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sabato 23 novembre 2019

 

Le Sardine e il paradosso della tolleranza

di Fabio Della Pergola 

 

Sulla pagina facebook di Mattia Santori - uno dei quattro ragazzi di Bologna che hanno dato vita al movimento antileghista delle Sardine - così come su quella originale delle Sardine bolognesi (6000sardine) è andato in onda per chi non lo conoscesse il paradosso della democrazia.

 

Quello famoso: se sei democratico devi lasciare che tutti parlino, anche quelli che democratici non sono. Che però sfrutteranno i margini democratici per abbattere la democrazia. E così i democratici diventano loro stessi complici della distruzione della democrazia.

In sintesi su quelle pagine si è scatenata un'aggressione di bulli leghisti e parafascisti che ha letteralmente tolto quasi ogni spazio al naturale dispiegarsi di commenti e di dibattito, richiamando solo su di sé e sulla confutazione ai loro commenti l'attenzione di tutti.

Il sistema è quello delle curve degli stadi. Forse è un reato gridare "buuuu" a qualcuno? Ovviamente no, ma se cento razzisti lo gridano a un giocatore di colore con l'intento di impedirgli di giocare, distraendolo o facendolo innervosire, si chiama bullismo. E se il bullismo non trova ostacoli il bullizzato viene fatto fuori (metaforicamente e, a volte, purtroppo non solo metaforicamente).

Se qualche timidissima reazione (molto poco in realtà) si comincia a vedere negli stadi e nella società è evidente che le pagine dei social sono totalmente in balìa di questi bulli da tastiera.

O sono "chiuse" e allora la loro funzione pubblica si perde rimanendo limitata alla comfort zone di pochi eletti, liberi di discutere ma solo fra di loro, oppure diventano a loro volta, del tutto involontariamente, una vetrina dei loro stessi avversari.

E a poco serve "ignorarli": se il loro numero diventa preponderante è chiaro che si appropriano di quello spazio, nato proprio per contrastarli politicamente o culturalmente.

L'intenzionalità palese è quella di oscurare, sommergendolo, ogni oppositore del leader leghista con una tecnica che tenta di triturare ogni voce contraria. Come quella, per lui pericolosa, delle nuove "sardine".

Né va meglio nei gruppi dove, a differenza delle semplici 'pagine', ci sono amministratori e moderatori. Essere sommersi da commenti da moderare significa dover rallentare fino al blocco totale la pubblicazione di post "legittimi" che restano in attesa di moderazione per giorni. Fino a che è troppo tardi perché qualcuno li possa vedere e dibattere o finché i membri del gruppo, infastiditi non cominciano ad andarsene decretando così il collasso dell'iniziativa.

In tutti i casi l'esercizio di una proposta politica in rete contro lo strapotere comunicativo di Salvini & Co. è fortemente rallentata quando non addirittura impedita dall'ondata di bullismo degli haters.

Restano le piazze, si sa, dopo le affollate iniziative di Bologna e Modena e presto di altre, ma la battaglia della comunicazione in rete – lo si è già visto durante la campagna presidenziale americana del 2016 con il ruolo forse decisivo giocato dalla Breitbart News, la piattaforma informativa di Steve Bannon – è fondamentale.

La forza delle "sardine" sta proprio nell'aver coniugato il movimento di piazza con una forte presenza in rete. Non ancora messa a punto, evidentemente, ma sufficientemente frequentata da poter opporre in prospettiva una valida manovra di contrasto alla preponderanza leghista. Non è un caso se un sondaggio Index Research dice che per la maggior parte degli italiani "il nemico più pericoloso per Matteo Salvini" sono proprio le neonate sardine.

Altre soluzioni a breve non si vedono: non si può pretendere che siano i social stessi a valutare se tizio, caio o sempronio hanno davvero bullizzato qualcuno oppure se abbiano legittimamente (e democraticamente) dibattuto con un interlocutore di diverso colore politico.

Né si possono immaginare leggi che impediscano a qualcuno di fare affermazioni lecite anche se "al limite". Se non sono immediatamente offensive, discriminatorie o, peggio, diffamatorie non è pensabile censurarle; dopotutto mica può essere vietato gridare "buuuu" o dire "tizio mi fa schifo", no?

È il paradosso della democrazia e non c'è molto che si possa fare se qualcuno decide di non rispettare più le regole del gioco: sentirsi libero di parlare e lasciare che gli altri parlino nel rispetto dei rispettivi spazi. Quel qualcuno è arrivato ed è molto pericoloso perché ha preteso di avere il diritto di far saltare il banco.

Da tempo se ne è accorta anche Agoravox, costretta a chiudere talvolta i commenti per l'attività bullizzante degli haters di professione: sempre anonimi, con indirizzi IP diversi o con nomi di fantasia diversi ma con lo stesso IP, che pubblicano a ripetizione commenti sempre astiosi, spesso offensivi, mai dialoganti. La stessa tecnica dei razzisti da stadio: far innervosire, distrarre, sconfortare. In una parola bloccare l'attività altrui. E se poi sono loro a essere bloccati ricorrono, irridenti, al paradosso: che bei democratici che siete se mi impedite di parlare!

Argomentazioni risibili come capirebbe chiunque. Impedire a un razzista di fare "buuu" a un giocatore di colore non è lesione della democrazia, è attività meritoria di salvaguardia del vivere civile. E lo stesso vale per le incursioni in rete.

Attività meritoria quindi anche quella della redazione di Agoravox, se e quando blocca l'accesso ai leoni da tastiera, ma che ovviamente costa una limitazione al libero dispiegarsi del dibattito (quello vero) e di un serio confronto politico e culturale. La libertà dai brutti ceffi dell'oltranzismo leghista si paga cioè, comunque sia, con un vulnus per la propria libertà di pensiero.

Ma tant'è, dove possibile è lecito applicare la regola di Popper a proposito del "paradosso della tolleranza": «l'intolleranza nei confronti dell'intolleranza stessa è condizione necessaria per la preservazione della natura tollerante di una società aperta».

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