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14 Aprile 2019

 

Brexit rinviata: ma per la UE sarà un Vietnam

 

La vecchia massima di Mao è sempreverde: “i reazionari sono degli sciocchi che sollevano una pietra per lasciarsela cascare sui piedi”. 

La cosa salta agli occhi seguendo la vicenda molto contorta della Brexit, di cui sarebbe impossibile capire qualcosa se ci si dovesse affidare solo all’informazione dei media principali (Repubblica, Corriere, televisioni). Tutti monotonamente ripetitivi dell’unico mantra mandato a memoria: “con la Brexit la Gran Bretagna andrà a rischio di collasso e crollo della ricchezza prodotta”.

I lettori di Contropiano hanno per fortuna potuto leggere anche altro, come le corrispondenze di Andrea Genovese, e qualche editoriale dirazzante in riviste economiche specializzate (di quelle che non possono raccontare fesserie ideologiche perché agli operatori economici servono informazioni vere, per poter fare le loro scelte.

Rientra alla grande nella categoria questo editoriale di TeleBorsa, del sempre acuto Guido Salerno Aletta, che smonta ancora una volta la narrazione mediatica. 

La Brexit è ora un problema soprattutto per l’Unione Europea, sia economico che politico. Sul piano economico, infatti, ci sono i circa 100 miliardi annui di surplus commerciale tedesco che rischiano di sparire per effetto di una reinternalizzazione di produzioni nel Regno Unito. Sul piano politico, invece, i continui rinvii imposti dal Parlamento britannico hanno incrociato la tempistica delle elezioni europee, rendendo probabile la partecipazione di Londra sia al nuovo Parlamento di Strasburgo che alla nuova Commissione Europea. 

E questo proprio grazie alla “fermezza” ricattatoria con cui Bruxelles aveva impostato la trattativa per il divorzio con la “perfida Albione”…

Il tutto in un clima da guerra di tutti contro tutti- gli usa di Trump ne stanno approfittando per aprire un nuovo fronte della “guerra dei dazi” proprio contro la UE –  che porta consenso proprio a quelli che si diceva di voler combattere: gli euroscettici, sia di destra (i populisti vari, da Salvini a Orbàn), sia e soprattutto quelli di sinistra (come France Insoumise e buona parte di Podemos o della Linke, oltre a formazioni minori di paesi meno centrali).

Buona lettura!

 

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Brexit rinviata: ma per la UE sarà un Vietnam
di Guido Salerno Aletta

Editorialista dell’Agenzia Teleborsa

 

L’imbarazzante cappotto che il Consiglio europeo ha fatto indossare alla Premier britannica Theresa May nonostante la primavera avanzata, nasconde pericoli enormi sul piano della stabilità politica ed istituzionale della Unione europea e delle sue relazioni con gli Usa.

Mentre il tanto sbandierato asse franco-tedesco è già andato in frantumi, la durezza della posizione negoziale della Commissione verso la Gran Bretagna è tracimata in peggio: anziché provocare solo l’auspicato spappolamento del sistema politico inglese, porta alla radicalizzazione del confronto elettorale tra euro-scettici ed unionisti nella competizione per il rinnovo del Parlamento europeo ed alla presa in ostaggio da parte del Regno Unito delle istituzioni europee. 

Con le elezioni previste tra il 23 ed il 26 di maggio e la prossima Commissione che si insedierà il prossimo 1° novembre, se la Gran Bretagna non esce, sarà un disastro.

L’ultima mazzata è arrivata dagli Usa, a tempo scaduto, con un rigore calciato a porta vuota da un giocatore imprevisto, il Presidente americano Donald Trump: la guerra commerciale contro l’Unione, che ha dimostrato tanta durezza nelle trattative sulla Brexit, sarà altrettanto cruenta.

La strategia volta a rendere quanto più dure possibili le condizioni di recesso della Gran Bretagna dall’Unione ha indotto Westminster a rifiutarle per ben tre volte, con la conseguenza di una sempre più probabile partecipazione della Gran Bretagna, per l’intanto, alle prossime elezioni europee: rischia di portare a Strasburgo una ancora più ampia pattuglia di euroscettici, rendendo vieppiù ingovernabile il prossimo parlamento europeo. 

Invece di ridurre l’area della protesta, la amplifica polarizzando il confronto. 

Non solo: se la Gran Bretagna non dovesse uscire dall’Unione neppure entro il prossimo 31 ottobre, la nuova data a cui la Brexit è stata ora differita, questa avrebbe il diritto di partecipare anche alla composizione della nuova Commissione, con conseguenze politiche inimmaginabili. 

