Information Clearing House
3 gennaio 2019

Israele fa male all’America – un giornalista del New York Times spiega perché
di Philip Giraldi

Traduzione di Elvia Politi

Il giornalismo americano è diventato, con i suoi esponenti del mainstream, un’antologia di mezze verità e bugie totali. Il pubblico, sebbene di conseguenza malinformato su gran parte dei temi, ha per lo più capito di essere stato ingannato e negli ultimi vent’anni è precipitata la fiducia nel Quarto Potere. Lo scetticismo su ciò che è stato diffuso, ha permesso al presidente Donald Trump e ad altri politici di eludere questioni importanti sulla politica, sostenendo che ciò che è stato riportato è poco più di una fake news.
Nessuna notizia è più falsa di quanto viene riportato sui media americani in relazione allo Stato di Israele. L’ex membro del Parlamento dell’Illinois, Paul Findly, nel suo libro fondamentale “Osano parlare apertamente: persone e istituzioni si confrontano con la lobby d’Israele”, ha osservato che praticamente tutti i corrispondenti esteri che lavorano fuori Israele, sono ebrei, e molti degli editori a cui loro riportano sono anch’essi ebrei, garantendo così che gli articoli che alla fine vengono pubblicati sui giornali sono confezionati con cura per minimizzare ogni critica allo stato di Israele. La stessa cosa succede per le notizie televisive, in particolare nelle testate tv via cavo come la CNN.
Un aspetto particolarmente irritante dell’igienizzazione delle notizie su Israele è l’assunto di base, secondo cui Israele condivide i valori e gli interessi americani, tra cui libertà e democrazia. Ciò porta alla percezione che gli Israeliani siano proprio come gli Americani, e che i nemici di Israele siano i nemici dell’America. Detto questo, è naturale essere convinti che gli Stati Uniti e Israele siano alleati e amici perpetui, e che sia interesse americano fare tutto quello che è necessario per sostenere Israele, tra cui fornire miliardi di dollari per aiutare una nazione già ricca e dare una copertura politica illimitata in tutti gli organismi internazionali come le Nazioni Unite.

Quel falso, ma tuttavia apparentemente eterno, legame è essenzialmente il punto da cui parte un editoriale pubblicato il 26 dicembre sul New York Times. L’articolo, firmato da Bret Stephens, uno degli opinionisti interni del giornale, si intitola “Donald Trump è dannoso per Israele[in inglese].

Stephens arriva al punto piuttosto velocemente, sostenendo che “il presidente ha improvvisamente minato la sicurezza di Israele a seguito di una telefonata con un uomo forte e musulmano in Turchia. Alla faccia dell’idea, comune a destra, che questa sia l’amministrazione più a favore di sempre nei confronti di Israele. Scrivo questo come uno che ha sostenuto Trump quando ha trasferito l’ambasciata americana [in inglese] in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, e che lo ha elogiato come coraggioso e corretto [in inglese] quando ha deciso di ritirarsi dall’accordo sul nucleare iraniano. Io mi sarei anche opposto alla decisione del presidente di ritirare le truppe americane dalla Siria in quasi tutte le circostanze. Contrariamente al mito odioso [in inglese] che i neoconservatori mettono sempre Israele al primo posto, le ragioni per stare in Siria hanno totalmente a che fare con gli interessi centrali degli Stati Uniti. Tra cui: sconfiggere l’ISIS, continuare a essere leali con i Curdi, mantenere l’influenza in Siria ed evitare che Russia e Iran consolidino la loro presa in Oriente.”

