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martedì 3 dicembre 2019

 

Il nuovo antisemitismo della vecchia Europa

di Fabio Della Pergola 

 

Da qualche tempo il fenomeno “antisemitismo” è tornato d’attualità.

 

Dai dati dell’Anti Defamation League si evidenzia un aumento accentuato dei casi di antisemitismo in tutta Europa, anche in palese assenza di ebrei, e di diffusione di sentimenti ostili e carichi d’odio, diversamente motivati, come dimostrano fra l'altro gli attacchi, impensabili fino a poco tempo fa, a Liliana Segre.

 

L’Italia infatti non è certo da meno se, da anni, una qualche forma di ostilità antiebraica è attestata attorno al 21/24% della popolazione.

Naturalmente molti organi di stampa si sono interessati al fenomeno cercando di interpretarlo: solo nell’ultima settimana l’Espresso con David Bidussa e Wlodek Goldkorn o il Corriere con Paolo Mieli; senza scordare le numerose polemiche recenti riguardanti il Labour di Jeremy Corbyn, incentrate sull’antisemitismo della sinistra inglese, peraltro ammesso dallo stesso Corbyn solo un anno fa: https://labour.org.uk/no-place-for-...

che spesso si nascondono, non solo in Gran Bretagna, dietro forme più o meno legittime di antisionismo.

Un altro articolo in merito a firma di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere - “La realtà profonda dell’antisemitismo” - (qui un link al suo pezzo) ha sollevato un discreto dibattito tra fautori e detrattori delle sue tesi.

L’articolo inizia sostenendo che, per capire l’antisemitismo («oggi più forte che mai»), bisogna partire «dalla straordinaria valenza simbolica acquisita dall'ebraismo agli occhi degli europei».

Di fatto, scrive, «l’Ebraismo costituisce “l’alfa e l’omega”», l’inizio e la fine del percorso europeo (e potremmo dire dell’intero Occidente) interamente racchiuso tra due punti simbolici di forza dirompente: la nascita del Cristianesimo e la Shoah. «Il principio, allorché l'emanazione religiosa neotestamentaria del giudaismo uscì dalla Palestina e si diffuse su questo continente, (e…) la fine da cui l'Europa non si risolleverà più, segnata dal suo suicidio storico tra le fiamme dell'Olocausto».

In sintesi la Shoah sarebbe stata, oltre che un progetto genocidario, anche un “suicidio” dell’etica cristiana che impregna di sé – come negarlo? – l’intera storia europea. Insomma un atto “fondamentalmente anticristiano” come viene rimproverato all'autore, un po’ ingenerosamente, dallo storico Luzzatto Voghera. 

Con questo l’Ebraismo ha assunto, secondo Galli della Loggia, «il carattere di luogo simbolico di un giudizio sull'Europa che evidentemente non può che essere d’irrimediabile condanna».

Anche l’esistenza stessa di Israele, di fatto la dimostrazione lampante di una vittoria postuma dell’Ebraismo sull’hitlerismo e sulle antiche passività e connivenze europee con l’antisemitismo (ma anche una presenza molto ingombrante e talvolta imbarazzante nella più ampia questione mediorientale) impone costantemente una difficile scelta per i paesi occidentali «tra l'obbligatorio ricordo del passato e le ragioni della realpolitik presente».

L’Ebraismo, dopo la Shoah, avrebbe «acquisito una sorta di oggettiva superiorità morale ma a spese delle nostre disgrazie [sic] e delle nostre vergogne».

E – dal momento che a nessuno piace che si ricordino le sue malefatte – ecco che proprio questo spiegherebbe il ritorno di fiamma di un astio contro gli ebrei e quello che l’Ebraismo rappresenta: «una forma di ottusa rivalsa, e insieme diciamo pure d'invidia: nei confronti di un'identità storica che appare circonfusa della luce fulgida del martirio e della vittoria agli occhi di chi, invece, ha un'identità di cui non sa bene che cosa farsi e a proposito della quale sa solo che di certo non ha motivo di menare alcun vanto».

