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05-03-19 - n. 704

Washington: di fallimento in fallimento
di Atilio Boron

Sociologo, politologo, cattedratico e scrittore argentino
Traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria "G.Tagarelli"


Lo scorso fine settimana è stato terribile per la Casa Bianca ed i suoi impresentabili capetti del sud del Rio Bravo, il giustamente chiamato "cartello" di Lima visti gli stretti rapporti che alcuni dei governi che lo compongono hanno con il narcotraffico, in particolare quello colombiano e, prima dell'elezione di Lòpez Obrador, quello di Peña Nieto in Messico.

Il sabato gli strateghi statunitensi avevano deciso di organizzare, per il 23 febbraio, un concerto con alcune delle celebrità consacrate dall'industria musicale di Miami.  L'evento ha attirato circa 25.000 persone, un decimo di quanto sperato, divise gerarchicamente in due categorie chiaramente marcate. Il settore VIP dove sono andati i presidenti - Duque, Piñera, Abdo Benítez - i ministri e i gerarchi del cartello e, duecento metri più indietro (sic!) il resto del pubblico (vedere: http://www.laiguana.tv/articulos/438246-concierto-aid-live-fotos-tarima-vip-publico-general/).

L'organizzatore e finanziatore dello spettacolo è il magnate britannico Richard Branson, un noto evasore fiscale e molestatore sessuale che ha ingaggiato una serie di cantanti e gruppi di destra tra i quali Reymar Perdomo, "El Puma" Rodríguez, Chino, Ricardo Montaner, Diego Torres, Miguel Bosé, Maluma, Nacho, Luis Fonsi, Carlos Vives, Juan Luis Guerra, Juanes, Maná e Alejandro Sanz, che hanno combattuto con fierezza per vedere chi si sarebbe preso l'Oscar del più grande babbeo dell'impero.

Si pensava che questo concerto avrebbe creato il clima necessario per facilitare l'ingresso degli "aiuti umanitari" preparato a Cùcuta dagli statunitensi e dai loro servi del regime colombiano. Ma non è stato così, e per varie ragioni.

Primo perché, come afferma la Croce Rossa, si possono inviare quel tipo di aiuti, attentamente contabilizzati (cosa che non è stata fatta), solo se lo richiede il governo del paese che riceverà il carico. In questo stesso senso si è espresso il Segretario Generale dell'ONU, Antonio Gutérrez.

E, secondo, perché il governo bolivariano non lo ha fatto perché sapeva molto bene che gli Stati Uniti utilizzano questi "aiuti" per introdurre spie, agenti coperti travestiti da medici e assistenti sociali e paramilitari nel territorio dei loro nemici e, ovviamente, non intendeva permettere questa mossa.

Oltretutto, se effettivamente la Casa Bianca avesse un  interesse genuino nell'offrire aiuti per alleviare le sofferenze della popolazione venezuelana, ha nelle sue mani uno strumento molto più semplice ed efficace: togliere le sanzioni con le quali sta opprimendo la Repubblica Bolivariana, o abolire il veto che impone sulle relazioni commerciali internazionali; o restituire gli enormi attivi delle società pubbliche del paese confiscati, con un atto che si può definire solo furto, per decisione del governo di Donald Trump o di autorità come quelle della Banca d'Inghilterra, che si è appropriata dell'oro venezuelano depositato nella sua sede, valutato in qualcosa di più di 1.700 milioni di dollari.

La rabbiosa reazione della destra davanti al fallimento dell'operazione "aiuti umanitari" è stata grande. Lo stesso narco-presidente Ivàn Duque salutava dall'alto del ponte internazionale le bande di delinquenti ingaggiati per produrre violenze mentre preparavano le bombe molotov e ungevano le loro armi.

Quando, davanti alla ferma resistenza dei civili e dei militari bolivariani, si è consumato il fallimento dell'operazione nordamericana, i delinquenti, protetti dalla Polizia Nazionale della Colombia, hanno preso d'assalto il ponte e hanno incendiato i camion che portavano gli "aiuti umanitari".

Com'era da prevedere, la stampa ha incolpato del fatto il governo venezuelano: qui ci sono le foto pubblicate da tutta la canaglia mediatica con le conseguenti epigrafi che satanizzano la barbarie chavista e nascondono i veri responsabili della barbarie (v. video sul tema in https://youtu.be/fxTDm11_rmE).