La bellezza della prosa pomposa di Stephens sta nel fatto che dal primo momento un lettore attento può capire che l’argomento promosso non ha senso. Sthephens ha molto a cuore i Curdi, ma nel suo articolo i Palestinesi sono invisibili, e la sua conoscenza degli altri sviluppi in Medio Oriente è superficiale. Prima di tutto, la telefonata col presidente turco Recep Tayyip Erdogan non aveva nulla a che vedere con il “minare la sicurezza di Israele” ma aveva a che fare con il confine settentrionale della Siria, condiviso con la Turchia, e con gli accordi per lavorare insieme ai Curdi, fatto di vitale interesse sia per Ankara che per Washington. Si potrebbe anche aggiungere che dal punto di vista della sicurezza nazionale americana, la Turchia è nella regione un partner essenziale per gli Stati Uniti, mentre non lo è Israele, indipendentemente da ciò che dice di essere.

Stephens va avanti nel dimostrare ciò che afferma essere una calunnia, cioè che per lui e per altri neoconservatori Israele viene prima di tutto, una strana affermazione dato che dedica l’80% del suo articolo a discutere cosa sia o non sia buono per Israele. E’ a favore dello spostamento a Gerusalemme dell’ambasciata americana e alla fine dell’accordo sul nucleare con l’Iran, due cose che sono state applaudite in Israele ma che sono estremamente dannose per gli interessi americani. Attacca il ritiro pianificato dalla Siria perché rappresenta un “interesse fondamentale” per gli Stati Uniti, cosa completamente insensata.

Contrariamente alle infondate asserzioni di Stephens, Russia e Iran non hanno né le risorse né la volontà di “consolidare il loro controllo a Oriente”, mentre sono gli Stati Uniti a non avere alcun diritto e interesse a “mantenere l’influenza” sulla Siria, invadendo e occupando il paese. Ma, certamente, invadere e occupare sono pratiche in cui Israele è esperto, quindi la cazzata di Stephens sull’argomento può essere attribuita alla confusione in merito a quelle cattive politiche che stava difendendo. Stephens dà prova di confusione anche con la sua insistenza nel dire che gli Stati Uniti devono “resistere agli aggressori esterni… in questo decennio, i Russi e gli Iraniani in Siria”, suggerendo di non essere a conoscenza che entrambe le nazioni stanno fornendo assistenza su richiesta del legittimo governo di Damasco. In Siria gli aggressori sono gli Stati Uniti e Israele.

Stephens poi esamina la situazione dal “punto di vista israeliano”, cosa presumibilmente facile da fare per lui perché è così che osserva ogni cosa, dato che è preoccupato molto più per gli interessi israeliani che di quelli americani. In effetti, tutte le sue opinioni sono basate sul presupposto che la politica statunitense dovrebbe essere a sostegno del governo israeliano di destra, cioè quello del primo ministro Benjamin Netanyahu, che è stato recentemente incriminato per corruzione e che ha richiesto le elezioni anticipate per sabotare il processo.

Quando poi finalmente Stephens arriva al punto, scrive: “ciò di cui Israele oggi ha più bisogno dagli Stati Uniti, è ciò di cui aveva bisogno alla sua nascita nel 1948: una America impegnata a difendere l’ordine liberale e internazionale contro i nemici totalitari, in contrapposizione a chi gestiste una politica estera puramente di contrattazione, basata sulle necessità del momento o sui capricci di un presidente”.

Poi Stephens illustra ciò che intende per “liberale e internazionale”: “significa che ci dovremmo opporre al fondamentalismo militante religioso, fosse di stampo wahabita a Riyadh, khomenista a Tehran o dei fratelli musulmani al Cairo e ad Ankara. Significa che dovremmo difendere – in quest’ordine –  i diritti umani, le libertà civili e le istituzioni democratiche”.

Inoltre, nella sua solfa, Stephens biasima gli ultimi due presidenti americani, dicendo che “durante gli otto anni di presidenza Obama, ho pensato che la politica americana verso Israele – la prepotenza [in inglese], gli incompetenti interventi diplomatici [in inglese], gli equivoci morali [in inglese], l’accordo sul nucleare iraniano [in inglese] e le pugnalate alle spalle delle Nazioni Unite [in inglese] – non potesse andare peggio. Come per tante altre cose, Donald Trump è riuscito a far fare bella figura ai suoi predecessori”. Poi si chiede: “c’è qualcosa di buon per Israele?” e quindi risponde “no”.

