Foto di Abed Zagout/Electronic Intifada

 

https://electronicintifada.net/

http://www.infopal.it/

10/6/2019

 

Sfidare i proiettili d’Israele da un anno

di Sarah Algherbawi

Traduzione di Chiara Parisi

 

Atia Younis, 67 anni, partecipa ogni venerdì alle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno a Gaza, da quando queste sono iniziate, il 30 marzo 2018. Ne ha saltata solo una, nel luglio 2018, dopo aver inalato i gas lacrimogeni lanciati dalle forze israeliane. L’esposizione a quest’arma chimica l’ha fatto ammalare per una settimana nel corso della quale ha sofferto di spasmi muscolari.

 

E’ stata un’esperienza spaventosa.

Younis aveva portato con sé 14 dei suoi nipoti in una tenda costruita a quasi 500 metri dalla barriera di separazione tra Gaza e Israele. Cantavano canzoni patriottiche e giocavano a chi conoscesse più nomi di luoghi palestinesi, quando l’esercito israeliano ha iniziato a sparare nella loro direzione.

“I miei nipoti hanno cominciato a gridare e correre”, dice Younis, che vive a Rafah, la città più al sud di Gaza.

Nel panico, Younis ha lasciato la tenda per cercare di capire dove fossero i suoi nipoti.

“All’inizio ne ha trovati soltanto 4. Mi sentivo impotente, tutti scappavano dal fumo e c’era una grande confusione. Ho continuato a chiamare i miei nipoti. Pregavo Dio di non perderne neanche uno”.

Ci sono voluti 30 minuti prima che riuscisse a intravedere qualcosa in quella nebbia bianca di gas lacrimogeni. Fortunatamente, tutti i suoi nipoti erano sani e salvi.

“A un certo momento mi sono chiesto se avessi sbagliato a portare i bambini (alla manifestazione)”, ha dichiarato Younis. Ma dopo aver riflettuto si è reso conto di non averli messi in pericolo.

Come la maggioranza degli abitanti di Gaza, Younis è un rifugiato. La sua famiglia è originaria di Barbara un villaggio della Palestina storica che ha subito la pulizia etnica da parte dell’esercito israeliano nel 1948. Le manifestazioni settimanali vogliono affermare il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare nelle loro città e villaggi da dove sono stati espulsi insieme ai loro cari. Questo diritto è stato riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Younis racconta che la marcia ha continuato nonostante l’estrema violenza di Israele, prova della sua efficacia. “Ma Gaza ha comunque bisogno del sostegno della Cisgiordania e dei Paesi Arabi”, ha dichiarato.

 

Leggere per i propri diritti.

Mustafa al-Zatma, un altro residente di Rafah, di 28 anni, è ingegnere nel settore privato. “Ho un buon lavoro qui e vorrei lavorare in una società internazionale di ingegneria”, ha dichiarato. “Mi piace la mia vita ma questo non mi impedisce di partecipare alla marcia, insieme al mio popolo, per esigere il diritto al ritorno”.

La sua famiglia è originaria della cittadina di Al Majdal di cui le truppe israeliane si impossessarono nel novembre 1948. La città israeliana di Ashkelon è stata costruita sulle sue rovine. Nel corso delle manifestazioni settimanali, al-Zatma ha organizzato con i suoi amici una catena di letture, che consiste nel restare seduti in cerchio e aprire dei libri a circa 700 metri dal recinto.

“Quest’evento è un messaggio per il mondo interno, per dire che le persone che partecipano alla Marcia per il Ritorno sono delle persone istruite, coscienti dei diritti dei palestinesi”, ha dichiarato.

La distanza dal recinto e il fatto che l’attività sia chiaramente pacifica non ha impedito a Israele di sparare dei gas lacrimogeni nella direzione dei lettori.

Nonostante sia “totalmente” favorevole alla Marcia, al-Zatma crede che gli organizzatori debbano impedire ai bambini di partecipare, in quanto: “I bambini sono bersaglio dei cecchini israeliani”.

Circa 200 Palestinesi sono stati uccisi durante le manifestazioni settimanali dal loro inizio alla fine del mese di marzo 2018. Più di 40 erano bambini.

