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15 gennaio 2019

 

Altro che disimpegno: l’America di Trump sta mettendo le mani sul Medio Oriente

di Fulvio Scaglione

 

Il ritiro delle truppe in Siria e l’abbandono dei curdi al loro destino (al netto di qualche bisticcio dialettico con Erdogan) hanno fatto pensare a un progressivo ritiro statunitense dalla polveriera mediorientale. Niente di più falso. Il ruolo dell’alleanza Israele - Arabia Saudita

 

Si urla e si strepita ma alla fin fine quel che succede risponde a una certa logica. Quel che vediamo oggi sul tappeto del Medio Oriente è la conseguenza quasi inevitabile di quel che successe alla fine del 2016, quando la Russia e la Turchia, dopo aver sfiorato la guerra, trovarono un accordo in chiave anti saudita e, va da sé, anti-americana. Putin voleva rendere agli Usa la pariglia dell’Ucraina, Erdogan aveva ancora il dente avvelenato per un tentativo di golpe che, ai suoi occhi, aveva radici lunghe fino a Washington. Così pace fatta tra Mosca e Ankara, confine turco finalmente chiuso all’Isis e compagnia e Aleppo riconquistata da Assad, con l’inevitabile effetto a catena sul resto della guerra.

In quel momento gli americani hanno capito di aver perso, in Siria. E non essendo né deboli né stupidi, hanno tirato le conseguenze. La principale è stata quella di cambiare strada e mettere nel mirino un altro Paese della cosiddetta Mezzaluna sciita, ovvero l’Iran. Donald Trump nel 2017 ha cominciato a mettere in discussione l’accordo sul nucleare firmato da Barack Obama nel 2015 (“Una delle cose peggiori che abbiamo mai firmato”), per poi disdettarlo nel maggio 2018. La conseguenza secondaria è stata quella di mollare al loro destino i curdi. Una prima volta nel settembre 2017, quando Masud Barzani, leader del Kurdistan iracheno, organizzò un referendum per l’indipendenza della regione che fu sconfessato da tutti ma in primo luogo dagli Usa, che dei curdi iracheni erano sempre stati i grandi protettori. La seconda volta poche settimane fa, quando Trump ha annunciato il ritiro delle truppe americane (circa 2 mila soldati) dalla Siria. Ultimo anello della catena: i curdi, rimasti con le spalle coperte, avviano trattative con la Siria di Bashar al-Assad e chiedono a Vladimir Putin, che di Assad è il protettore, di mediare. Sai che mediazione…

Il resto, ovvero le urla e gli strepiti che abbiamo visto nei giorni scorsi, sono operetta. Non v’è ragione per cui la Turchia debba mettersi proprio ora a massacrare i curdi. L’ha fatto fino a ieri, con gli americani ora strepitanti ben presenti sul terreno. E ora i curdi si sono praticamente affidati a Putin, con cui Erdogan marcia d’amore e d’accordo da due anni. E con quale convenienza gli Usa di Trump dovrebbero devastare la già devastata economia turca, trasformando in un marasma un Paese della Nato, anzi il Paese che alla Nato fornisce il secondo esercito più potente dopo quello americano, con l’unico effetto di regalarlo in maniera definitiva all’influenza russa?

Lo stesso ragionamento vale se si osserva il corso degli eventi con gli occhi dei curdi. Quando Erdogan gli ha scagliato contro, a più riprese, l’esercito e le milizie di Al Nusra e dell’Esercito libero siriano che lavorano per lui, l’esercito di Assad è rimasto a guardare, nonostante la Turchia stesse invadendo il territorio siriano, e Putin si è girato dall’altra parte. All’uno e all’altro, infatti, andava benone che Erdogan rifilasse qualche mazzata a quei separatisti dei curdi. Perché noi, in tutto questo crudele pasticcio, ci siamo dimenticati di una cosa importante: quelli del Rojava sono curdi di etnia ma siriani di passaporto. Il loro progetto di autonomia, per quanto animato da ideali nobili e pratiche politiche innovative per il Medio Oriente, poteva realizzarsi a una sola condizione: che la continuità territoriale della Siria venisse infranta, lo Stato centrale cessasse di esistere e, nella frantumazione generale, una scheggia di territorio restasse a loro. E qui si ricomincia da Aleppo 2016. È successo proprio il contrario. Quindi gli americani hanno mollato il colpo, Erdogan ha cominciato a sparare, Assad e Putin han fatto finta di niente e i curdi, traditi da tutti come al solito, stanno ora cercando il male minore. Forse un po’ di autonomia dentro una Siria federale che Assad, però, vede come il fumo negli occhi.

Questo per quanto riguarda i curdi. Ma se qualcuno vede in tutto questo un disimpegno americano dal Medio Oriente, farà bene a ricredersi. Gli Usa non sono mai stati tanto impegnati in Medio Oriente. Con Trump lo sono molto più di quanto lo fossero con Obama. Basta pensare alle azioni intraprese finora. Dopo l’elezione di Trump la guerra all’Isis è stata molto incrementata, con la finale e sanguinosa (anche a spese dei civili) riconquista di Mosul e Raqqa. In Palestina gli Usa hanno dato un fortissimo scossone alla situazione, spostando l’ambasciata a Gerusalemme, a sua volta riconosciuta come capitale dello Stato di Israelecontro tutta la giurisprudenza internazionale, dando così un riconoscimento di fatto a decenni di insediamenti israeliani illegali. Hanno riarmato l’Arabia Saudita e l’hanno indirizzata verso un’alleanza con Israele, in funzione anti-iraniana, che può diventare potentissima, visto che i sauditi sono ricchissimi e gli israeliani sono abili, militarmente forti e lanciatissimi nel settore tecnologico. Trump ha disdetto, come si diceva, lo storico accordo sul nucleare e ha varato un programma di sanzioni che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe impedire la sopravvivenza economica della Repubblica islamica. E continua a premere sulla Turchia, non solo strillando, per convincerla a tornare all’ovile della fedeltà atlantica.

Tanta roba, e roba pesante. Così greve da far sembrare i curdi del Rojava, con i loro ideali di democrazia dal basso, parità tra uomini e donne, rispetto dell’ambiente e pluralismo religioso, dentro il “confederalismo democratico” teorizzato da Abdullah Ocalan, una lieve, impalpabile e ininfluente piuma al vento.

 

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