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venerdì 26 luglio 2019

 

Genova per me, il GSF, il G7, i rollini della Diaz e le nostre ragioni 18 anni dopo

di Gennaro Carotenuto 

 

Mi ricordo sempre tante cose di quei giorni di Genova, che restano come un prima e un dopo della mia vita, e della vita della mia generazione. Intanto c’era il GSF, il Genoa Social Forum, che nessuno se lo ricorda, ma c’era e non avevo mai parlato in pubblico in una cosa così importante. E per me in quel movimento ci passava la vita, i sogni, tutto, e sentivo – e sento – che quello che avevo da dire io era infinitamente più importante e più giusto di quello che aveva da dire Bush al G7.

 

E poi mi ricordo quasi come flash, una fotografa carina che mentre parlavo mi faceva un sacco di primi piani, ma poi non l’ho più vista. E poi alla fine mi ricordo Nora Cortiñas, la madre di plaza de Mayo, che mi venne ad abbracciare. La mia relazione era sull’Argentina disperata pre-default. Mancavano pochi mesi, pochi mesi a tutto, Genova, New York, Buenos Aires, l’Afghanistan. In pochi mesi era un altro mondo, peggiore. E poi venne Gillo Pontecorvo a farmi i complimenti, cordiale, e mi dicevo: sto dando la mano a un monumento. E altri, Gianni, Gianni Minà, che ci conoscevamo, ma non sapevo ancora che casa sua sarebbe stata rifugio in uno dei periodi più tristi della mia vita. Caro, carissimo Gianni. C’era pure il francese buffo, che somigliava a Obelix, José Bové.

E poi c’era la Diaz; che faccio, resto qui a dormire o non resto qui? Oppure accetto quell’invito di un fidanzato di un’amica che manco ho visto mai, in pieno centro storico? Alla fine accetto l’invito, che così entro ed esco dalla Zona Rossa e mi è più comodo. La prima sera mi porta a mangiare il pesto da Maria la Succida e, anche se dormivo per terra in mezzo alla rumenta, vai a sapere che non mi abbia salvato la vita. Non ricordo il nome, ma gli sono grato.

E poi il primo giorno gli abbracci, la manifestazione più bella della mia vita, i migranti, e poi il centro stampa nel porto antico, del G8 ufficiale. All’epoca lavoravo per Brecha, il settimanale di Montevideo. Entravo e uscivo freneticamente dalla Zona Rossa. Centro stampa della Diaz, centro stampa del porto antico. Due mondi diversi. Da una parte gli anchormen, da CNN in giù; di là i militanti, Indymedia: “don’t hate the media become the media”. Ed era tutto estraniante. Fino a un certo punto quello che era fuori era tutto colorato e quello che era dentro era il Cile di Pinochet. Le strade deserte, le saracinesche abbassate, i soldati a cavallo.

E poi, il giorno dopo, anche fuori era diventato tutto in bianco e nero. Ma pieno di gente, e fumo, e dolore, e una paura bestia, tanto che dopo un po’ mi rifugiavo dentro quella città proibita, che mi vergogno pure un po’ a dirlo. E mi ricordo che al porto antico avevo un box tutto mio, cose mai viste all’epoca, con un computer con tutte le televisioni del mondo collegate. Era lo streaming e per la prima volta nella storia potevi illuderti di capire di più stando collegato che andando a vedere. E così capitava di vedere Mentana che lancia il TG5 e dire grosso modo che i nostri erano tutti terroristi, e non ricordo quali altre assurdità. E però esci dal box, giri l’angolo e a tre metri gli gridi in faccia, a Mentana in persona, “ma che diavolo dici” e anche se lui resta a discutere mezz’ora con te, non lo smuovi di un centimetro dalla versione ufficiale.

 

E poi c’era Vittorio Agnoletto – fuori dalla zona rossa ovviamente – che me lo guardavo e me lo piangevo, una persona che più pacifica non si può, trattata per anni come un terrorista. Quanto grati bisogna essere a quel piccolo Atlante milanese col mondo caricato sulle spalle. E poi c’era Carlo, Carlo Giuliani, sapete tutti; e l’altra ragazza morta che per giorni la gente giurava di averla vista. Però, se posso dire, la morte di Carlo è stato un fatto irreparabile e ce lo portiamo tutti nel cuore. Ma l’associazione Genova/Carlo sfasa le cose. Perché a Genova, nel bene e nel male, nei giorni nei quali Genova era il centro della terra, sono successe infinite più cose. E poi c’era mamma, mamma mia, che mi aveva imposto per la prima volta in vita mia di avere un cellulare. A fare i conti so esattamente che da 18 anni dipendo da un cellulare. Mi chiamava ogni cinque minuti, povera, che in televisione raccontavano di tutto. Magari chiamasse ancora.

