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17 maggio 2019

 

L’Europa tra sovranismo e neoliberalismo.

Vanessa Bilancetti intervista Sandro Mezzadra

 

Alla vigilia delle elezioni europee, il processo di integrazione sembra essere entrato in una fase di stallo segnata dalla crisi del management neoliberale e dall’emersione dei nuovi nazionalismi. In questo quadro, la costruzione di uno spazio europeo per le lotte sociali continua a essere una necessità fondamentale per i movimenti sociali

 

Si arriva a queste elezioni europee dopo dieci anni di crisi economica, la povertà si allarga ovunque, anche se in maniera diseguale tra gli stati membri e nelle società europee. Se il voto del 2014 era un voto sulle politiche di austerity, che riconfermò i due grandi partiti che hanno dato vita al progetto europeo, la parola chiave di queste elezioni è sovranismo. Questa è diventata la parola attraverso cui le istituzioni europee sono in grado di aggirare tutte le implicazioni sociali delle politiche economiche degli scorsi dieci anni e occultare le proprie responsabilità nelle politiche migratorie. Che cosa ne pensi?

Per comprendere quello che viene chiamato sovranismo, che è una forma più o meno radicale di nazionalismo, è indispensabile guardare anche di fuori dall’Europa, cioè alla congiuntura globale che stiamo vivendo, e allo stesso tempo continuare a tenere presente la crisi cominciata nel 2007/8. Infatti, il sovranismo, di cui vediamo esempi non solo in Europa o negli Stati Uniti, ma anche in India, e in forme differenti anche in Cina, deve essere inteso come una risposta al lascito del lungo periodo di crisi, cioè all’incapacità del neoliberalismo di tenere insieme le società. Il sovranismo si presenta come un supplemento del neoliberalismo, non lo mette in discussione ma lo integra con una componente autoritaria, a livello sia retorico sia politico.

Tenendo in conto questo quadro globale, sul sovranismo in Europa possiamo riflettere da diversi punti di vista: mi limito a sceglierne due che sono per me i più importanti. Il primo è l’effetto di violento irrigidimento dei rapporti sociali, che la crescita del sovranismo determina. I primi a pagare il prezzo di questo irrigidimento sono i migranti, le donne e i giovani. C’è un fortissimo effetto di disciplinamento sociale che colpisce in modo molto violento questi soggetti che, poi, sono i soli soggetti da cui può venire un rinnovamento dell’Europa non solo nel senso radicale che ci sta a cuore, ma anche in senso più generale, un futuro per l’Europa.

Secondo punto: in questo momento la crescita del sovranismo è sintomo e causa del declino dell’Europa. Il mondo si sta riorganizzando, in modo più o meno conflittuale, intorno a grandi spazi continentali, gli attori che contano nella politica mondiale – dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all’India –  sono grandi spazi sub-continentali, non piccole nazioni come quelle europee. Pensare che dentro questo sistema mondiale ci sia spazio per l’Italia sovrana è francamente ridicolo, l’Italia sovrana non avrà mai la capacità di andare a negoziati paritari con la Cina: è una banalità, ma dietro a questa banalità c’è un problema molto grande, che è il futuro dell’Europa. Il futuro dell’Europa difficilmente può essere un futuro da protagonista senza un rilancio dell’integrazione, senza un salto qualitativo nel processo di integrazione, esattamente quello contro cui si schierano i sovranismi di ogni tipo, da destra a sinistra.

Questo non è un problema che si possa completamente separare dal primo, cioè dall’attacco contro i migranti, le donne e i giovani, le due cose sono collegate, perché gli spazi di libertà e di potenziale conflitto che il sovranismo ci propone sono spazi estremamente compressi, resistenziali. Per questo dovrebbe essere nostro interesse un salto di qualità (il che vuol dire anche un cambiamento di indirizzo, naturalmente) nel processo di integrazione, perché potrebbe essere anche un salto di qualità non solo negli spazi di agibilità politica per i movimenti, ma in senso molto più generale anche degli spazi di contesa sul benessere e sulla ricchezza.

 

Nel dibattito politico pubblico si tende a contrapporre lo Stato alle istituzioni europee, ma è proprio così? Ad esempio, nel caso delle politiche migratorie esiste una contrapposizione tra Stati e istituzioni europee? 