 

“Ho visto Azzam cadere”.

Iyad Barbakh, 12 anni, non è d’accordo con la proposta secondo la quale i bambini non dovrebbero partecipare. “Se mi si impedirà di partecipare alla marcia, troverò comunque il modo per farlo”, ha dichiarato. “Vado alla marcia per rivendicare gli stessi diritti che qualsiasi altro bambino al mondo”.

La cosa peggiore accaduta a Ilyad nel corso dello scorso anno è stato quando il suo amico Azzam Oweida, ferito da un proiettile israeliano, è deceduto poco dopo.

“Ho visto Azzam cadere per terra, con il viso ricoperto di sangue”, dice Iyad. “Non lo dimenticherò mai”.

Anche Iyad è stato ferito due volte durante le manifestazioni. La prima volta è stato colpito da una granata lacrimogena e ha dovuto essere medicato per ustioni. La seconda volta, nel febbraio scorso, è stato ferito da un proiettile alla gamba e al braccio. Ha continuato a partecipare alle manifestazioni malgrado queste ferite.

 

Testimoniare.

Due donne e una ragazza sono state uccise durante le manifestazioni settimanali. Malina al-Hindy partecipa alle manifestazioni con suo marito e i suoi figli. “Le donne sono sempre state accanto agli uomini nella resistenza palestinese”, ha dichiarato. “E’ un nostro dovere partecipare alla marcia”.

Al-Hindy ha pagato il prezzo del suo coraggio. E’ stata ferita tre volte da granate lacrimogene e due da proiettili nel corso dell’anno.

L’uccisione che ha fatto molto scalpore nella comunità internazionale è quella di Razan al-Najjar. Volontaria per il soccorso, è stata uccisa da un cecchino israeliano nel giugno 2018 mentre si stava occupando dei manifestanti feriti.

Quest’uccisione mostra fino a che punto il personale medico lavori in condizioni estreme.

Alaa al-Ajramy, 34 anni, fa parte della squadra di pronto soccorso e come gli altri ha avuto molto da fare in ognuna delle manifestazioni settimanali. Ha ammesso di sentire una grande pressione durante le otto ore di lavoro il venerdì.

“Non ho paura della morte né di non rivedere più i miei quattro figli”, ha dichiarato “ma non posso immaginare di essere uno di questi giovani che ha perso l’uso di un braccio o di una gamba”.

Il ministero della Salute di Gaza ha dichiarato che sono state registrate più di 100 amputazioni dovute a ferite inflitte ai manifestanti, di cui 25 sono bambini.

L’esperienza più triste di cui Al-Aramy è stato testimone è stato l’assassinio del suo collega Musa Jaber Abu Hassanein nel maggio 2018.

“Il mio amico ha perso sangue per 15 minuti”, dice Al-Aramy. “E durante questo periodo di tempo, non abbiamo potuto avvicinarci a causa dei proiettili sparati nella sua direzione. Non siamo potuti intervenire per salvargli la vita”.

Anche i giornalisti sono in pericolo durante le manifestazioni. Due sono stati uccisi mentre coprivano le manifestazioni. La loro morte non ha dissuaso i colleghi dal raccontare tutta la crudeltà di Israele. La sola protezione accordata a un giornalista è che l’agenzia stampa per la quale lavora pubblica i suoi reportage senza nominarlo.

Il giornalista ha spiegato che il suo giorno peggiore è stato quando Israele ha massacrato circa 60 manifestanti, l’anno scorso, il 14 maggio. Lavorava a est di Gaza quando l’esercito israeliano ha aperto il fuoco.

“Ad un tratto – racconta -, tutti attorno a me sono caduti per terra. Alcuni erano stati colpiti alla testa, altri al braccio o alla gamba. E’ stata dura. Ho acceso la mia telecamera e strisciato tra la folla”.

Ammirato dai suoi colleghi per il suo coraggio, il giornalista si è avventurato a meno di 100 metri dal recinto. “Mi avvicino al recinto per potermi avvicinare ai manifestanti”, ha dichiarato. “Cerco di documentare i crimini di Israele contro queste persone”.

 

top