ma al cuore, è la funzione assieme al TBTF che crea il problema fondamentale; semplicemente utilizzate l’antitrust per promuovere la concorrenza non è d’aiuto se tutto ciò che la concorrenza produce è spingere le banche, indipendentemente dalla dimensione, a sposare attività sempre più avventate che aumentano i loro saldi di bilancio e a farlo in un modo che alla fine compromette l’integrità del sistema dei pagamenti. Ci sono delle cose che alle banche non dovrebbe essere consentito di fare, punto e a capo.

Dunque qual è l’approccio giusto: gli alti livelli di concentrazione nel settore bancario promuovono una maggiore instabilità finanziaria o è una questione di funzione? In verità le due cose sono interconnesse, ma la funzione conta di più.

Chiedete oggi a qualsiasi osservatore neutrale se sia la Goldman Sachs o la Japan Post Bank (la maggiore detentrice di depositi del mondo) a porre un rischio maggiore alla stabilità finanziaria e virtualmente tutti concorderanno che è la prima. Ciò perché il rischio sistemico è in larga misura generato dalla funzione, e dall’”interconnessione”, piuttosto che dalla dimensione degli attivi. Diversamente dalla Goldman Sachs (o virtualmente da qualsiasi grande banca statunitense commerciale o d’investimenti) la gamma di attività della Japan Post Bank è limitata a un elenco parecchio banale di funzioni bancarie tradizionali: è principalmente un’istituzione di raccolta del risparmio. Come indica la sua pagina su Wikipedia “i suoi unici prodotti finanziari sono linee di scoperto garantite da depositi vincolati e da titoli governativi giapponesi in deposito presso la banca”. Ciò la rende fortemente stabile, nonostante la sua grande dimensione.

Nessuno suggerisce realisticamente di limitare la funzionalità delle nostre banche al livello della Japan Post Bank. Non possiamo riportare l’orologio indietro così tanto. Ma l’esempio della Japan Post Bank è un’illustrazione importante del fatto che una concentrazione semplicistica sulla dimensione non è sufficiente.

E’ valido anche il corollario: un gruppo di istituzioni relativamente piccole che agisca in modo correlato può essere semplicemente tanto pericolo per il sistema dei pagamenti quanto un’entità vasta se l’attività sottostante cui di dedicano collettivamente è insicura. Le attività della Lehman Brothers erano replicate altrove (il problema dell’”interconnessione”) da altri. Se si fosse trattato soltanto di un’unica piccola banca il problema avrebbe potuto essere meglio contenuto. Di nuovo la funzione supera la dimensione in termini di priorità disciplinare.

Allo stesso modo è una conclusione troppo banale sostenere che il collasso di una piccola istituzione come la Lehman Brothers in qualche modo assolva le grandi banche. La causa fondamentale del fallimento della Lehman è stata che era un’istituzione relativamente piccola in lotta per competere con le banche TBTF, i cui enormi bilanci davano loro un vantaggio naturale sui concorrenti più piccoli. Operando per essere alla pari con gli utili delle banche maggiori, il minore bilancio della Lehman ha costretto la direzione a intraprendere ulteriori attività più rischiose (nonché a impiegare livelli pericolosi di leva). La conseguente tossicità del suo bilancio ha reso la Lehman irrecuperabile, inducendo il governo a lasciarla fallire.

“Lasciar fallire” è più difficile con una banca più grande. Le esternalità possono essere catastrofiche. Al tempo stesso, il pubblico capisce istintivamente i vantaggi dell’implicita protezione TBTF accordata alle grandi banche e dunque continua a “votare” con i suoi depositi. Vale a dire che i clienti delle banche sono sempre più migrati a queste stesse istituzioni elefantiache precisamente perché il governo ha ripetutamente dimostrato che non le lascerà finire sotto (in contrasto con istituzioni minori come la Lehman). Le tre maggiori banche statunitensi per attivi – JPMorgan Chase, Bank of America e Wells Fargo – “hanno aumentato i loro depositi nazionali di più di 2,4 trilioni di dollari negli ultimi dieci anni, un aumento del 180 per cento”, secondo un’analisi dei dati dei regolatori condotta dal Wall Street Journal nel 2018. (Nel caso della Wells Fargo, questo continuo aumento dei depositi è veramente incredibile, considerato che la banca ha visto calare ulteriormente la sua reputazione, già bassa, a causa degli scandali che sono stati recentemente scoperti).

Lo stesso articolo del WSJ prosegue segnalando che questa crescita dei depositi rappresenta “un aumento dal 20 per cento dei depositi totale del paese nel 2007 al 32 per cento, una cifra che supera quella detenuta nel 2007 dalle principali otto banche messe assieme”. Si aggiunga a questo gruppo la Citibank e si hanno quattro banche che detengono quasi la metà dei depositi totali degli Stati Uniti.

