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04/09/2019

 

Il governo di Grillo

di Lucia Annunziata

L'Huffington Post Editorial Director

 

Il fondatore torna dove era stato cacciato nel 2009: alla porta del Pd. Il suo progetto di oggi è lo stesso di allora: disarticolare il partito e divorarlo. Per tenere in vita M5s

 

È nato il governo Grillo.

Strampalato, oltraggioso, irriverente, spesso incomprensibile, eppure il guru di sempre del movimento risulta alla fine essere il più forte politico, nel senso di tattico e nel senso di audace, del M5s. Quando, nel suo primo blog del 10 agosto, intitolato “la coerenza dello scarafaggio”, scrisse “Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari” aprendo alla possibilità di fare un governo con il Pd, la sua sembrò una monumentale svolta ad “U”, un atto di trasformismo, un adeguamento alla peggior pratica che la politica italiana conosce da sempre, insomma, uno scilipotismo.

Ma figuriamoci. A pensarci ora, non era per nulla trasformismo. Ma solo il fortunato ripresentarsi di una coincidenza che permetteva a Grillo di riavvolgere l’orologio e tornare al suo piano originario, quello che nel 2009 lo aveva portato a voler chiedere di avere la tessera del Pd per partecipare alle primarie del partito. Allora venne rimbrottato da un inconsapevole Fassino che gli disse “fatti un tuo partito, e vediamo quanto prendi”. Grillo l’ha fatto ed è oggi tornato davanti a quella porta che gli era stata sbattuta in faccia allora, con lo stesso progetto di allora: infiltrare, lavorare da dentro, inserirsi nella crisi del più grande partito della sinistra, per far nascere da quella operazione un nuovo movimento.

Grillo, insomma, non è un novizio nei rapporti con il Pd; guardava il Pd fin da allora. Certo lo guardava, come poi abbiamo imparato, come a un organismo in decadenza, un corpaccione marcio, pieno di corrotti, puttane, indagati, condannati, come poi, gentilmente nel corso degli anni, ci ha vomitato addosso in tutti i modi e tutte le versioni possibili.

Ma quel corpo era il maggiore asset politico del paese, e la sua base era la più sensibile ai suoi temi. E nonostante fosse stato messo alla porta, negli anni successivi la guerra al Pd è rimasta l’asse portante della battaglia politica su cui si è costruito il movimento di cui Grillo è stato fondatore.

Finito l’esperimento con la Lega, condannata nel suo blog con un terribile aggettivo - “Tamarri!!”-  in un involontario riflesso radical chic, Beppe ha capito che l’occasione tornava. Senza volere, e anche qui forse vittima di un riflesso intellettuale, nel secondo blog di queste ultime settimane, scritto appena due giorni prima dell’accordo per il governo Conte bis, ha spiegato bene la ragione del suo progetto proprio con un appello al vecchio partito che tanto ha tormentato: “Mi rivolgo al Pd. Alla base dei ragazzi del Pd, è il vostro momento questo, abbiamo un’occasione unica, Dio mio, unica”.

Occasione unica infatti. Riuscire a fare quello che non ha fatto allora. Disarticolare questo partito dal di dentro, addirittura mentre si fa una operazione di governo insieme. Progetto molto più serio e più di lungo sguardo. Peccato che implichi un cruento passaggio: divorare il Pd.

E in questo caso non si tratta di una espressione figurata.

Il metodo con cui è cresciuto nella politica italiana il M5s – la peculiarità della sua impetuosa crescita - è, come ci raccontano anche gli studi di questi anni, la sua capacità di adattarsi all’ambiente, capacità di parlare a ogni scontento, di assorbire ed elaborare temi senza incatenarli nel duro metallo delle ideologie, di creare insomma un  universo politico flessibile, tattico, adattabile a ogni condizione di possibile ricerca di consenso. Che è quello di cui si parla quando il movimento ripete il suo mantra di non essere “né di destra, né di sinistra”.  Parliamo qui di identità organizzativa e in questo senso il Movimento 5 stelle ha mostrato di essere un organismo forte nel saper crescere dentro/fuori il sistema, dentro fuori le varie ideologie, plasmabile da ogni priorità gli si presentasse. Organismo eminentemente vicario ma anche eminentemente opportunista.

Del resto, cosa è stata la alleanza con la Lega se non una applicazione di questo schema di vicarietà ed opportunismo?

Molti ricordano in queste ore dentro la sinistra che il rapporto fra Pd e Cinque Stelle era una alleanza naturale, che avrebbe dovuto avvenire un anno fa, quando si votò. Giusto. Molti a sinistra, incluso chi scrive, volevano allora questa alleanza, riconoscendo ai 5 Stelle la loro novità, l’importanza dei temi che portavano in politica, e il fatto di parlare anche ai tanti scontenti della sinistra. Riconoscendogli insomma un ruolo di rimotivatori della buona politica.

Ma vogliamo chiederci ora perché poi quell’alleanza non è stata fatta? Perché sia poi stata preferita addirittura un’area politica la cui torsione a destra non era certo un mistero fin da allora. È stato quello solo un abbaglio? Un incidente di percorso? O c’era lì un ’assonanza molto convinta, certo più convinta di quella che allora poteva offrire il Pd?

