da Repubblica.it

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25 novembre 2019

 

Riforma del Fondo salva Stati, fermate quel mostro

di Carlo Clericetti

 

Un potere enorme a tecnici che nessuno controlla e che possono imporre agli Stati la ristrutturazione del debito: basterebbe solo questa possibilità a far scappare gli investitori, provocando la crisi che l’organismo dovrebbe evitare. Il governo italiano sembra orientato ad accettarlo. Sarebbe l’ennesimo errore, stavolta forse fatale. 

La riforma del cosiddetto “Fondo salva Stati”, l’Esm (European stability mechanism), è arrivata a un passo dall’approvazione. Il lato positivo in questa vicenda è che serve l’unanimità, e quindi l’Italia ha un potere di veto; il lato negativo è che il governo – e soprattutto il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri – sembra soddisfatto delle modifiche ottenute al testo originario, e quindi appare orientato a non usare questo potere. Sarebbe l’ennesimo errore nei nostri rapporti con gli altri partner europei, e questa volta sarebbe fatale, perché c’è la quasi certezza (il “quasi” è solo perché a volte accadono i miracoli, ma chi ci scommetterebbe tutto quel che ha?) che il solo fatto dell’entrata in vigore di quel meccanismo provocherebbe per il nostro paese una catastrofe economica. 


Come dice Carlo Cottarelli sulla Stampa: “Se gli investitori sanno che il Fondo salva Stati chiederà probabilmente una ristrutturazione del nostro debito come condizione per un prestito, come pensate che si comportino? Smetterebbero di comprare titoli di Stato al primo segnale di tensione”. In realtà Cottarelli è fin troppo ottimista, perché la cosa più probabile è che gli investitori che possiedono titoli pubblici italiani non solo non ne comprino più, ma comincino a liberarsene, senza aspettare che una minaccia di crisi faccia scendere il loro valore. Ma se vendono avviano appunto la discesa dei prezzi, con un effetto “palla di neve” che inevitabilmente evolverebbe in valanga. E’ una cosa del tutto simile a quello che è accaduto dopo la famosa “passeggiata di Deauville”, durante la quale Merkel e Sarkozy decisero che gli investitori privati dovessero essere coinvolti nei costi della crisi. 

Il fatto è che i tedeschi, i loro alleati nordici e anche i francesi dimostrano di non aver capito – e di continuare testardamente a rifiutarsi di capire – come funzionano i mercati finanziari. Basti ricordare la guerra fatta da Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, al “whatever it takes” di Draghi, che risolse la crisi degli spread senza che la Bce dovesse intervenire con un solo euro. E ricordare le proposte dei sette economisti tedeschi e sette francesi che seguivano la stessa logica alla base della riforma dell’Esm. E, ancora, ricordare il ridicolo dibattito sulla “riduzione del rischio prima della condivisione del rischio”, altra testimonianza dell’ignoranza dei meccanismi di mercato. In quel dibattito a un certo punto intervenne Draghi, spiegando che la riduzione del rischio si ottiene appunto con la condivisione del rischio: parole al vento, sono state del tutto ignorate. 

Ora questi geni della finanza vorrebbero affidare la valutazione sulla sostenibilità del debito di un paese ai tecnici dell’Esm (il cui direttore è il tedesco Klaus Regling). Magari sono gli stessi tecnici che hanno elaborato il metodo per calcolare l’output gap, quello che serve per giudicare i conti pubblici dei paesi Ue. Un metodo ridicolizzato da economisti di tutto il mondo, non solo economisti critici, ma anche moltissimi di quelli che lavorano nelle principali istituzioni internazionali. Un metodo che l’Italia contesta da tempo, ma a cui sono state apportate solo correzioni marginali che non ne hanno cambiato in nulla la totale assurdità. Sarebbe meglio affidarsi al “testa o croce”: almeno ci sarebbe un 50% di probabilità di avere la risposta giusta, invece della totale certezza che sarà sbagliata. 

E poi, forse non c’è solo l’ottusità dietro a questo piano. Molti hanno sottolineato che al Fondo potranno accedere non solo gli Stati, ma anche le banche. E che le cosiddette recenti “aperture” del ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz (che nella sostanza non cambiano nulla della posizione di Berlino), coincidono con l’aggravarsi della situazione delle due maggiori banche tedesche, Deutsche e Commerz, ormai sull’orlo del disastro. Non sarebbe male per loro, per soddisfare i propri bisogni finanziari, poter attingere a un Fondo finanziato pro-quota da tutti i paesi (noi siamo il terzo finanziatore). 

