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Londra sabato 14 dicembre 2019 

 

Re Boris pensa al dopo Brexit: «Fuori il 31 gennaio, basta austerità»

di Angela Napoletano

Dopo aver ottenuto una maggioranza schiacciante, il premier conservatore assicura «l’inizio della guarigione» per la Gran Bretagna. Laburisti ai minimi, tracollo lib-dem. Avanzano gli scozzesi Snp

Non è solo una vittoria. Maggioranza schiacciante, seggi passati ai Tory dopo decenni di rappresentanza laburista, storici nemici neppure eletti: il risultato di una delle più controverse tornate elettorali del Regno Unito è per il premier Boris Johnson quasi un’incoronazione.

L’ha inseguita per anni, è noto, sin da quando era bambino e sognava di «diventare re». Inconsueta è persino la regalità del tono, quello che solo una legittimità da quasi 14 milioni di voti può dare, con cui pronuncia il discorso di ringraziamento agli elettori da Downing Street. 

Parla dal leggio posto sotto un albero di Natale all’ingresso del numero 10 mentre Dominic Cummings, archistar della sua milionaria campagna elettorale, lo guarda sornione nascosto tra i membri dello staff. «Onorerò il mandato ricevuto per compiere la Brexit entro il 31 gennaio», rassicura. «Il Paese è riunito – aggiunge – l’austerità è finita, abbiamo davanti anni di prosperità. Che inizi la guarigione». 

Quella conquistata da Johnson è la maggioranza più ampia che i conservatori abbiano registrato dai tempi della lady di ferro, Margaret Thatcher: 365 dei 650 seggi complessivi alla Camera dei Comuni, 47 in più rispetto a quelli che riuscì a ottenere nel 2017 Theresa May. 

Lo scarto sull’opposizione raggiunto grazie al 43,6% delle preferenze è incolmabile: 80 seggi. Tanto è vistosa la vittoria dei Tory quanto drammatico è lo sfaldamento del Labour di Jeremy Corbyn, fermo al 32,10% con 202 deputati. Il peggior risultato dagli anni Trenta. Male anche i Liberal Democratici che non sono riusciti ad ottenere più di 11 scranni. Jo Swinson, l’ambiziosa leader europeista che li ha guidati in una campagna elettorale interamente orientata a revocare la Brexit, non è stata neppure eletta. 

Registrata la sconfitta, avvenuta nella circoscrizione scozzese di Dunbartonshire, Swinson si è dimessa dalla guida del partito lasciando le redini a Ed Davey e Sal Brinton. A farla fuori, per appena 149 voti di differenza, è stata Amy Callaghan, candidata dello Snp, il partito che con questa consultazione ha portato a Westminster ben 48 deputati (13 in più rispetto al 2017). 

Arrancano i partiti minori: 8 seggi agli unionisti nordirlandesi del Dup, 7 allo Sinn Féin e 4 ai gallesi del Plaid Cymru. I Verdi, che avranno un solo rappresentate, hanno annunciato di aver raccolto più di 850mila preferenze, oltre 200 mila in più rispetto al Brexit Party che rimarrà fuori dal Parlamento. 

I risultati definitivi hanno confermato gli exit poll diffusi giovedì sera dalla Bbc ad urne appena chiuse. Il tracollo del partito laburista è stato subito evidente. Alle 23,30, ad appena un’ora e mezza dall’inizio dello spoglio, la commissione elettorale ha notificato la presa da parte dei conservatori della storica circoscrizione laburista di Blyth Valley, nel nord est dell’Inghilterra, rossa dal 1950. È cominciata così, tra incredulità e sgomento, la conta delle roccheforti laburiste inaspettatamente passate a destra: Bolsover, Workington, Sedgefield, Bromwich, Burnley, per citarne alcune. Lentamente, durante la notte, il cosiddetto «muro rosso» che per decenni ha protetto il serbatoio di voti della sinistra britannica è caduto in frantumi. 

È qui, nel distretto operaio delle Midlands e dell’Inghilterra del Nord, che Johnson ha vinto la sua battaglia più importante.Forse quella decisiva. La proposta offerta alle famiglie di ex minatori e tute blu dal conservatore che ha studiato a Eton e Oxford è quella ripetuta come un mantra sin dagli inizi della sua ascesa alla leadership del partito, lo scorso luglio: «Get Brexit done». Ritornello familiare per la “working class” di questo distretto che al referendum del 2016 si schierò compatto a favore del Leave. 

È per questo che Johnson ha concentrato qui gli ultimi sforzi della sua campagna elettorale, vestendo i panni del macellaio, del pescivendolo, del lattaio pur di riuscire a espugnare il fortino laburista. E ci è riuscito. Confinato nell’angolo dell’umiliazione, Corbyn, ieri, ha evocato le sue dimissioni a inizio 2020. BoJo, dal canto suo, si è detto «onorato» da chi ha scelto di «prestare» il proprio voto al partito conservatore, anche se fosse per una volta sola. 

Contro il tormentone del «Get Brexit done» la strategia del cosiddetto «voto tattico», tentata dai partiti di opposizione per mettere in difficoltà i Tory, si è rivelata un fallimento. Il “capolavoro” riuscito a Johnson è quasi perfetto. Dalla sua parte, oggi, il primo ministro ha da un lato i brexiteer della “working class” e dall’altro la City che ne apprezza la «bionda fedeltà al mercato». 

Nel Parlamento che si insedierà martedì, tra cui 221 donne, non ci saranno neppure alcuni dei suoi storici nemici come Dominic Grieve, uno dei 21 ribelli epurati dai Tory che non è riuscito a essere rieletto. Ma, piuttosto, uno stuolo di giovani nuovi deputati portati a Westminster dallo stesso Johnson e per questo fedeli fino in fondo. 

Ottenuto da Buckingham Palace l’incarico a formare il governo, Johnson sta lavorando a un piccolo rimpasto dell’esecutivo che potrebbe essere formalizzato lunedì. Prima di Natale, «re Johnson» potrebbe dare al Regno Unito la sua Brexit.

 

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