https://comedonchisciotte.org/

16 Maggio 2017

 

Ma l’Europa si è Macronizzata il cervello?

di Rosanna Spadini

 

Grande festa nei palazzi dell’oligarchia francese, alla notizia della vittoria dell’ultra europeista Emmanuel Macron, un volto, una pattumiera.  Il miglior champagne è fluito a fiumi chez Bernard Arnault, proprietario del gruppo LVMH (Moët Hennessy Louis Vuitton), a capo del secondo patrimonio francese, undicesimo nel mondo, il terzo in Europa e il 13° a livello mondiale nel 2015, con una ricchezza stimata 37,2 miliardi di dollari. La messa in scena del drammone borghese del fascismo alle porte ha avuto il suo scontato effetto, e il prodotto ben confezionato del nuovo gattopardo ha avuto la meglio.

 

Proprietario tra le tante altre cose dei giornali Parisien, Aujourd’hui Francia ed Echos, tutti ferventi sostenitori di Emmanuel Macron.  In aggiunta il miliardario Patrick Drahi, nato in Marocco, doppia nazionalità franco-israeliano, residente in Svizzera, proprietario di un vasto impero mediatico e di telecomunicazioni, il tabloid Libération, che invitava espressamente di votare per Macron.

 

L’elenco di miliardari, banchieri e figure istituzionali è lungo, ed hanno tutti diritto di esultare per lo straordinario successo di un candidato che è stato eletto Presidente della Repubblica francese, nonostante la dichiarata pretesa di essere «un outsider». In realtà nella storia francese non c’è mai stato uno spiegamento così massiccio di corazzate mediatiche, come in questo caso.

I sondaggi del ballottaggio indicano che tra il 40% degli elettori Macron, una buona parte lo ha scelto esclusivamente per avversione lepenista, altri a sinistra lo hanno votato giurando pubblicamente che essi avrebbero combattuto contro di lui, una volta fosse stato eletto.

 

Ci saranno manifestazioni di piazza nei prossimi mesi, ma non incideranno minimamente sull’intento di Macron di barattare per decreto il diritto al lavoro col diritto di spennare vivi i poveri polli, che combattono fino all’ultimo voucher, in un momento in cui il capitale afferma la propria potenza  grazie alle delocalizzazioni, dumping salariale, offerta di manodopera a prezzi stracciati.

Per altro Hollande, nel momento di massima impopolarità del suo governo, con l’assistenza zelante dei principali network, le principali banche e oligarchie di vario tipo, è riuscito a promuovere il suo ex-consigliere economico a candidato del «cambiamento», una nuova stella politica, puntellata però da tutti i vecchi politici di cui l’elettorato voleva sbarazzarsi. Una dimostrazione straordinaria del potere della «comunicazione» nella società globalizzata, un trionfo per l’industria della pubblicità, dei media mainstream, che non sembrano essere ancora morti.

 

La Francia di Marine Le Pen è stata percepita come un potenziale anello debole nel progetto di globalizzazione, in grado di impedire la completa demolizione della sovranità nazionale, però grazie all’alleanza del capitale con la finanza, il pericolo è stato scongiurato.

E dunque Macron si è affermato con disinvoltura sorridente, celebrato da una sorta di plebiscito, lui che è più Obama di Obama stesso, più Blair di Blair stesso. Un clone di entrambi, confezionato su misura dalla classe dei banksters, che si apprestano a ricattare le poche garanzie sociali che ancora restano.

Un puro fenomeno mediatico privo di un partito di riferimento, un vuoto di valori e programmi, che risponde perfettamente alla gestione mediatica del potere nel nostro tempo, dove i politici vincenti arrivano alla ribalta unicamente per doti fotogeniche e telecomunicative, bypassando direttamente congressi partitici e beghe democratiche, ormai divenute desuete e anacronistiche.

 

L’outsider centrista, un cane sciolto che è diventato un concorrente di primo piano nella corsa presidenziale francese, ha spesso detto di essere un figlio della provincia francese, nulla di preordinato nella sua elezione.

