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21 Giugno 2019 

 

Una città dissoluta

di Giuliano Santoro

giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto

 

La storia di Roma e delle sue lotte di classe è anche storia di lotte per liberare spazi. Ce lo ricorda il corteo contro gli sgomberi di sabato 22 giugno. In una città fallita non possiamo prescindere dalla generosità di chi costruisce un’altra città

 

Il fatto che in una città come Roma ci si debba mobilitare per difendere decine di spazi sociali minacciati da sgomberi e repressione, come non accade neanche per costruzioni abusive e attività clandestine, è l’indice del divario che esiste tra forme della rappresentanza e politica dal basso. Anche nell’era del cosiddetto cambiamento,  anzi soprattutto in questa epoca, chi decide di impicciarsi della cosa pubblica, occupare i vuoti nella metropoli e riempirli di senso viene guardato con fastidio e indicato come pericolo da sconfiggere, tutt’al più anomalia da superare. 

La storia aiuta a ritrovare il bandolo. Quando, con l’unità d’Italia, il ministro delle finanze Quintino Sella chiese che a Roma non venissero costruiti grandi insediamenti industriali che portassero lo scandalo della lotta di classe nella capitale del  regno, probabilmente non sapeva di evocare un sortilegio che avrebbe perseguitato la città a lungo. Per lo stesso motivo tra gli urbanisti fascisti si discusse molto di cosa fare delle indecorose borgate che accerchiavano le mura storiche della rinnova Capitale dell’Impero. Come tutti i reazionari, Benito Mussolini odiava la città e le sue contaminazioni, era terrorizzato dalla  sua estensione, la considerava (non a torto) un posto incontrollabile, che sfuggiva all’ossessione igienica e securitaria del regime. A quel periodo risalgono le norme contro l’urbanesimo oggi rinnovate dal nefasto intreccio tra legge Bossi-Fini sui migranti e il decreto Lupi sulla casa emanato dal governo Renzi, tra razzismo e decoro: chiunque fosse privo di un lavoro e di una casa regolare non aveva diritto di residenza. Eppure questa città, il suo proletariato che raramente è diventato classe operaia vera e propria ma che in forme via via rinnovate eppure ricorrenti ha combinato diverse figure sociali e produttive, ha una specie di abitudine nel far da sé, nel costruire le proprie istituzioni. E solo in un secondo tempo andare dentro le mura della città storica, nei palazzi del potere e sotto i balconi dei potenti, a rivendicare la propria esistenza e manifestare la propria forza costituente.  

Il fatto che tutto ciò stupisca tradisce l’ennesima forma di rimozione collettiva, della memoria e del manifestarsi concreto della vita in comune. Fino agli anni Settanta ancora centinaia di migliaia di romani vivevano in baracche o edifici abusivi. Ne resta memoria, in forma spuria e ancora una volta rinnovata, nelle baraccopoli informali che oggi gli ex baraccati delle periferie guardano con terrore, quasi avendo paura di ritrovarci le proprie radici. Alla fine del secolo scorso, per dare casa a questo popolo dell’abisso vennero costruiti casermoni che han fatto la fortuna dei palazzinari. Grandi edifici pensati come falansteri che invogliassero il senso di comunità e il mutuo aiuto, negli anni recenti sono divenuti tristemente famosi per i blitz mediatici dei neofascisti. Gli attivisti degli spazi sociali che cercano di organizzare quei falansteri si sono accorti prima del tempo che l’utopia è divenuta distopia perché questi progetti sono rimasti isolati, senza servizi, con pessima manutenzione. Non ha aiutato il Piano regolatore varato nel 2008 dalla giunta Veltroni che ha assecondato gli appetiti edificatori e costruito quartieri satellite e scollegati dal centro.

Roma è una città tecnicamente fallita. Lo dicono tutti i parametri economici e lo misurano ogni giorno le milioni di persone che ci vivono o la attraversano. In mezzo a questa costante sensazione di decadimento, dentro questa apocalisse che non conduce mai a una rivelazione ma che si manifesta in forma costante ed estenuante, chi governa la cosa pubblica ha deciso di prendersela con le esperienze che fanno da argine alla barbarie, che dentro questo fallimento individuano vie di fuga e aprono spazi di possibilità. 

Per ottenere un’area vasta tanto quanto quella di Roma bisogna sommare la superficie occupata da nove capitali europee: Vienna, Atene, Lisbona, Amsterdam, Berna, Parigi, Copenaghen, Bruxelles e Dublino. L’anomalia è che di fronte a tale vastità smandrappata, Roma non è fino in fondo una metropoli. Non lo è proprio perché ancora la raccontiamo parlando di centro e periferie, e non di una città fatta da diversi centri: di una metropoli, appunto. Il corteo di sabato 22 giugno ci ricorda ancora una volta che la storia di Roma è storia di periferie che assediano il centro e che strappano diritti di cittadinanza. Forse è proprio da quando questo meccanismo si è inceppato, da quando il motore della lotta di classe è ingolfato, che la città intera è entrata in crisi. Si tratta di una metafora più generale della dislocazione spaziale del conflitto sociale, soprattutto da quando – con la dissoluzione della grande fabbrica e l’avvento di una forma di produzione spalmata sui territori – la posta in gioco delle lotte sono gli spazi di vita oltre che i tempi.Chiudete gli occhi e pensate per un attimo alle forme di autoproduzione degli spazi, alle innovazioni culturali, ai movimenti che dal locale hanno solcato la scena globale cercando di sintonizzarsi con quanto avviene in altre periferie e in zone apparentemente lontane. In mezzo a questo fallimento c’è la forza della dissipazione. Qualcuno che ha il coraggio di riprendersi le strade, di indicarci un nuovo metro di giudizio che non sia quello del profitto. È  questo che accomuna i diversi soggetti manifesteranno da piazza Vittorio: per produrre società, comunità e cultura bisogna avere il coraggio di dissipare, non centellinare. È una forma organizzativa e uno stile di vita estenuante eppure necessario. Negli anni, in questi spazi che hanno conosciuto diverse fasi e incontrato tanti cicli, abbiamo visto succedersi intuizioni geniali e generosità straordinarie, idee all’apparenza gettate via e fatiche che parevano inutili. Se non può farlo la sciagurata politica alla quale la gente ha dato con disincantata ferocia il potere di rappresentarci, sarebbe ora che quantomeno la cittadinanza, in un moto di lucida passione, riconosca il senso di quanto avvenuto e decida di restituire solo una piccola parte dei regali fuori mercato che questi uomini e queste donne hanno fatto e stanno facendo a Roma.  

 

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