A questo punto l’Italia dovrebbe presentare una sua proposta, che, pur accettando i capisaldi di principio dell’Unione, contestare i quali suonerebbe come una inutile provocazione, ne cambi le regole di funzionamento. Quindi, perseguimento dei conti in ordine, riduzione del rischio-paese, riduzione del debito pubblico, ma con metodi diversi da quelli finora seguiti. 

Sul mandare in pensione il metodo dell’output gap sembra che finalmente ci sia accordo. La proposta sul tavolo è di sostituirlo con il controllo della spesa pubblica, che non dovrebbe più essere aumentata. Sarebbe già un passo avanti, perché almeno si tratta di un parametro non soggetto a conteggi arbitrari, ma introdurrebbe l’ennesimo elemento di rigidità: ancora una volta, le regole invece della politica, perché è scontato che la politica fa solo guai (alla faccia della democrazia…). Si potrebbe contro-proporre che il parametro fondamentale diventi il saldo primario di bilancio (entrate meno spese al netto degli interessi), che misura quanto lo Stato mette o toglie dall’economia. A quello andrebbe applicata la famosa regola del 3% di scostamento massimo, stabilita dal Trattato di Maastricht: non perché sia una regola particolarmente intelligente, ma, appunto, come proposta di compromesso. 

A chi ha un debito pubblico elevato non sarebbe consentito di avere un saldo primario negativo (anche questa una proposta di compromesso). Oltre quale limite di debito pubblico? Su questo torneremo più avanti. 

Il saldo primario positivo dovrebbe essere l’unica condizionalità per l’eventuale accesso agli aiuti dell’Esm. Se si è in quella condizione, significa che il paese in questione sta facendo una politica di austerità (eggià…), e non finanza pubblica “allegra”, e questa dovrebbe essere una condizione sufficiente per ottenere l’appoggio. Come si ricorderà, l’Italia ha un saldo primario attivo da 27 anni, con l’eccezione del 2009, l’anno in cui la crisi è stata più acuta. Nessun altro paese può vantare un analogo record. 

Non solo. Un paese con un saldo primario positivo non dovrebbe pagare un tasso sulle emissioni di debito pubblico superiore alla media dell’Eurozona. Se il mercato ne richiede uno più alto, spetterebbe alla Bce (o allo stesso Esm) provvedere ad agire da calmiere. Anche in questo caso, come per il whatever it takes, se l’impegno fosse credibile il mercato, con ogni probabilità, si adeguerebbe spontaneamente, senza bisogno di interventi, almeno dopo che le prime aste avessero confermato che si fa sul serio. 

Quanto ai debiti pubblici, bisognerebbe applicare uno dei numerosi meccanismi elaborati per ridurli, per esempio quello chiamato P.A.D.R.E. (Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone, ossia "ristrutturazione del debito politicamente accettabile") o un altro simile (ce n’è anche uno elaborato da economisti tedeschi). Quantomeno, prendere atto che con il quantitative easing la Bce ha applicato di fatto la parte sostanziale di questi meccanismi, ossia l’acquisto di debito pubblico in proporzione alle quote della banca centrale possedute da ogni paese. Si tratterebbe di formalizzare il fatto che la Bce continuerà a detenere indefinitamente quella parte di debito. In base ai trattati alla Bce è vietato finanziare gli Stati: il QE è stato possibile in quanto motivato con la necessità di evitare la deflazione e perseguire l’obiettivo della banca centrale, secondo cui la crescita dei prezzi deve essere “sotto, ma vicino, al 2%”. Un obiettivo tuttora non raggiunto e nemmeno previsto a breve termine. Se si volesse, anche per trattenere definitivamente i titoli acquisiti con il QE si troverebbe una motivazione compatibile con i trattati. Se si volesse… 

In quel caso si ridurrebbe d’un colpo il peso del debito pubblico per tutti i paesi (proporzionalmente alla quota detenuta in Bce). Il livello medio europeo del rapporto debito/Pil, oggi intorno al 90%, a occhio scenderebbe di 15-20 punti, e quella potrebbe essere la nuova soglia. Non sarebbe uno scandalo: il famoso 60%, che peraltro non ha alcuna giustificazione teorica, fu fissato quasi 30 anni fa, in un mondo molto diverso e soprattutto prima della crisi più grave da un secolo. L’Italia resterebbe comunque sopra la soglia, e perciò continuerebbe ad esser tenuta a ridurre il debito (altro compromesso). Ma il compito sarebbe assai meno impervio di quanto lo sia oggi, soprattutto nell’ambito delle nuove regole. In questo quadro si può anche accettare che venga posto un limite al possesso da parte delle banche di titoli del debito pubblico del proprio paese. Ma per raggiungerlo dovrebbe essere previsto un tempo lungo, in modo da evitare ripercussioni immediate. Inoltre sarebbe sensato che il limite non fosse assoluto, ma, per esempio, venissero considerati risk-free i titoli all’interno del limite, mentre per quelli in eventuale eccedenza si applicherebbe un coefficiente di rischio-paese. 