L’articolo del WSJ segnala anche che “il 45 per cento dei nuovi conti correnti è stato aperto presso le tre banche nazionali, anche se tali finanziatrici avevano solo il 24 per cento delle filiali statunitensi… [mentre] le banche regionali e comunitarie… avevano il 76 per cento delle filiali, ma hanno ottenuto solo il 48 per cento dei nuovi conti”.  Questo è importante, perché “i nuovi correntisti, che tendono a essere più giovani, sono preziosi per le banche perché spesso offrono in seguito maggiori affari, ad esempio sottoscrivendo un mutuo o aprendo un dossier titoli”.

Una rapida e incontrollata espansione dell’attività, sommata a lassismo normativo e salvataggi TBTF, ha perciò dato alle banche un enorme incentivo a diventare quanto più grandi possibile. La Dodd-Frank non ha cambiato questo. In realtà un documento di lavoro commissionato dalla Federal Reserve Bank di Filadelfia agli autori Elijah Brewer e Julapa Jagtiani ha fornito molteplici esempi di banche che hanno pagato premi considerevoli per assicurarsi di superare la dimensione degli attivi considerata la soglia necessaria per diventare troppo grandi per fallire.

Ma il TBTF è anche peggiore di questo perché in molti casi può di fatto sostenere la durata di una banca altrimenti insolvente, quelle che il professore Ed Kane chiama banche “zombie”:  “Cadaveri ambulanti societari insolventi che sarebbe costretti alla bancarotta se non fosse per varie garanzie governative implicite TBTF” (la Deutsche Bank è un esempio che viene immediatamente in mente). Questo è importante, perché se si è il direttore generale di una banca e si sa che in realtà la propria banca è già insolvente, quale è il disincentivo a continuare a speculare con il bilancio della banca? Il TBTF promuove azzardi morali spregiudicati.

Anche se le banche esercitano costantemente pressioni sul governo quando è compiuto un attacco alle loro “attività di ricerca del profitto”, l’attenzione di tali sforzi di pressione ovviamente si trasferisce ai salvataggio nel minuto stesso in cui stanno per saltare in aria. Improvvisamente il “socialismo governativo” non pare tanto nocivo. Non è irragionevole limitare le attività delle banche, specialmente quando istituzioni che introitano depositi sono in una posizione unica rispetto a virtualmente qualsiasi altra attività. Il governo avalla le loro principali passività – cioè i loro depositi – attraverso la FDIC. A nessun’altra attività è accordato un simile livello di protezione.

Analogamente, la regolamentazione è diventata sempre più complessa e onerosa in diretta proporzione con la complessità delle attività intraprese dalle stesse banche. Ciò è spesso usato come scusa per minimizzare la disciplina, quando di fatto dovrebbe provocare una reazione differente: cioè limitare la gamme di attività/innovazioni finanziarie sistemicamente pericolose in modo che la disciplina possa essere semplificata di conseguenza ed essere più facile da far rispettare. (Tra parentesi, un approccio funzionale è migliore in questo caso rispetto a una semplice concentrazione sulla promozione di ammortizzatori di capitale, che molti riformatori bancari hanno promosso. Di certo gli ammortizzatori di capitale costituiscono effettivamente un’importante polizza di assicurazione per una banca nel caso di una calamità finanziaria, ma innanzitutto in modo ottimale la regolamentazione dovrebbe affrontare le attività che danno origine alla necessità della “polizza di assicurazione”).

Se le banche persistono nell’intraprendere un’attività vietata approfittando di lacune nella normativa o mediante altri tipi di giochi di prestigio, la sfida per i decisori della politica/regolatori consiste nel contenere la conseguente ricaduta in modo che non metta in pericolo il sistema finanziario nel suo complesso (nonché nell’incarcerare i banchieri colpevoli in modo che “troppo grande per fallire” non si trasformi in “troppo grande per finire in carcere”, come si è chiaramente verificato dopo la crisi del 2008). Proprio al minimo, l’obiettivo dovrebbe essere, come sostenuto da Keynes nel capitolo 12 della Teoria Generale, che la finanza operi da ancella dell’industria (o dell’”impresa” produttiva) anziché il contrario, poiché la seconda condizione determina un sistema eccessivamente finanziarizzato dominato da un’attività di rendita speculativa largamente non frenato.

Purtroppo le aspirazioni di Keynes sono rimaste irrealizzate. Le banche dominano l’industria e operano in modi che derogano dallo scopo pubblico più generale. La tolleranza della dottrina TBTF illustra che non abbiamo ancora la volontà politica per frenare le attività speculative di grandi istituzioni detentrici di depositi (di nuovo, un altro sottoprodotto della loro dimensione che dà alle banche più forza lobbistica per opporsi a tali cambiamenti). Ma se non vogliamo fare i conti con questo problema, ci sarà inevitabilmente un’altra crisi. Di fatto è quasi certamente troppo tardi per evitare una simile eventualità. Ma, al minimo, speriamo di far meglio quando saremo colpiti dalla prossima crisi, cosa che certamente accadrà, come la notte segue il giorno.


Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

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Originale: https://www.salon.com/2019/05/05/tech-giants-are-a-big-problem-but-the-untamed-finance-industry-could-blow-up-the-economy-in-a-fl_partner/

 

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