Intanto, in perfetta coordinazione, gli occupanti di un blindato della polizia bolivariana si scagliano contro una palizzata che c'era sul ponte per facilitare la "spontanea" diserzione di tre poliziotti che chiedono asilo  nella tranquilla e prospera Colombia.

La stampa, però, non ha detto nulla degli attenti "direttori di scena" che, dal lato colombiano del ponte, indicavano ai disertori come agire, da dove entrare, che dire e gridavano loro "alza l'arma, alza l'arma!" perché si vedesse chiaramente che erano poliziotti o militari bolivariani che fuggivano dalla "dittatura" di Maduro. Tutto questo è documentato chiarissimamente in un video che, naturalmente, la "stampa seria" ha accuratamente riprodotto.

Riassumendo, un fiasco diplomatico enorme e inoccultabile che, per disgrazia della truppa comandata da Trump, sarebbe stato solo il preludio ad un altro ancora peggiore.

Ci riferiamo alla tanto pubblicizzata riunione del Cartello di Lima a Bogotà che, a suo eterno disonore, è stata presieduta dal vice-presidente degli USA, Mike Pence, a dimostrazione della natura patriottica e democratica dell'opposizione venezuelana. Il vice di Trump è arrivato a Bogotà per riunirsi - a patetica dimostrazione del vertiginoso declino dell'allora enorme potere statunitense nella regione - con un gruppo di seguaci. In altri tempi l'arrivo di un emissario di altissimo livello della Casa Bianca avrebbe causato un trascinante "effetto mandria" e, uno dopo l'altro, tutti i nefasti presidenti neocoloniali sarebbero corsi a frotte per arrivare il prima possibile ai baciamano ufficiali. Ma i tempi sono cambiati e Pence ha solo potuto stringere le mani al suo screditato anfitrione e al comico buffone del magnate newyorkese, l'auto-proclamato "Presidente Incaricato" Juan Guaidò. Gli altri erano personaggi di rango inferiore: cancellieri e vice-cancellieri che, con la faccia di circostanza, hanno ascoltato con finta solennità la lettura dell'atto di morte del piano golpista statunitense e, probabilmente, anche del Cartello di Lima, data la sua dimostrata inutilità. Il documento, letto fiaccamente in un clima depresso, tornava al punto di partenza e rinviava la questione al labirinto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU.

Un fallimento gigantesco del governo degli Stati Uniti in un'area che qualche troglodita del nord ha chiamato non solo "cortile di dietro" ma "porta posteriore". I tempi per "l'uscita" di Maduro (posti prima da Pedro Sànchez da Madrid e poi reiterati da Trump, Pompeo, Pence, Bolton e da tutti i falchi che oggi si rifugiano sotto l'ala del presidente nordamericano) sono svaniti come nebbia al sole ardente dei Caraibi venezuelani.

Non solo questo; davanti alle evidenti prove del declino del potere imperiale, i servitori neocoloniali hanno scelto di mettersi in salvo dal disastro e, con un gesto inaspettato, hanno dichiarato la loro opposizione ad un intervento militare in Venezuela. I bravi guerrieri del sud hanno capito che, nei loro paesi, un intervento yankee in Venezuela - anche sotto l'infruttuosa copertura di una operazione di "forze congiunte" con militari colombiani o di altri paesi - sarebbe impopolare e procurerebbe loro seri costi politici e hanno scelto di salvare le loro esposte pelli e lasciare che sia Washington ad occuparsi dell'affare.

Cosa può fare adesso Trump? Vittima dei suoi sproloqui e della brutalità dei torvi gangsters che lo consigliano, tirerà ora fuori l'ultima carta del mazzo, l'opzione militare, quella che è sempre stata sul tavolo? Difficile che un personaggio come lui ammetta una così impressionante sconfitta diplomatica e politica senza un gesto violenta, una pugnalata  vigliacca. Quindi non bisognerebbe scartare tale possibilità, anche se io credo che la probabilità di un'invasione stile Santo Domingo 1965 o Panama 1989 sia molto bassa. Il Pentagono sa che il Venezuela non è disarmato e che un'incursione nella terra di Bolìvar e Chàvez non sarebbe lo stesso che l'invasione della inerme Granada del 1983 e darebbe luogo a molte perdite tra gli invasori.

