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30 Aprile 2019

 

Debito pubblico, come siamo diventati uno Stato che può fallire

 

C’è un dato di fatto, nella corrente situazione politico-economica dell’area euro, che neppure il più acceso dei populisti è in grado di confutare: rebus sic stantibus – cioè nella cornice giuridica disegnata dai trattati europei e dal trattato di stabilità, coordinamento e governance della politica economica e monetaria (Fiscal Compact) – un debito pubblico pesante è un fardello gravoso per uno Stato, che rende quest’ultimo poco credibile presso i mercati e fa vacillare la fiducia delle borse. Di poi, ciò può portare a un rialzo febbrile dei tassi a cui lo Stato si rifinanzia, a una insostenibilità degli stessi e, teoricamente, a un suo default. Ripeto: a un suo default, cioè a un suo fallimento, disavventura che avevamo sempre considerato, quantomeno in Europa e prima di Maastricht e di Lisbona, un’esclusiva delle aziende private confinata entro il recinto del diritto privato.

 

Oggi, invece, il fallimento di uno Stato è una prospettiva tutt’altro che impossibile ed è anche materia di diritto pubblico. Da questo punto di vista, tutti i Carlo Cottarelli del mondo hanno tutte le ragioni del mondo. E sempre da questo punto di vista, un Fabio Fazio qualsiasi ha buon gioco nell’invitare Cottarelli al suo show per mettere in guardia gli italiani dal pericolo di una gestione delle finanze pubbliche non allineata alla cosiddetta golden rule dei dannati parametri. E tuttavia, il dato di fatto di cui sopra si presta a un rilievo non smentibile neppure dal più fervente degli europeisti: la situazione tratteggiata, modellatasi per effetto della successiva stratificazione di accordi internazionali (i trattati, appunto) non esisterebbe se non avessimo accettato e sottoscritto l’articolo 126 del Trattato di Lisbona e il protocollo 12 allegato al medesimo (procedura per disavanzi eccessivi), se il nostro rappresentante al Consiglio europeo non avesse approvato il Regolamento 1466/97 antesignano del Fiscal compact, se non avessimo costituzionalizzato il pareggio di bilancio nell’articolo 81 della Costituzione, e infine se non avessimo accettato la logica “illogica” di vederci strappare una Banca centrale prestatrice illimitata di ultima istanza di moneta “domestica”: cioè di moneta nostra creata ab nihilo (come tutte le monete del mondo a partire dalla fine del gold exchange standard del 1971).

 

Se, se, se: se mia nonna avesse le ruote sarebbe un carretto, si diceva una volta. Ma mi chiedo se chi ha tolto le ruote alla nonna (la Repubblica) sapeva cosa stava facendo o, peggio ancora, voleva ciò che poi ha fatto. E allora il problema vero, soprattutto per la Sinistra e gli uomini di sinistra – sempre che una sinistra e uomini di sinistra esistano ancora, beninteso – non dovrebbe essere stabilire se un Cottarelli qualsiasi ha ragione (è ovvio che ha ragione, date le circostanze). Dovrebbe consistere, piuttosto, nel chiedersi perché è stato costruito un sistema – anche, se non soprattutto, con la complicità fattiva della sinistra – in cui Cottarelli e i suoi pari hanno senz’altro ragione.

 

Un sistema dove lo Stato italiano è, nell’ordine:

1. privo della Banca centrale di cui sopra;

2. inibito dal poter concepire qualsivoglia politica monetaria espansiva;

3. costretto a utilizzare una moneta sostanzialmente estera;

4. sottoposto quotidianamente al ricatto dei mercati tramite lo spread;

5. obbligato a procacciarsi il nulla osta preventivo, sulla legge finanziaria, di una commissione di burocrati;

6. esposto all’eventualità del default.

 

 

Se ci poniamo da questa angolazione, potremo agevolmente constatare che il primo e più importante effetto dell’aver abdicato alla nostra moneta nazionale non è neppure quello di aver trasformato un non problema (il debito pubblico) in un problema. Questo è il lato A, per così dire, di quel 45 giri – sempre per così dire – tanto in voga tra i sovranisti quando parlano della perduta sovranità monetaria. Ma il lato B di quella stessa hit è ancora più rilevante. Ha a che fare con lo strettissimo legame tra deficit pubblico e risparmio privato. Infatti, è solo l’uso incrementale di quella astrusa tecnica di immissione di denaro “fresco” nell’economia, che va sotto il nome di “monetizzazione” del debito, a consentire questi due fenomeni paralleli e convergenti, come avrebbe detto Aldo Moro. Da un lato, l’aumento ineluttabile del debito pubblico e della massa monetaria di nuova emissione, dall’altro la possibilità per i cittadini di tesaurizzare una parte di quella massa monetaria proprio confidando nel fatto che lo Stato non la drenerà integralmente attraverso l’imposizione fiscale. Altrimenti detto, è proprio il deficit dello Stato – e cioè una decisione politica specularmente antitetica alla perversione del pareggio di bilancio costituzionalizzato con gli articoli 81, 117 e 119 della nostra Carta fondamentale – a permettere ai cittadini di concedersi il lusso di mettere da parte qualcosa per i “tempi grami” (come avrebbero detto le nonne di una volta, con le ruote e anche senza, a significare la lodevole propensione al risparmio).

 

Che ciò sia vero è inconfutabilmente dimostrato dalle statistiche: dal 1970 a tutti i primi anni Novanta, le famiglie italiane hanno mediamente risparmiato dal 20 al 25 per cento del proprio reddito. È proprio così che l’Italia è diventata uno dei Paesi al mondo con la maggiore massa di liquidità accantonata (circa 4.300 miliardi al 2017). Cionondimeno, qualcosa succede proprio a partire, grossomodo, dal 1992 (data di stipula del trattato di Maastricht): la capacità degli italiani di risparmiare crolla letteralmente a picco e precipita sotto il 10% intorno al 1998 e, addirittura, sotto il 5% a partire dalla seconda decade di questo millennio. Si tratta di due date affatto casuali: la prima coincide con l’entrata a regime dell’euro sui mercati finanziari (1/1/1999), la seconda con l’approvazione, da parte del Parlamento, del trattato sul Fiscal compact (23.07.2012) e dell’entrata in vigore di quest’ultimo il 1° gennaio 2013.

 

Per concludere, possiamo dire che questo effetto perverso è una sorta di funesta eterogenesi dei fini del progetto europeista? Oppure dobbiamo pensare che taluni ci hanno volutamente messo nell’angolo? Personalmente, accendo la seconda e mi stringe il cuore al pensiero che, tra quei taluni, ci sono non pochi politici italiani.

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