Contrariamente a quello che si crede e a quanto i sovranismi, sia di destra sia di sinistra, lasciano intendere, la storia del processo di integrazione ci dimostra che a partire dagli anni ’60 l’integrazione europea è stata la cornice al cui interno gli stati si sono ricostruiti e riprodotti. Non c’è un gioco a somma zero tra integrazione europea e funzioni degli stati nazionali, molto probabilmente se non ci fosse stata l’integrazione europea, gli stati avrebbero perso ancora più sovranità di quanto è accaduto. Questo schema interpretativo, cioè un gioco non a somma zero, vale ancora oggi per leggere la relazione tra stati membri e istituzioni europee.

Secondo punto, negli ultimi dieci anni, in particolare nel contesto della crisi e del management della crisi, questo double bind ha assunto caratteristiche sostanzialmente patologiche e ha posto le condizioni per l’alimentazione reciproca tra management neoliberale della crisi europea e crescita dei cosiddetti populismi e nazionalismi negli stati membri.

Terzo e ultimo punto di vista, le politiche migratorie: se guardiamo alla loro storia in Europa negli ultimi venti anni, dobbiamo smentire un altro luogo comune, l’idea, cioè, che le politiche migratorie le facciano gli stati. In Europa non è stato così negli ultimi venti anni, a partire proprio dalla fondazione dell’Unione Europea, le politiche di gestione dei confini esterni hanno posto limiti molto precisi all’azione degli stati membri, determinando la cornice all’interno della quale si sono sviluppate le politiche migratorie degli stati.

Semplificando brutalmente, questa cosa ha funzionato fino al 2011, cioè fino alle cosiddette primavere arabe. Nel 2011, con la rivoluzione in Tunisia, immediatamente seguita da un movimento di fuga di massa da quel paese, si è rotta una maglia importante del regime di controllo europeo, aprendo una crisi nel regime di controllo dei confini europei che non si è ancora chiusa. Naturalmente ci sono stati momenti di drammatica accelerazione in questa crisi, il bombardamento della Libia nel 2011, l’inizio della guerra civile in Siria nel 2012, e poi quella che chiamiamo la lunga estate delle migrazioni nel 2015, che dal punto di vista delle pratiche di mobilità dei migranti ha sfidato in modo radicale il regime di controllo dei confini.

Arriviamo poi all’accordo tra Unione Europea e Turchia che è un tentativo di restaurare la tenuta di quel regime di controllo dei confini che avevamo conosciuto negli anni precedenti al 2011. In quel regime di gestione dei confini, l’Europa non puntava in modo lineare e semplice alla costruzione dei muri di una fortezza, ma piuttosto cercava di stabilire un sistema di filtri e di dighe, per rimanere in campo metaforico. L’obiettivo era cioè quello di gestire in modo differenziale l’ingresso dei migranti all’interno dello spazio europeo, necessario per il sistema economico e per ragioni demografiche.

La mia impressione è che dopo il 2015 e dopo l’accordo con la Turchia, le istituzioni europee avrebbero voluto restaurare quel tipo di regime di controllo dei confini, e che su questo si siano trovate in una posizione di scontro con alcuni governi europei, tra cui il governo italiano. Quindi, penso che ci sia una tensione tra politiche europee che sono classicamente politiche neoliberali di management delle migrazioni, che vogliono gestire le migrazioni sulla base del “capitale umano” di cui i migranti sarebbero portatori, e politiche apertamente nazionaliste come quella di Salvini, Orbán e altri leader nazionalisti (o “sovranisti”) europei. È una tensione che ha prodotto uno stallo, che è necessario tenere presente.

 

Nel tuo articolo scritto con Maurice Stierl scrivi che nel Mediterraneo «assistiamo ad un dualismo senza precedenti nella rappresentazione della forza e della libertà. Mentre prima si parlava di “umanizzazione” dei confini, ora notiamo una profonda inumanità e una violenza pura, che l’Europa non può, o non vuole, più nascondere». Che cosa intendi? 

Chi ha lavorato, come me, sulla questione dei confini, in particolare in Europa e nel Mediterraneo, ha cominciato, già nei primi anni duemila, a parlare di incorporazione dell’umanitario all’interno del regime di controllo dei confini. Questo non significava esprimere un giudizio liquidatorio nei confronti dei tanti volontari e delle tante volontarie impegnate nelle ONG, piuttosto puntava a cogliere un cambiamento qualitativo nel modo in cui venivano gestiti i confini dal punto di vista dei diritti umani. Le organizzazioni umanitarie, in qualche modo, rappresentavano all’interno del regime di controllo dei confini, i diritti umani, che diventavano così un elemento interno a questa gestione, in alcuni casi in grado di aprire una serie di contraddizioni e di spazi di azione. Questo era un elemento importante e costitutivo del management neoliberale dei confini. Un management flessibile, un’attitudine orientata alla differenziazione dei diversi status: per descrivere questo regime di controllo de confini avevamo, infatti, introdotto la categoria di inclusione differenziale e gerarchica.