Nella sua lamentazione Bret Stephens si rivela indiscutibilmente sempre focalizzato su Israele, ma considerate ciò che sta effettivamente dicendo. Lui afferma di essere contro il “fondamentalismo religioso militante”, ma questo non è proprio il sionismo israeliano, con l’aggiunta, per sicurezza, di un pizzico di razzismo e fanatismo?  Un rabbino capo israeliano ha definito “scimmie” le persone di colore, mentre un altro ha dichiarato che i non-ebrei non possono vivere in Israele [in inglese]. I partiti di destra e di orientamento religioso fondamentalista sono attualmente al potere con Netanyahu e stanno facendo la politica del governo israeliano: Shas, Jewish Home [la casa ebraica] e United Torah Judaism [Giudaismo Unito nella Torah]. Nessuno di loro può essere considerato come un’influenza moderata su quel criminale seriale che è il loro primo ministro.

E la storia di Israele non è una delle peggiori in termini di diritti umani e libertà civili? Di seguito riporto la valutazione [in inglese] di Human Rights Watch [organizzazione non governativa internazionale che si occupa della difesa dei diritti umani]:

“Israele mantiene dei sistemi di discriminazione consolidati che utilizza sui Palestinesi. La sua occupazione cinquantennale della Cisgiordania e di Gaza comporta sistematici abusi sui diritti, tra cui punizioni collettive, abuso abituale e letale della forza, detenzione amministrativa prolungata senza accusa né processo in centinaia di casi. Costruisce e sostiene insediamenti illegali nei territori occupati della Cisgiordania, attraverso espropriazioni di terra palestinese e l’imposizione di oneri ai Palestinesi ma non ai coloni, restringendo il loro accesso ai servizi di base e rendendogli quasi impossibile costruire in gran parte della Cisgiordania, con il rischio di demolizione. La decennale chiusura da parte di Israele di Gaza, sostenuta dall’Egitto, limita fortemente il movimento di persone e beni, con un impatto umanitario devastante”.

Se si considera tutta la popolazione sotto il suo controllo, Israele è tra gli stati meno democratici, che però si definiscono democrazie. Quasi tutte le persone che vivono nelle terre reclamate da Israele, non possono votare, non hanno libertà di movimento nella propria terra e non hanno il diritto di tornare alle proprie case, che sono state costrette ad abbandonare. I cecchini israeliani sparano tranquillamente sui dimostranti disarmati, mentre il governo di Netanyahu uccide, picchia e imprigiona i bambini. E lo stato ebraico non opera nemmeno molto democraticamente al proprio interno, con diritti speciali ed aree per i cittadini di religione ebraica ed intere città in cui Musulmani e Cristiani non hanno il diritto di proprietà e di residenza.

E’ il momento per gli ebrei americani come Bret Stephens di arrivare a capire che non tutto ciò che è buono per Israele è buono per gli Stati Uniti. Gli interessi strategici dei due paesi, se fossero discussi apertamente sia sui media che al Congresso, sarebbero spesso visti in conflitto diretto. In una qualche maniera nella mente contorta di Stephens il furto delle terre palestinesi del 1948 e l’imposizione di un sistema di apartheid per controllare le persone è in qualche modo rappresentativo di un ordine mondiale liberale.

Se qualcuno suggerisse che Stephens dovrebbe trasferirsi in Israele, dal momento che la sua principale fedeltà risiede chiaramente lì, lo accuserebbero di antisemitismo; ma, in un certo senso, è molto meglio che rimanga lì sul pulpito del New York Times a blaterare. Quando scrive in maniera così maldestra su quanto Donald Trump sia negativo per Israele, il vero messaggio che arriva forte e chiaro è quanto Israele sia dannoso per l’America.

 

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