Da qui in poi il registro dell’articolo cambia – l'autore sembra preso da improvvisa stizza – perché se questo sentimento di insofferenza ha lo spazio che ha, scrive, la responsabilità va attribuita anche alla “cultura democratica europea” colpevole di essersi «arresa ai canoni del multiculturalismo, dell'eticismo, del pacifismo di principio, dell'approccio “postcoloniale“».

In altre parole, la responsabilità dell'Europa democratica sarebbe stata quella di aver preso nota di quanto l’Occidente ha manifestato di orribile e di averne ricostruito un’intera storia attraverso una «versione dominata di fatto dalla negatività» mettendo «una sordina su tutta quella parte della storia che invece ha fatto dell'Europa odierna».

Insomma per Galli della Loggia si tratterebbe in sostanza di una deformazione prospettica che avrebbe cancellato quanto di buono, innegabile senz'altro, l’Europa ha prodotto nel tempo, contribuendo così, attraverso una accentuazione della negatività, a provocare una sorta di reazione identitaria che ha poi preso la forma dell’antisemitismo di ritorno. 

 

E qui mi pare che l’argomentazione sia assai debole.

Casomai alla cultura democratica europea va riconosciuto il merito di aver additato e cercato di modificare l’essenza xenofoba della tradizione europea impregnata di quella “extra Ecclesia nulla salus” che accettava la diversità solo se convertita e laicizzando in seguito quella stessa logica nella prospettiva assimilazionista (a sua volta smentita definitivamente proprio dalla Shoah).

Se reazione c'è non è perché la cultura democratica si sia "arresa al multiculturalismo" quanto perché una parte consistente del tradizionalismo occidentale si oppone ad ogni revisione storica del suo cuore nero suprematista.

 

 ***

 

Ci sono molti spunti interessanti in questo articolo a partire dall’idea che l’Ebraismo costituisca un “luogo simbolico” di portata eccezionale (per quanto ampiamente relegato nelle cantine dove si accumulano le cose che non si riescono a gettare, ma che non si vogliono più avere sotto agli occhi).

Il primo aspetto, quello che attiene all’alfa iniziale nel discorso di Galli della Loggia, rimanda a un complesso libro di David Nirenberg – Antigiudaismo. La tradizione occidentale (Viella, 2016) – la cui tesi portante è così riassunta dall’autore: «L'antigiudaismo non va inteso come un anfratto arcaico e irrazionale nel vasto edificio del pensiero occidentale, ma come uno dei principali strumenti con cui tale edificio è stato costruito».

In altri termini, se è corretto parlare degli aspetti innovativi introdotti nel mondo con la comparsa del cristianesimo, non si può non evidenziare quanto esso sia stato, fin dall’inizio, animato da un suo sostanziale essere “contro”. Precisamente contro il giudaismo fin da quando i cristiani pretesero di essere il Verus Israel, il vero popolo eletto salendo in cattedra e sostituendo il giudaismo (da qui la definizione di “teologia della sostituzione”) nel presunto progetto divino.

L’aspetto di opposizione che esso prese dopo la sua nascita con Paolo di Tarso – mettiamo fra parentesi la logica e le parole attribuite al Gesù dei Vangeli che meriterebbero una diversa e più approfondita interpretazione – trova un antecedente nell’opposizione contro il Tempio e il giudaismo che in esso si riconosceva di quelle tendenze giudaiche, oggi dette ‘apocalittiche’ (enochismo, essenismo, qumranesimo), la cui ideologia fu poi assorbita in larga misura dalla nuova religione nascente.

A questo aspetto ho dedicato le mie riflessioni racchiuse in un libro – Dall’impuro al peccaminoso (LIcosia, 2018) – in cui ho voluto mettere in evidenza quanto la diversità ebraica non sia “solo” religiosa (e tantomeno biologica, sia chiaro, nonostante talune immotivate insinuazioni polemiche di stampo, loro sì, razzista che mi sono state rivolte), ma sostanzialmente culturale nell’accezione più strettamente antropologica.