 

E poi un sacco di altre brutte cose che non mi va di ripetere. Ma l’ultima sera, a cena al porto antico, c’era perfino un’atmosfera un po’ più tranquilla e io, e i molti infiltrati dei nostri, Pio d’Emilia ricordo e tanti altri, un’altra bottiglia per favore; credo pagasse Berlusconi. È andata. Uno ancora non capiva i contorni della sconfitta, che forse avrebbe cominciato a essere davvero chiara solo dopo l’11 settembre, ma è andata. Andata un corno. Non faccio in tempo a stendermi per terra tra la rumenta della casa nei carrugi, che, il modem attaccato a non so cosa, scoppia come una bomba. Hanno assaltato la Diaz! Resisto circa un’ora illudendomi non fosse nulla. Devo dormire, ma come si fa?

E poi allora, prendo le mie cose, sapendo di non tornare. La zona rossa di notte non si poteva attraversare; e aveva la forma di una specie di cono lunghissimo. Genova è lunga in senso Ponente/Levante. Quella notte lo era anche in senso Nord/Sud. Dovevo costeggiare quella specie di città fortificata. Camminai due ore e mezzo per arrivare alla Diaz. Albeggiava. Dentro avevano sgomberato, spaccato teste, ossa, massacrato, portato a Bolzaneto e la “macelleria messicana” che seguì. Ci penso e ancora mi viene la pelle d’oca.

E poi ci sono cose che ora non ricordo, per esempio come entrai nella scuola – a vedere – ma anche cose fondamentali. Una più di tutte, a parte un termosifone con una macchia di sangue così grossa da convincermi avessero ammazzato qualcuno anche lì, che ci penso e ancora mi scoppia il cuore. La cosa importante, che vorrei che si ricordasse, è questa: era ancora un’epoca analogica, anche se in transizione. Il GSF aveva fatto convogliare alla Diaz le prove delle violenze della forza pubblica di quei giorni, un massacro avvenuto sotto migliaia e migliaia di occhi. Proprio era stato fatto un appello perché gli avvocati potessero lavorare. Ebbene lì in un angolo c’erano letteralmente centinaia di rullini fotografici aperti, esposti, buttati lì perché le prove delle violenze che contenevano dovevano ed erano state distrutte.

Non smetterò mai di dire che quei rollini furono il principale motivo della mattanza della Diaz; la polizia del Ministro degli Interni Fini, che dirigeva le operazioni, doveva distruggere il più possibile le prove delle violazioni di diritti umani che aveva commesso, e che nel giro di poche ore si sarebbero diffuse in tutti i giornali del mondo. Solo pochi anni dopo avremmo avuto tutti telefoni e fotocamere digitali. Ma allora, per distruggere quelle prove, concrete, la Polizia si macchiò ancora di più le mani. Magari alla Diaz distrussero anche le foto che la fotografa carina mi faceva mentre parlavo al Genoa Social Forum. Trovai ancora la forza per andare alla conferenza stampa in Questura e da lì, un paio di giorni dopo, che se fossi finito a Bolzaneto sarebbe stato un guaio grosso, volare a Santiago. Che imbarazzo! C’erano le famose due molotov e un giubbotto di un poliziotto con un graffietto. I corpi del reato. Le prove che all’interno ci fossero i black bloc. Balle. Criminali balle dette dallo Stato contro i migliori dei suoi cittadini. Io scrissi nei miei articoli per Brecha – lo facemmo in tanti – una cosa come: “tutto sto casino per due molotov”.

Avevo torto, perché anche le due molotov le avevano messe loro. È dimostrato. Ci sono le condanne. Le aveva messe la Polizia di Bush, Berlusconi e dell’FMI per giustificare di fronte alla stampa (un watch dog docilissimo) il massacro della Diaz, Bolzaneto, tutto il resto e passare dalla parte della ragione. Avevo torto sulle molotov – fui ingenuo – ma avevamo ragione su tutto il resto: sul neoliberismo reale, sulle privatizzazioni, sul Nord e sul Sud del mondo, sulla fine del lavoro, sul cambio climatico, sulla necessità di rispettare il pianeta per salvare noi stessi, sulle guerre, sui diritti dei migranti, parte integrante di quel movimento. A Genova in quei giorni si combatté una battaglia di valore planetario. Ci massacrarono e la perdemmo. Diciott’anni dopo è tutto peggiorato, ma avevamo ragione noi.