Del resto solo tre anni fa era un completo sconosciuto, quindi non avrebbe mai potuto arrivare dov’è arrivato, se la finanza non lo avesse aiutato  a  rigenerare quello che lui ha definito un sistema politico «vuoto», per di più non riconoscendosi in nessuna ideologia preesistente.

 

 

 

 

 

Dopo due anni come ministro dell’economia sotto il presidente Francois Hollande, Macron ha avuto l’istinto politico di cogliere uno stato d’animo di sfiducia e disperazione in un Paese segnato da decenni di disoccupazione di massa e dalla nuova minaccia terroristica islamica. In meno di un anno ha costruito un movimento «En Marche!», che definisce «né di destra né di sinistra». Liberale progressista, si dichiara saldamente a sinistra sulle questioni sociali, ma odia il termine centrista, ed è aperto alle idee di destra.

 

Il Guardian lo definisce un «liberale di centro/sinistra», che rappresenterebbe per altro le idee della  «sinistra liberale». In realtà il tempo postmoderno induce a definizioni da neolingua:

1) «rifare il sistema politico fallito & vuoto» (ipocrisia camaleontica)

2) «relax del diritto al lavoro» (disoccupazione galoppante)

3) «tagliare le tasse» (naturalmente ai ricchi)

4) «riforma della gestione disoccupazione» (taglio degli ammortizzatori sociali)

5) «favorire la mobilità sociale» (sfruttamento della manovalanza a basso prezzo)

6) «tagliare la spesa pubblica, ma stimolare gli investimenti» (distruggere salute pubblica, scuole, infrastrutture)

7) «shrink del settore pubblico» (svendita di beni pubblici a prezzi stracciati per gli amici banchieri)

8) «ridurre il numero dei parlamentari» (accelerare l’erosione della democrazia rappresentativa)

9) «costruire un’Eurozona a due velocità» (un passo avanti verso la colonizzazione dei PIIGS)

10) «noleggio di 10.000 agenti di polizia» (controllo militare dei bisogni sociali).

 

La sinistra liberale dunque vorrebbe garantire la disuguaglianza sociale, il militarismo e il controllo sociale, di stampo fascista, mentre la redazione del Guardian è felice di promuoverla, affermando con orgoglio di essere un giornale di sinistra.

Basta convincere che l’unica opposizione consentita è una destra razzista e si può facilmente persuadere l’elettorato che Macron è veramente ancora quel vecchio hippy che sembrava essere al tempo del college, anche se ora è finanziato da un banchiere globalista, Rothschild, che dichiara pubblicamente la sua intenzione di voler favorire un sistema economico schiavista,  dove precarizzazione e disoccupazione producono la nuova classe degli schiavi, controllata da uno stato di polizia che ne impedisca la rivolta.

Le Monde rincalza « Macron farà le  riforme che Berlino chiede»,  le farà nei primi cento giorni, le farà «per decreto», senza passare per le camere, dato che non ha la maggioranza. Berlino ha  immediatamente risposto: prima fate le «riforme», tagliate i vostri costi del lavoro, del welfare pubblico, e poi penseremo a  fare «più Europa» (ossia collettivizzare i debiti pubblici).

E chiaro che a Parigi come a Washington, le oligarchie forzano le procedure, calpestano le norme democratiche e radicalizzano le classi sociali, in un’escalation ineluttabile che avvicina alla guerra civile, perché agli oligarchi «europeisti», non importa nulla della pace sociale, domata perfettamente con la paura indotta degli eventi terroristici.

Macron costruisce una macchina di consenso in pochissimo tempo formulando un verbo politico che sostituisce il concetto di uguaglianza con quello di libertà individuale, avvalendosi di una macchina elettorale nuova che ha coniugato «Big Data e porta a porta».