Da un po’ di tempo a questa parte, in Italia Minniti aveva anticipato Salvini su questo terreno, ci troviamo in una situazione molto diversa, una situazione in cui l’intervento umanitario è tendenzialmente criminalizzato, e proliferano quelli che molti chiamano i crimini di solidarietà in mare come in terra. Il problema si sposta, e devono essere modificate le categorie con cui diamo conto dell’umanitario,

Anche questa trasformazione non riguarda soltanto l’Italia o l’Europa, dall’ordinanza del sindaco di Ventimiglia che proibiva di offrire acqua ai migranti, alle sentenze contro il collettivo No More Deaths in Arizona, al Bengala occidentale dove vengono attaccate le ONG che lavorano con i Rohingya, i profughi musulmani che arrivano dalla Birmania. Questa criminalizzazione dell’umanitario fa parte di quella congiuntura globale di cui parlavo all’inizio e ci chiama a un impegno come quello che in tante e tanti stiamo portando nel progetto Mediterranea.

 

Crisi economico-finanziaria, crisi migratoria, crisi ambientale, che cosa rimane oggi dello spazio europeo, anche come spazio di attraversamento per i movimenti sociali? In un momento in cui sembra che il movimento femminista sia già un movimento transnazionale, quindi oltre lo spazio europeo, e il movimento del Gilets Jaunes non riesca a uscire dai confini nazionali?

Io penso che debba esistere uno spazio europeo dei movimenti e, se non esiste, dovrebbe essere ricostruito, altrimenti è molto difficile immaginare quel salto di qualità sul terreno dell’integrazione di cui parlavo prima. La domanda, però, sintetizza molto bene la difficoltà di questo compito. Da un lato, oggi in Europa continua a esserci una circolazione di comportamenti, immaginari, desideri che qualifica lo spazio europeo.  Dall’altro lato, non esiste una stabilizzazione di spazi di iniziativa politica a livello europeo, come c’è stata in passato su temi come la disoccupazione, con le marce di fine anni ‘90, le migrazioni, il mediattivismo, o più recentemente la campagna di solidarietà con la Grecia, o Blockupy. Questo tipo di iniziative oggi non ci sono, e dovremmo domandarci anche se non è necessario fare un bilancio di quello che queste iniziative hanno rappresentato e ottenuto negli scorsi anni, per individuarne i limiti. Però, per fare un bilancio critico c’è bisogno di uno spazio europeo in cui farlo e oggi manca anche questo.

I Gilets Jaunes ripropongono un problema tipicamente francese, movimenti che insistono sullo modello sociale e sul fisco e che restano dentro lo spazio nazionale, come pochi anni fa era successo al movimento contro la loi travail. Da un lato, si può guardare al modo in cui queste esperienze di movimento si riverberano a livello europeo, interpellando attiviste e attivisti in altri paesi. Dall’altro lato, mobilitazioni di questo genere, in un paese importante come la Francia, possono avere ricadute a livello europeo anche semplicemente per l’effetto domino delle trasformazioni che possono determinare. Un cambiamento radicale delle politiche fiscali in Francia imposto dal movimento dei Gilets Jaunes avrebbe una ricaduta enorme a livello europeo.

È vero che nel dibattito del movimento femminista la dimensione europea non è sentita come centrale, mentre viene spesso evocata la dimensione transnazionale e globale del movimento. Probabilmente, un consolidamento dei rapporti dentro lo spazio europeo, in particolare tra quei paesi dove il movimento è più forte, prima di tutto l’Italia e la Spagna, potrebbe essere utile sia per la politica europea, sia per consolidare e dare concretezza a questo discorso sulla dimensione transnazionale del movimento femminista. E potrebbe anche funzionare efficacemente come base per moltiplicare e stabilizzare i rapporti con altri spazi al di fuori dell’Europa, a partire dall’America Latina.

È chiaro che non sto rispondendo in modo soddisfacente alla domanda, perché è molto difficile farlo se non in termini generali, riaffermando la necessità di questo spazio europeo. Vorrei specificare però che spazio europeo non significa semplicemente rete degli attivisti europei o trasposizione su una scala allargata dello spazio nazionale, vi è invece necessità di uno spazio più ampio. Per cui penso che sia fondamentale continuare a lavorare sui comportamenti, sulla circolazione di immaginari, sui singoli movimenti, tentando di prevedere e, se possibile, anticipare i modi in cui questi movimenti possano precipitare a livello europeo.

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