Fonte: la Jornada

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17 Ottobre 2019

 

Quito. La fine della stabilità sistemica

di Raúl Zibechi

Traduzione di Marco Calabria

 

Foto tratte dal Fb Conaie Comunicación

 

Il levantamiento popolare dell’Ecuador – segnato dalla straordinaria convergenza di movimenti indigeni, studenteschi, femministi e di diverse categorie di lavoratori con un fiume di gente comune – ha messo alle corde il governo di Lenín Moreno fino a costringerlo, dopo aver proclamato lo stato d’emergenza nazionale, a fuggire dalla capitale per rifugiarsi a Guayaquil. La repressione è stata violentissima ma la protesta ha retto lo scontro e il 15 ottobre ha ottenuto una prima grande vittoria con la revoca delle misure economiche suggerite dal Fondo Monetario Internazionale. Quella ecuadoriana, scrive Raúl Zibechi, è una crisi strutturale della governabilità. Rivela con una certa evidenza, e probabilmente non solo in América Latina, la fine di un ciclo e l’apertura di una fase di grande instabilità del sistema. È assai probabile che molti dei prossimi governi, al di là del colore politico che diranno di voler incarnare, abbiano vita breve. A differenza che nel precedente ciclo progressista, essi non potranno avvalersi dei prezzi alti delle materie prime, difficilmente, dunque, potranno mettere in atto politiche sociali senza intaccare la ricchezza. Ne consegue un approfondimento del modello estrattivista e una intensificazione dell’appropriazione di quel che serve ad accumulare, dalle politiche di saccheggio delle risorse naturali al tempo di vita delle persone. Soltanto un nuovo protagonismo delle lotte di persone comuni organizzate potrà difendere l’affermazione delle dignità nel vortice del caos sistemico

 

I successi che sta vivendo l’Ecuador mostrano una profonda instabilità che va molto al di là della congiuntura e che colpisce tutta la regione. Il governo di Lenín Moreno ha deciso di imporre un pacchetto di misure, consigliate dal Fondo Monetario Internazionale, che comporta la fine dei sussidi per i combustibili, con un aumento del 123 per cento del prezzo del gallone del diesel e del 30 per cento di quello della benzina. A quelle misure si accompagnano delle riforme sul lavoro e tributarie, sempre con il fine di aumentare le entrate.

All’inizo la mobilitazione ha riguardato la categoria dei trasportatori, ma presto ad essa si sono uniti i maggiori movimenti del paese, per lo più in segno di protesta contro il decreto che impone lo stato di emergenza, la sospensione delle garanzie democratiche e la militarizzazione dell’Ecuador.

La Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE), la centrale Frente Unitario de los Trabajadores, i sindacati degli insegnanti e la federazione degli studenti universitari hanno promosso mobilitazioni in tutta la nazione, specialmente nella sierra (le regioni della Cordigliera Andina, ndt), con 300 blocchi stradali, dove i popoli indigeni hanno maggiore presenza, e a Quito, l’epicentro dei conflitti sociali.

Decine di gruppi di donne, femministe, lesbiche, nere, ecologiste e trans, hanno stilato un comunicato intitolato Mujeres contra el Paquetazo, nel quale denunciano la repressione che ha prodotto centinaia di feriti e detenuti, tra i quali il coordinatore del Pachakutik, Marlon Santi, e altri dirigenti giovanili della CONAIE.

 

La protesta ecuadoriana non è solo una reazione contro l’aumento del prezzo dei combustibili. È una reazione al malgoverno di Moreno, che si è inchinato ai grandi gruppi imprenditoriali, finanziari e mediatici, in continuità con la resistenza nei confronti del regime autoritario di Rafael Correa (2007-2017).

In effetti, molti ricordano il ciclo di proteste effettuate tra tra il giugno e il dicembre del 2015, contro le misure del governo per attenuare la caduta del prezzo del petrolio, che rappresenta più del 40 per cento delle esportazioni. In quel momento, i livelli della repressione furono molto simili a quelli attuali, sebbene Correa non decretò lo stato di emergenza in tutto il paese.

Per valutare la crisi ecuadoriana, come crisi della governabilità, dobbiamo risalire a sei anni fa. Nel 2013 abbiamo parlato della fine del consenso “lulista”, come conseguenza dell’ondata di mobilitazioni conosciute come Giugno 2013, che segnarono il tramonto del governo di Luiz Inácio Lula da Silva e l’inizio della fine del ciclo progressista nella regione.

Due anni più tardi, con la sconfitta elettorale del kirchnerismo in Argentina, divenne evidente come si accelerasse la fine del progressismo, scandita da una nuova fase dei movimenti che si stanno espandendo, consolidando e stanno modificando le loro stesse realtà. Una delle principali caratteristiche del nuovo periodo conservatore, o di destra, è l’evaporazione della governabilità e l’ingresso in un periodo di instabilità sistemica.

 

A mo’ di promemoria, vorrei sottolineare alcune delle caratteristiche del periodo che viviamo in América Latina, e che adesso emergono in modo trasparente in Ecuador.

La prima è il protagonismo dei movimenti, cioè della gente comune organizzata e mobilitata. Questo è l’aspetto centrale. Se la fine del ciclo progressista fu annunciata dalle gigantesche mobilitazioni del Giugno 2013 tenute durante un mese in più di 350 città del Brasile, il tramonto delle nuove destre è stato annunciato dalle mobilitazioni contro la riforma delle pensioni intorno al Congresso di Buenos Aires nel dicembre 2017, sotto il governo di Mauricio Macri.

Dopo una fenomenale battaglia campale in cui quasi 200 persone sono state ferite in poche ore dalla polizia, i media rilevarono: l’Argentina si sta dimostrando ancora una volta il paese dell’América Latina dove è più difficile portare avanti le riforme impopolari. Non è un caso che pochi mesi dopo sarebbe cominciata l’ascesa del dollaro che ha seppellito il governo macrista.

 

La seconda caratteristica è che la fine della governabilità, specifica dei primi anni del progressismo, è di carattere strutturale e ha poche relazioni con i governi. Il ciclo progressista si è fondato con gli alti prezzi delle commodities, con i grandi avanzi commerciali che hanno lubrificato le politiche sociali. Migliorare le entrate dei più poveri senza toccare la ricchezza dei paesi è stato il miracolo progressista.

Quel consenso è finito con la crisi del 2008, la guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina non fa che approfondire l’instabilità. Non è possibile continuare a migliorare la situazione dei settori popolari senza toccare la ricchezza e i governi che si dicono progressisti non faranno altro che approfondire l’estrattivismo e la spoliazione dei popoli: Andrés Manuel López Obrador e il possibile governo di Alberto Fernández sono parte di questa realtà.

Il panorama dei prossimi anni vedrà succedersi molti governi, progressisti e conservatori, con uno scenario di fondo di vaste mobilitazioni popolari. Si tratta della fine della stabilità, di qualsiasi colore essa sia.

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