Se nella prossima riunione l’Italia si presentasse con queste proposte, quante probabilità ci sarebbero che venisse ascoltata? Zero. Però avrebbe presentato un piano non provocatorio e questa sarebbe una motivazione sufficiente a porre il veto a quello attuale, che, giova ripeterlo, avrebbe per il nostro paese conseguenze catastrofiche. 

E comunque non si tratta solo di evitare un grave danno per noi, cosa che è già più che sufficiente. La riforma proposta conferisce un potere enorme a un organismo tecnico che non risponde a nessuno, a scapito del Parlamento (che di potere già ne ha assai poco) e persino della Commissione, che ha almeno una legittimazione indiretta. Approvare una mostruosità del genere significa ridurre i principi democratici a un simulacro, buono solo per la retorica dei discorsi ufficiali. Attenti, che prima o poi la Storia si vendica.

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28 novembre 2019

 

Esm, una pseudo Bce-2 ancora più tedesca

di Carlo Clericetti

 

Un Fondo che dovrebbe svolgere alcuni compiti caratteristici di una banca centrale – persino prestare alle banche – ma con mezzi limitati che non reggerebbero a un attacco speculativo in grande: solo una Bce senza assurdi vincoli può farlo. Però per l’Italia sarebbe un pericolo: perché allora non porre il veto? Il discorso che “bloccheremmo l’Europa” non vale: i tedeschi lo stanno facendo da anni sul completamento dell’unione bancaria.

La vicenda del Fondo salva Stati – diventato di fatto ammazza-Stati e salva-banche – sarebbe grottesca se non fosse drammatica. Mostra, insieme, i contorcimenti della teoria economica dominante, specie nell’interpretazione che se n’è data in Europa; la necessità di ripararne in qualche modo la falla più macroscopica; l’asservimento della costruzione europea agli interessi di chi ha conquistato l’egemonia nell’Unione; la disastrosa inadeguatezza delle classi dirigenti italiane, tanto quelle politiche quanto quelle “tecniche”.

La teoria mainstream postula l’indipendenza delle banche centrali, che devono essere separate dalla politica perché – sottintende – le scelte politiche sono sempre “populiste” e dannose per l’economia. Ma in Europa si è fatto di più: si è vietato alla banca centrale – la Bce – di essere “prestatore di ultima istanza” degli Stati. Il fatto è che un organismo del genere è necessario. Tutte le banche centrali, se si scatena una crisi finanziaria, sotto forme più o meno esplicite svolgono quel compito. E lo ha fatto anche la Bce, con il “whatever it takes” di Draghi: anzi, è bastato dire, in modo credibile, che lo avrebbe fatto. Da allora gli attacchi speculativi sono cessati. Ma ora Draghi non c’è più, e Christine Lagarde non è Draghi. E il “partito tedesco” torna all’attacco per riportare le lancette dell’orologio a prima di quella frase.

Non ci sarebbe alcun bisogno dell’Esm, surrogato inadeguato di una banca centrale. L’Esm deve essere finanziato dagli Stati e in aggiunta raccoglie fondi sul mercato emettendo obbligazioni; quindi ha una potenza di fuoco limitata. Se davvero un paese grande come l’Italia entrasse in crisi, è improbabile che l’Esm riuscirebbe a supportarlo. La Bce, invece, ha “munizioni” infinite, visto che può stampare moneta, e questa è una differenza molto rilevante nel rapporto con i mercati: la speculazione indietreggia solo davanti alla possibilità di interventi illimitati (quelli che secondo i tedeschi non si devono fare). Se devono combattere contro un organismo che per contrastarli deve chiedere soldi in prestito, non c’è partita: gli speculatori hanno già vinto.

Perché, allora, ci si inventa un meccanismo così complesso, non trasparente (chi ne fa parte è tenuto alla segretezza, anche nei confronti dei Parlamenti dei propri paesi), privo di accountability democratica? Perché un Fondo salva Stati può prestare alle banche, avendole come controparti dirette senza la mediazione dello Stato di appartenenza? Non è questo il compito per cui sono nate le banche centrali?

