Fonte: Pierluigi Fagan

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26/04/2019

 

La democrazia in Francia

di Pierluigi Fagan

 

Piccola riflessione sullo stato della “democrazia” nel Paese della rivoluzione dell’’89.

Alle ultime presidenziali del 2017, hanno votato tre quarti degli aventi diritto che è una buona percentuale. Al primo turno, il candidato che poi ha vinto al secondo turno -Macron- ha preso il 24% dei voti votati che corrisponderebbero al 18% sul totale degli aventi diritto. Arrotondiamo questo 18% a 20% per amore delle cifre tonde ed anche perché è plausibile che anche tra i “non votanti”, se costretti a voltare, qualcuno avrebbe comunque votato per Macron. La contabilità democratica dell’opinione dice che Macron conta su un quinto dell’elettorato.

I risultati al secondo turno non cambiano il dato perché sono solo relativi ad un particolare meccanismo elettorale scelto dai francesi, in termini di sociologia del consenso non dicono nulla. Per capire il punto, se l’Italia avesse avuto il sistema francese, oggi Luigi di Maio sarebbe Presidente con ampi e pieni poteri e stante che al primo turno il suo partito aveva preso non il 24% come Macron, ma il 33% dei voti. Per altro, Macron non si è sentito in dovere di allargare la propria coalizione parlamentare, ha sfruttato il meccanismo e si è fatto un monocolore allineato e coperto.

A due anni dalle elezioni, Macron non ha incrementato il suo consenso, pare l’abbia diminuito. Fresco di stampa, il sondaggio EUROTRACK OpinionWay e Tilder per "Les Echos" per le europee di Maggio, vede Macron al 21% e il National Rally (NR) Marine Le Pen al 24%. Parrebbe che Macron sia sotto l’un quinto di rappresentanza dell’opinione politica nel Paese. Uno-due-tre percento in più o meno -comunque- non cambiano l’essenza dei discorso che andiamo a fare.

Ieri Macron ha finalmente tenuto il suo discorso alla nazione su i risultati dell’operazione “grande ascolto” promessa dopo le intemperanza dei gilet gialli. Ha ammesso molti errori ed in sostanza ha detto che: 1) ci saranno degli aggiustamento fiscali; 2) non reintroduce la patrimoniale per i redditi più alti; 3) non accetta le proposte di libero referendum popolare dal basso avanzate dai “gg” perché “attacco alla democrazia rappresentativa”; 4) comunque i francesi debbono “lavorare di più” perché la produttività è bassa e rende il Paese poco competitivo. L’essenza del messaggio è stata che Macron non dismette proprio per niente la sua intenzione “rivoluzionaria” di cambiare la Francia nei fondamenti. Nuovo atteggiamento sì, qualche concessione forse (ma chi la pagherà visto che il bilancio di un Paese nel sistema dell’euro è gioco a somma zero?), cambio di rotta “scordatevelo ed anzi rilancio”.

Ora, a noi non interessa giudicare qui se la politica di Macron è buona o cattiva, interessa solo fare un discorso sulla traiettoria democratica di quel glorioso Paese. Può un Presidente di un Paese che non ha leve monetarie che aiutano ad oliare gli attriti sociali provocati da una profonda ristrutturazione interna quale ritenuta necessaria nelle sue intenzioni, portare avanti un progetto così ambizioso e divisivo, con meno di un quinto di popolazione a favore? Tra Macron e l’avanguardia leninista o il governo degli ottimati o il suffragio ristretto che vigeva prima del suffragio universale, nella forma, che differenza intercorre? Può la democrazia rappresentativa reagire così astiosamente nei confronti di richieste di democrazia diretta e con ciò continuare a chiamarsi “democrazia”?

Se in Francia, non vige quindi una forma politica che pienamente possa dirsi democratica, che altro nome-concetto gli va attribuito? Tra l’Europa populista e l’Europa elitista, ci siamo persi la democrazia sostanziale? Va tutto bene o storicamente, le origini dei "totalitarismi" affondano le radici nei fallimenti della democrazia sostanziale?

 

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Le Rassemblement national vire en tête

 

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