Il Presidente americano Donald Trump, da par suo, è entrato in partita a tempo scaduto: non solo ha stigmatizzato la ruvidità con cui la Unione europea ha strattonato la Gran Bretagna nella trattativa sulla Brexit, ma ha già iniziato a tambureggiare; i dazi appena imposti sugli 11 miliardi di dollari di merci europee non sono che l’assaggio di una offensiva che si farà sempre più pesante.
Per l’attivo strutturale del commercio tedesco nei confronti di Gran Bretagna ed Usa, appaiato attorno ai 50 miliardi di euro annui ciascuno, si preannunciano tempi duri. La Brexit, industrialmente parlando, per il sistema produttivo inglese è un affarone: la sola svalutazione della sterlina sull’euro basta ed avanza per compensare la competitività delle produzioni europee.
Occorre riassumere, a questo punto, quanto è accaduto finora, rammentando soprattutto gli infortuni politici che hanno influito sugli eventi: serve per capire come le scadenze interne dell’Unione si sono andate intrecciando in modo inestricabile con quelle della Brexit.

Il 10 aprile scorso, Theresa May si è presentata a Bruxelles per chiedere alla Unione europea un ulteriore “breve rinvio”, stavolta al 30 giugno, del termine per la Brexit. Ciò al fine di poter sottoporre al voto di Westminster, per la quarta volta, l’Accordo di recesso concordato con Bruxelles a dicembre dell’anno scorso, ovvero per ottenere un voto comunque politicamente significativo sulle prospettive: ad esempio, la decisione di aderire alla Unione doganale, ovvero la indizione di un secondo referendum sulla Brexit in esito al quale poter revocare la richiesta di lasciare l’Unione.
Il termine per la Brexit era già stato differito, stabilendo come data ultimativa il prossimo 17 aprile rispetto a quella del 29 marzo, termine previsto originariamente sulla base dell’art. 50 del Trattato. Ciò era stato concordato per dar modo alla Premier britannica di sottoporre a Westminster, ancora per una terza volta, l’Accordo di recesso. 

Dopo questa ennesima bocciatura, incombeva la prospettiva della hard-Brexit, l’uscita senza alcun accordo con l’Unione che Westminster ha parimenti, volpinamente, rifiutato. Va ricordato in proposito che, sulla base delle intese che avevano portato al rinvio della Brexit, ove il parlamento britannico avesse approvato l’Accordo di recesso entro il 17 aprile, l’Unione europea concedeva comunque ancora un po’ tempo per la Brexit: fino al 30 giugno, per consentire alla Gran Bretagna di completare l’approvazione della legislazione occorrente per riprendere piena autonomia. 

In questo caso, avendo approvato l’Accordo di recesso entro il 17 aprile, la Gran Bretagna non aveva più alcun titolo a partecipare alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.

Stavolta, sulla nuova richiesta britannica di differimento della Brexit al 30 giugno, l’asse franco-tedesco si è spezzato. Sono emerse due strategie inconciliabili: la Cancelliera Angela Merkel era disponibile ad offrire un rinvio quanto più lungo possibile, di un anno fino al 30 marzo 2020, ovvero fino al termine del 2019, e ciò al fine di mantenere stabili ad ogni costo le relazioni commerciali con la Gran Bretagna, che le garantiscono da sole un attivo di oltre 49 miliardi di euro l’anno. 

La prospettiva di aderire all’Unione doganale è del tutto indigeribile per l’Inghilterra: il fatto che da parte irlandese, ma solo dopo il viaggio compiuto a Dublino dalla Cancelliera tedesca, sia stata finalmente ammessa la possibilità che la Gran Bretagna, ove mai dovesse acconciarsi a partecipare alla Unione doganale, avrà diritto di “parola” sulle politiche commerciali europee, testimonia la necessità per i tedeschi di dissociarsi dalla durezza dimostrata fin qui dal negoziatore europeo per la Brexit, il francese Michel Barnier. 

Il troppo stroppia. Anche il Presidente Emmanuel Macron ha finalmente intuito che la strada fin qui intrapresa è funesta: ben conosce le traversie che portarono alla decolonizzazione dell’Indocina e dell’Algeria, quando la Francia ebbe a che fare con una guerra rivoluzionaria, quella in cui una minoranza di combattenti motivati fino alla ossessione divenne invincibile per la capacità di mettere sotto scacco gli schemi formali. 

Gli Usa potrebbero soffiare sul fuoco, come fece la Cina. Macron ha dunque intravisto i pericoli di un aut aut che ha messo la Gran Bretagna con le spalle al muro, rendendole preferibile rinviare la Brexit con decisioni anodine piuttosto che accettare l’Accordo fin qui definito con Bruxelles: se la Gran Bretagna non esce tempestivamente dall’Unione, deve partecipare alle elezioni europee di fine maggio per il rinnovo del Parlamento europeo, con le conseguenze ben immaginabili sulla sua governabilità. 

Non solo: se non esce neppure entro il 31 ottobre, avrà diritto a partecipare alla composizione della prossima Commissione. Addio, dunque, ai sogni di gloria per la Francia, quelli di bilanciare l’asse con la Germania e di gestire in condominio l’intera Unione.

La prospettiva di tenersi la Gran Bretagna dentro l’Unione è diventata un incubo. 

Da qui in avanti, per la Gran Bretagna non cambia nulla: per l’Unione Europea, gestire la Brexit, sarà un Vietnam. 

 

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