17 Luglio 2019

 

“Che cosa ricordo del G8 di Genova? Ricordo Tutto. Dobbiamo ricordare tutto”

di  Lorenzo Guadagnucci 

 

Il racconto delle giornate del luglio 2001 di Lorenzo Guadagnucci, giornalista e vittima di tortura nella scuola Diaz-Pertini. “La gente, tanta gente”, il “dolore per l’omicidio di Carlo”. E poi la confusione, i lacrimogeni, lo spavento. E quella notte, l’ingresso degli agenti, di corsa, urlando; le persone con le mani alzate che dicono, implorando, “no violence”. “Dobbiamo ricordare ogni minuto perché non è vero che la storia è finita”

 

Sono passati 18 anni dal G8 di Genova e mi hanno chiesto che cosa ricordo. Che cosa ricordo? Ho risposto che ricordo tutto. E che tutti dovremmo ricordare, perché in quei giorni del luglio 2001, oltre a tutto il resto, ci hanno portato via una straordinaria opportunità di crescita civile e di cambiamento politico. È stato un momento di svolta (non in meglio) per il nostro Paese. Perciò ricordo tutto. Ricordo la giornata del 20 luglio trascorsa in redazione a Bologna mentre in tv passavano le immagini del corteo, degli scontri, la notizia dell’uccisione di Carlo Giuliani in piazza Alimonda; ricordo lo stato d’ansia ma anche di curiosità per la partenza dell’indomani mattina; il treno speciale preso prima dell’alba a Imola; la gente, tanta gente, sul treno e i dubbi su quello che avremmo trovato, dopo la tragedia di piazza Alimonda; l’arrivo alla stazione di Quarto, perché le stazioni centrali erano chiuse; il clima positivo e fiducioso, nonostante il dolore per l’omicidio di Carlo.

 

Ricordo la camminata per raggiungere il centro città, passando per strade vuote, senza auto, in un silenzio inaspettato; l’arrivo in via Battisti, alla scuola Diaz-Pascoli, e l’incontro con amici e colleghi al centro stampa; la discesa verso il corteo, di passaggio per il lungomare; una massa enorme di persone sotto il sole; l’incontro con Olga, un’amica arrivata da Milano; il corteo che non va avanti né indietro, per via delle prime azioni del Black Bloc; una ragazza bionda vestita di nero che passa in mezzo alla gente e raggiunge la testa del corteo, anzi il gruppo che se ne è distaccato; i fumi in lontananza; tanta, tanta gente; Enrico Deaglio che a un certo punto incrocio; ricordo la confusione, i lacrimogeni, la gente spaventata che comincia ad arretrare e a muoversi verso il mare, sul nostro fianco sinistro; è la polizia che carica; la confusione che mi fa perdere contatto con Olga e con l’amico che l’accompagnava; ricordo la paura e la voglia di togliersi dai guai; la scalinata che imbocco a fatica, nella ressa, per abbandonare il lungomare; il lungo giro per le vie deserte della città, vagando senza meta, senza conoscere la città; gli sbarramenti, le improvvisate barricate formate con i cassonetti dell’immondizia; le strade vuote, le piazze vuote; qualcosa che brucia davanti a un sottopassaggio vicino alla stazione Brignole; un gruppo di agenti della polizia che avanza lungo una strada battendo i manganelli sugli scudi, con un rumore sinistro e minaccioso; la marcia indietro per non incrociarli.

 

Ricordo piazza Alimonda, i fiori, gli oggetti, i messaggi, la sciarpa della Roma a coprire il sangue lasciato da Carlo; il piazzale vicino allo stadio pieno di pullman; gli amici che mi chiamano al telefono preoccupati per quel che vedono in televisione; la ricerca affannosa di acqua e cibo, con i bar tutti chiusi; i piedi che cominciano a far male; la gente che sciama per le strade, il corteo che si dev’essere sciolto; Olga che mi chiama e mi dice che sta ripartendo per Milano; ricordo il ritorno alla Diaz, al centro stampa, a riprendere lo zaino; il ragazzo che mi indica un posto in cui dormire, la scuola di fronte, la Diaz-Pertini; gli stand di piazzale Kennedy dove trovo finalmente da mangiare; ricordo la stanchezza; il ritorno, ormai è buio, alla Diaz, e tanta gente in via Battisti che parla, che beve, che si riposa; ricordo la sensazione che una giornata difficile, anche incomprensibile, è finalmente conclusa.