«La rivoluzione liberale francese», di Mauro Zanon, analizza l’ascesa di Macron alla presidenza della repubblica francese. Chissà come mai quel «fottuto banchiere» dei Rothschild poi è diventato il più classico ministro «riformista» pro liberalizzazioni del governo Hollande. In realtà il mantra celebrativo del politico senza partiti e fuori dai giochi di potere, filerebbe diritto nell’attuale categoria del partito personale, presente perfino nell’acronimo delle iniziali di nome e cognome (EM: Emmanuel Macron – En Marche!).

 

Il cammino di Macron quindi non nasce dal nulla, tipico enfant prodige della borghesia finanziaria, dove la possibilità di spostarsi orizzontalmente in ambito professionale non ha minimamente risentito della crisi, è l’esempio lampante di una mobilità all’americana tra un lavoro e l’altro: ispettorato generale delle finanze, funzionario di una potentissima banca d’affari, membro della prestigiosa Commissione Attali (voluta da Sarkozy), e infine ministro dell’Economia. Il tutto quando ancora aveva poco più di 30 anni. E mentre continua a peregrinare tra think tank neosocialisti, persevera con  banchieri, economisti liberisti, direttori di giornale, conduce trattative dall’ufficio Rothschild per la vendita di Le Parisien e orienta gli investimenti di Le Monde.

Si circonda di geni del web e della comunicazione, con un pizzico di troika eurocratica (Juncker e Schauble), e una buona dose di classe dirigente, che lo aveva finanziato quando muoveva i primi passi.

Nell’estate del 2015 Macron si dimette dalla compagine ministeriale dei socialisti, richiama gli amici e colleghi di studi di vecchia data e inizia la «Grande Marche». La Liegey-Muller-Pons (Lmp) gli fornisce la prima start up di strategia elettorale europea, e coniugando «Big Data e porta a porta, si adopera anzitutto per formare i volontari, scelti tra quelli che si erano iscritti spontaneamente sul sito di En Marche!». Sulla base di uno studio sociologico di migliaia di quartieri, gli «helpers» vengono spediti in quelli più rappresentativi della società, dove vengono raccolte centomila conversazioni e compilati migliaia di questionari. I «marcheurs», come vengono chiamati i volontari macronisti, hanno a disposizione due app fornite da Lmp, la prima per orientarli nella loro marcia sul piano socio-demografico, e la seconda per aiutarli a cogliere al volo il succo delle conversazioni con gli elettori.

 

A tutto ciò si aggiunge la rivoluzione scandalosa dell’enfant prodige, con il suo vessillo eretico ficcato nella marmellata della consapevolezza politica francese: «Il liberismo è di sinistra». Proprio lui, definito «l’uberista della politica» per le sue aperture al mercato, accompagnerà la svolta liberista della sinistra, ispirandosi all’impalcatura macroeconomica blairiana e trumpiana insieme.

Quindi grazie al massacro delle coscienze, Macron riesce progressivamente ad iniettare il virus liberista per avvelenare i pozzi all’interno del proprio campo politico, del resto a destra non ce n’era bisogno, visto che quell’impianto è già da lungo tempo dominante. Dunque il concetto di «libertà» dovrà  sostituisce quello di «uguaglianza», la «società della mobilità» quella «del welfare», il mantra della «semplificazione delle regole», al posto della «maggiore flessibilità». Alla fine non poteva mancare un bonus cultura da 500 euro per i neo diciottenni di renziana memoria, inserito nel programma di En Marche!.

 

«È una generazione, quella che si rispecchia nelle battaglie macroniste, cresciuta nell’Europa della mobilità, dell’Erasmus, della libera circolazione delle persone e dei beni, una generazione perennemente in viaggio, iperconnessa, postideologica, affascinata dai disruptors dell’economia, Uber, Airbnb, BlaBlaCar, KissKissBankBank, che guarda i film su Netflix e ascolta la musica su Spotify, che preferisce intraprendere che restare a vita nella pubblica amministrazione, che non idolatra il contratto a tempo indeterminato e crede nella «società della scelta» per combattere le diseguaglianze» (Mauro Zanon, La rivoluzione liberale francese).

 

top