E allora non si può evitare il sospetto che i paesi del blocco tedesco vogliano farsi una “Bce-2”, che può far comodo per gestire le condizioni critiche delle banche tedesche e su cui possano esercitare un controllo ancora maggiore (come è noto il direttore dell’Esm è il tedesco Klaus Regling), sulla base di regole ritagliate con precisione in modo che, se dovessero ricorrervi, potrebbero farlo senza alcun problema, com’è previsto per chi è in regola con i parametri europei di finanza pubblica, mentre se ne avessero bisogno i paesi mediterranei, e in specie l’Italia, dovrebbero accettare un commissariamento e – a giudizio dei “tecnici” dell’Esm –  eventualmente anche la ristrutturazione del debito pubblico. Se quest’ultima decisione venisse imposta, non solo tutti i possessori di titoli pubblici italiani subirebbero perdite, ma soprattutto le nostre banche, che ne hanno per 400 miliardi, praticamente fallirebbero.

Ma il vero pericolo precede quella decisione. Quando entreranno in vigore quelle regole, la sola possibilità che quello accada spingerà gli investitori come minimo a richiedere un ulteriore premio di rischio, facendo aumentare il costo dell’indebitamento. Questo se va bene: se invece va male – come può benissimo accadere – gli investitori cominceranno a liberarsi dei nostri titoli pubblici, provocando appunto quello che l’Esm dovrebbe evitare, ossia una crisi finanziaria dell’Italia.

Che gli altri vogliano spingerci a questa roulette russa può suscitare qualche amara riflessione sulla “solidarietà” europea, ma si può capire: non è un problema loro. Quello che non si capisce è perché mai noi dovremmo accettarlo, visto che abbiamo la facoltà di porre il veto. Forse perché “non si può bloccare l’Europa”? Beh, i tedeschi bloccano da anni il completamento dell’unione bancaria, perché ritengono che potrebbe danneggiarli. Da notare che quest’ultima è una possibilità, e neanche tanto probabile, mentre il danno che ci farà questa struttura dell’Esm è praticamente una certezza. E noi non dovremmo fare come i tedeschi per qualcosa di ben più grave?

E qui veniamo alla disastrosa inadeguatezza della nostra classe dirigente. Che non è mai riuscita a incidere sui parametri che vengono presi  in considerazione dalle regole europee, che non sono i soli rilevanti ai fini degli equilibri macroeconomici. Così come per le banche, dove è messo sotto accusa il rischio derivante dal possesso di titoli di Stato, ma nulla si dice riguardo ai derivati e ai titoli illiquidi e privi di un prezzo di riferimento credibile di cui sono imbottite le banche tedesche, francesi e olandesi. Ma già, i nostri governi erano troppo impegnati a mendicare decimali di “flessibilità” per poter distribuire mance agli elettori; in cambio, facevano passare tutto il resto.

Ma l’inadeguatezza emerge prepotente anche ora, quando si tratta un problema cruciale come quello dell’Esm come una questione di politica interna. Siccome ora è la destra che sbraita contro la firma dell’accordo, chi lo considera  una sciagura viene tacciato di “sovranismo” e “populismo”: ma siamo impazziti? Salvini del resto deve solo tacere: c’era anche lui al governo mentre si arrivava a questo testo definitivo. E si sveglia ora?

I rischi di questa “riforma” sono stati denunciati non solo dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco e dal presidente dell’Abi Antonio Patuelli, ma anche da economisti assolutamente filo-europei, come Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli, Lorenzo Codogno (ex direttore al Tesoro e ora a Londra dove ha fondato la società di consulenza strategica LC Macro Advisors), Alessandro Penati, persino la coppia “austeritaria” Alesina-Giavazzi. Ciò nonostante qualcuno di loro sostiene che dobbiamo comunque aderire, con un salto logico incomprensibile (per esempio Galli); Penati suggerisce di trattare contropartite sugli altri fronti: ma nessuna contropartita può bilanciare il rischio che l’accordo comporta. Il rischio, insomma, è ben chiaro a chiunque abbia una certa comprensione dei problemi: eppure continuiamo a lasciarci trascinare verso il precipizio.

Resta un’ultima speranza: l’accordo dovrà essere ratificato dal Parlamento. A deputati e senatori il compito di evitare all’Italia un errore che può essere fatale.

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