 

Ricordo i sacchi a pelo, gli zaini, le persone nella palestra della scuola Diaz-Pertini che parlottano; quelli che già dormono, per terra; il mio zaino nell’angolo a sinistra; il sonno che arriva presto; ricordo i rumori che mi svegliano; l’ingresso degli agenti, di corsa, urlando; le persone con le mani alzate che dicono, nemmeno urlando semmai implorando “no violence”; gli agenti che corrono, urlano e picchiano, a calci e colpi di manganelli tutti quelli che si trovano di fronte; ricordo gli agenti che arrivano nella mia direzione; due di loro che prendono a calci in faccia la ragazza seduta vicino a me; ricordo i due agenti che mi prendono a manganellate; i colpi spaventosi che mi arrivano sulle braccia, fortissimi, mentre mi riparo la testa; le braccia sanguinanti, deformate, gonfiori che sembrano palline da ping pong sotto la pelle; ricordo il sangue che scorre sugli avambracci e sotto le ginocchia; il dolore che mi impedisce di muovermi; gli agenti che picchiano altre persone; le grida di paura e di dolore; i pianti; l’agente con la camicia bianca che torna verso di me e mi riempie di botte sulla schiena, mentre sono adagiato a terra e tento di proteggermi la nuca; ricordo gli agenti che ci minacciano; la gente che piange; io che mi sposto strisciando alla parete di fronte, per eseguire l’ordine di radunarsi su quel lato; ricordo la gente che piange e dice mamma mamma; il ragazzo in crisi epilettica; la ragazza che mi consiglia di togliermi la maglia per tamponare una ferita sul braccio; io che non riesco a togliermi la maglia per il dolore al torace; ricordo il tempo che non passa; l’infermiere che arriva a mani nude e non sa da dove cominciare; il medico che separa i feriti più gravi dagli altri; le barelle che cominciano a caricare e portare via i feriti; il medico che dice di me: questo ha tutte e due le braccia rotte; ricordo l’infermiere che mi stecca le braccia con i cartoni rigidi di due quadernoni; ricordo la barella che mi porta fuori; l’agente con la camicia bianca che chiede all’infermiera dei guanti di lattice per non sporcarsi le mani con il sangue altrui; la gente al cancello che urla; gli agenti che fanno cordone; l’elicottero assordante sopra le nostre teste.

 

Ricordo l’ambulanza che mi porta in ospedale; le mie prime telefonate agli amici; il corridoio del pronto soccorso pieno di lettini; i medici che mi tolgono gli abiti e scoprono le ferite, gli ematomi; le radiografie; i punti che mi ricuciono le ferite; ricordo l’arrivo all’alba nella camera d’ospedale; i poliziotti che mi aspettano e mi dicono che sono in stato d’arresto ma non sanno dirmi perché; ricordo la disperazione; i poliziotti che parlano con me e sembrano stupiti; le batterie del telefono che si scaricano; i colleghi che vengono a trovarmi, anche se non potrebbero; i medici che mi visitano; le ore che non passano; il Corriere della Sera che racconta la mia storia e dice che sarò portato in carcere; ricordo gli agenti che mi sorvegliano anche in bagno; io che supplico i medici di non mandarmi in carcere; Arnaldo che viene portato nella mia camera; lui che conciona, con un braccio e una gamba rotti, sulla grande partecipazione ai cortei; gli agenti che ridono; il poliziotto di Bologna che conosce il mio collega che fa la nera; ricordo i magistrati che arrivano a interrogarmi; le strane domande che mi fanno: ha visto delle bombe molotov sopra un tavolo all’ingresso della scuola?; ricordo il terrore d’essere portato in carcere; l’agente che porta l’ordine di scarcerazione; i poliziotti che lasciano la camera; la signora che in piena notte è ancora sveglia e mi presta un caricabatterie; ricordo la telefonata per dire che mi hanno liberato; gli amici che da Milano vengono a prendermi per riportarmi a casa.

 

Di Genova 2001 ricordo tutto perché Genova stava cambiando molto, se non tutto. E molti altri, forse tutti quelli che si trovarono a Genova in quei giorni potrebbero raccontare quel che fecero, quel che videro, quel che subirono fino nei minimi dettagli, tale fu il trauma personale e collettivo. Un movimento competente e creativo fu fermato, anche se non distrutto, in quella calda estate del 2001. Non era troppo tempo fa ed è giusto ricordare tutto perché vorrebbero farci credere che siamo alla fine della storia, che la navigazione di piccolo cabotaggio è l’unica possibilità che abbiamo. È bene ricordare tutto, fino nei minimi dettagli, anche la parte più dolorosa di quei giorni, perché viviamo nel Paese della menzogna e dell’oblio e invece il futuro ha bisogno di poggiare sul meglio avvenuto in passato, pur senza dimenticare il peggio. Un movimento popolare è stato soffocato nel sangue e questo non si può perdonare, perché il Paese è stato spinto alla rassegnazione e alla mediocrità e la violenza delle istituzioni è stata proposta -e da molti accettata- come una soluzione. Ma dobbiamo ricordare ogni minuto che meno di vent’anni fa si è pensato di fare insieme, in tanti, con intelligenza, superando le frontiere, qualcosa di importante per il bene comune. È accaduto e quindi accadrà di nuovo. Dobbiamo ricordare tutto perché non è vero che la storia è finita.

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