Domande non da poco, direi, per chi vuole forgiare insieme oggi un governo addirittura della svolta. Eppure, la sinistra è entrata in una nuova alleanza con i nemici di ieri, senza nemmeno chiedersi cosa sia successo. Oooops! Salvini è finito! Il contributo dato per un anno da Conte, Di Maio e tutti i suoi alla crescita di una Lega sovranista è qualcosa di cui non si parla più. Al punto che una parte di questa stessa sinistra ha aperto un ponte a favore di Conte, contro tutti coloro che esitavano, e si facevano qualche domanda sul suo “collaborazionismo”, accusando ogni esitazione come stupidaggine, o peggio vigliaccheria, al grido di “ogni cosa è meglio di Salvini”. Evitando tuttavia, accuratamente, di sollevare in casa Pd ogni dubbio, nonostante fosse passata come niente fosse la definizione del nuovo governo come alleanza antifascista e antinazista.

Alcuni poverini che hanno provato a dire che forse valeva la pena almeno di trovare un altro percorso invece di correre a fare un governo subito insieme, magari andando a misurarsi con un dibattito pubblico, magari ricorrendo a elezioni, come pure si discute in Inghilterra che ha in gioco una posta non meno rilevante della nostra. Elezioni come modo per capire il giudizio degli elettori – quelli dei Cinque stelle che magari avrebbero potuto chiedere qualche spiegazione per la vecchia alleanza con la Lega; e quelli del Pd che avrebbe suggerito una soluzione diversa alla sconfitta del Pd l’anno scorso, dopo 5 anni al governo. Chiunque abbia chiesto le elezioni è stato tacciato di non esser un serio antifascista perché facendo così “si sarebbe consegnato l’Italia a Salvini e alla nuova destra europea”!

E ora? Con questo governo esattamente in che mani ci siamo messi?

Al di là delle chiacchiere e della retorica sul futuro dell’Italia che sempre accompagna la formazione di ogni governo, incluso quello dell’anno scorso, che doveva durare decenni ed è durato solo un anno, al di là di tutto questo, c’è poi davvero un futuro per questa coalizione?

La lista consegnata dal Premier Conte ha, in questo senso, un’impronta chiarissima di dominio dei 5stelle sul Pd, di egemonia di uno dei due partner sull’altro.

Il Premier Conte, di cui penso quel che ho detto sopra, e sono annotazioni politiche non sulla sua persona, è oggi salito al Quirinale con la camminata e la parlata di chi si è palesato per salvare il paese. Un uomo di garanzia, un uomo di legge, un europeo fatto e finito.

È un uomo di garanzia questo Conte che ha costruito intorno a sé, in questo secondo giro, un potere più forte di quel che prima aveva, eliminando quei fastidiosi compagni di strada della sua prima legislatura, che erano i vicepremier politici? O vogliamo credere che siano stati i capricci del Pd, l’insistenza del Pd ad avere un proprio vicepremier, a eliminare Di Maio? Di Maio è stato eliminato dal suo ruolo quando i 5 stelle hanno cominciato a trasferire ogni potere a Conte. Ben prima della crisi con la Lega. La insistenza con cui Di Maio ha difeso il suo vicepremierato è stato solo un utile strumento per aiutare a limitare il ruolo del Pd con un secondo vicepremier, e a ottenere in cambio per sé un ministero di prima fascia.

È un uomo di garanzia questo Conte che si è costruito su misura un Palazzo Chigi senza nemmeno una presenza in organigramma del Pd? Credo che sia chiaro oggi, guardando il nuovo organigramma del governo che Chigi è un monocolore Conte. Il Pd lì, nel sancta sanctorum delle carte, delle tattiche e delle mediazioni, non toccherà palla. La Lega, ricordiamo, aveva in quel Palazzo non solo un vicepremier Salvini, ma anche il sottosegretario alla Presidenza, nella poderosa persona di Giorgetti.

Ed è un uomo di garanzia questo Conte che ha lasciato intatto al governo il nucleo duro M5s del vecchio governo con la Lega? Nell’organigramma di cui prima, il gruppo di governo imperniato intorno a Luigi di Maio, è tutto lì. Di Maio va agli Esteri. Bonafede alla Giustizia. Patuanelli allo Sviluppo, Nunzia Catalfo, architetta del reddito di cittadinanza, va al Lavoro. Il fedele Spadafora è allo Sport, posto che, per dire, prima di lui hanno avuto signori del potere politico come Lotti nel governo Renzi, e Giorgetti per la Lega. Il M5s ha anche il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nella persona di Fraccaro, altro fedelissimo del primo governo Di Maio, ed è non a caso il militante delle riforme, che nel linguaggio del 5 stelle significa portare la democrazia rappresentativa alla piattaforma della democrazia diretta.

A proposito di piattaforme, val la pena qui ricordare anche che la vittoria del governo Conte bis è stata dichiarata e confermata dal voto su Rousseau. Un voto dagli effetti collaterali di certa ironia per noi che volevamo andare a votare. Dopo aver detto infatti no al voto, i 5stelle hanno poi celebrato il voto della piattaforma come un loro rafforzamento in quanto la loro base “ha votato”.

Rimane da capire perché il Pd si sia accontentato di questo schema di lavoro. Certo ha avuto tutti i rappresentanti in Europa, ha avuto il ministero dell’Economia, e pensa di esser e tornato in gioco. Ma la disparità di forze e di intenzioni, pone sulle spalle del Pd e non dei 5 stelle, tutta la responsabilità del futuro. Non è difficile anticipare che, come hanno fatto con la Lega, i 5Stelle prenderanno i meriti di quel che va bene e azzanneranno il Pd per ogni fallimento.

Cos’è che non fa vedere al Pd questo squilibrio? Non lo so e non mi avventuro in analisi psico-politiche. Qualunque cosa sia, impareremo a saperlo molto presto.

 

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