Diverso, rispetto alla tradizione cristiana, il modo in cui gli ebrei definiscono se stessi come esseri umani, diverso il modo in cui è concepito il rapporto tra uomini e donne, il rapporto tra adulti e bambini, diverso – salvo alcune tendenze minoritarie – il modo in cui si concepisce la sessualità, diverso anche, se si affrontano gli ambiti più mistici, il senso che si dà al principio originario, all’Uno primordiale.

Una diversità che nemmeno l'Illuminismo, con la sua emancipazione improntata a una visione razionalistica e in buona misura positivistica dell'essere umano, poteva far evaporare.

A questa antropologia – messa a punto poi dalla tradizione talmudica che ha dato origine all’ebraismo rabbinico – il cristianesimo ha risposto con una sua contro-antropologia che trova la sua fonte prima nell’idea, storicamente devastante, di una originale peccaminosità dell’essere umano e, più tardi, nell’idea altrettanto brutale di un “nulla” originario su cui si è costruito il monoteismo come oggi lo conosciamo (e, anche qui, si legge ripetutamente il solito stucchevole refrain sulle origini giudaiche del monoteismo come se l'idea prettamente cristiana della creatio ex-nihilo non avesse significato nulla nella storia delle idee).

Va quindi notata, nel cristianesimo e più ampiamente nella tradizione occidentale tutta, l’apparente contraddizione (ma solo apparente) tra i contenuti definiti “universali”, “accoglienti” e “misericordiosi” e la sua realtà più profonda: quella di non essere né accogliente (se non – e non sempre - di chi si identificava con essa) né, tantomeno, misericordiosa avendo dato poi origine a un percorso ampiamente contrassegnato da violenze e brutalità rare nella storia dell’umanità.

Qui vacilla il filo logico di Galli della Loggia quando sostiene che l’Europa con la Shoah, l’omega della questione, si sarebbe “suicidata”; logica non diversa da alcune voci del neo-illuminismo contemporaneo – terribilmente fuori bersaglio – che vedono nella Shoah l’improvviso impazzimento di una società per altri versi sana.

Vale la pena ricordare cosa scriveva invece Zygmunt Bauman nel 1989 in Modernità e olocausto (Il Mulino, 1992): «Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze, e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo».

La Shoah non è stata un suicidio dell’Occidente, ma la rivelazione di quello che la tradizione occidentale è stata fino a pochi decenni fa (e che in buona misura è tuttora se un docente dell'Università di Siena ritiene di poter twittare «Hitler, anche se non era certamente un santo, in quel momento difendeva l'intera civiltà europea»).

Una logica non diversa dall'astio contro l'Islam che il sovranismo contemporaneo ha manifestato senza alcun pudore (e ha ragione Goldkorn quando avverte: «quando si parla dell'antisemitismo è giusto indicarlo come la matrice del razzismo anti-islamico»).

Non è vero quindi, come sostiene Galli della Loggia, che da quel "suicidio" «l'Europa non si risolleverà più».

Perché se per un verso l'Europa non ha fatto granché i conti con il suo passato (specialmente in Italia dove le pietre d'inciampo sono considerate, da alcuni politici, palesemente incapaci di attivare i propri, pochi neuroni, un elemento "divisivo"), per altro verso però si può dire al contrario che potrà risollevarsi se, resistendo alla retorica dei "tradizionalismi" e leggendo quello che è stata la sua storia fin dalle sue radici prime, riuscirà a trasformarsi nel più profondo della sua essenza senza cullarsi in facili semplificazioni egualitarie capaci solo di sfiorare la superficie del problema.

Se, in altre parole (e nonostante le enormi resistenze al suo interno) troverà un'altra strada.

Che non potrà essere solo quella della ragione illuministica ma piuttosto, come diceva lo psichiatra Massimo Fagioli, quella che «si può trovare soltanto se si costruisce un modo di pensare diverso da quello del lògos occidentale».

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