Scenari alternativi:  a) provocare scaramucce o fare bombardamenti tattici sulla lunga e incontrollabile frontiera colombiano/venezuelana;  b) salire di livello e attaccare obiettivi militari all'interno del territorio venezuelano, sfidando però una rappresaglia bolivariana che potrebbe essere molto distruttiva e raggiungere, anche, le basi che gli USA hanno in Colombia o quelle della NATO ad Aruba e Curazao; oppure  c) sacrificare Juan Guaidò, eliminandolo data l'inutilità della manovra, e incolpare della sua morte il governo bolivariano. Con questo si cercherebbe di creare un clima mondiale di rifiuto che giustificherebbe, con l'aiuto della stampa canaglia, un'operazione militare su larga scala. E' chiaro che questo sarebbe un gioco di altissimo costo politico perché la credibilità del governo degli Stati Uniti a fronte di un fatto di questo tipo è uguale a zero.

Se Washington fece saltare la corazzata Maine nella baia dell'Avana nel 1898 (mandando a morte 254 marinai) per giustificare la dichiarazione di guerra contro la Spagna e prendersi Cuba; se per entrare nella 2° Guerra Mondiale il presidente Franklin D. Roosevelt acconsentì a permettere che l'Armata Imperiale giapponese attaccasse "a sorpresa" Pearl Harbour nel dicembre 1941 causando la morte di circa 2.500 marinai e il ferimento di altri 1.300, chi potrebbe credere che, se a Guaidò succedesse qualcosa di male - cosa che nessuno desidera - il colpevole potrebbe essere qualcun altro e non il governo degli Stati Uniti?

I prossimi giorni questa incognita comincerà a svelarsi. La cosa certa, tuttavia, è che per ora tutta l'operazione golpista architettata dai falchi di Washington è passata di fallimento in fallimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


http://www.antoniomoscato.altervista.org/index.php

Giovedì 07 Marzo 2019

 

Venezuela: lo stallo

di Antonio Moscato

 

Se era il risultato di una accurata preparazione da parte degli organi speciali del più grande Stato imperialista, faceva proprio pena, e non solo per l’inconsistenza di Gaidó, che i sostenitori di Maduro presentano come il risultato di un lungo addestramento da parte dei suoi mandanti imperialisti, ma che è risultato per ora un fantoccio inconsistente, con un bilancio di fallimenti notevole. Incapace di valutare le forze in campo, pronto ad esaltarsi per poche dozzine di militari e poliziotti risultati disposti a disertare, Gaidó ha sprecato il mese che gli era concesso dalla costituzione per svolgere il compito di preparare elezioni in quanto presidente ad interim, sia pur autoproclamato, e si è illuso di poter usare le misere donazioni statunitensi ed europee come esca per mobilitare sotto le sue bandiere milioni di malcontenti. Incapace di far altro che aspettare un più consistente aiuto esterno, si è accorto che il Venezuela era l’ultimo pensiero dei governi europei, che non si sognavano minimamente di dare un seguito al grottesco ultimatum delle elezioni da convocare in una settimana, e che gli Stati Uniti non avevano voglia di impegnarsi in un’azione militare in compagnia soltanto della poco rispettabile Colombia di Duque e del Cile del pinochettista Piñera, dato che perfino l’esercito brasiliano rifiutava di partecipare a un’impresa dall’esito imprevedibile.

Se più che a un “golpe” fallito la lunga serie di manifestazioni contrapposte (ma a distanza di sicurezza) nelle strade di Caracas, o i mega concerti dai due lati di un ponte di confine, facevano pensare a una farsa, in realtà confermavano semplicemente che il Venezuela è irreparabilmente spaccato in due parti quasi equivalenti., e che quindi bisogna rassegnarsi a cercare un modus vivendi, a partire da regole condivise.

Chávez aveva cercato di risolvere la questione prevedendo nella costituzione e realizzando frequenti referendum, anche se il clima era stato avvelenato dal tentativo di golpe dell’11 aprile 2002, quello sì un golpe classico, da manuale, che accanto a un settore non trascurabile dell’esercito vedeva schierati l’associazione degli industriali, la chiesa, pressoché tutti i mass media e naturalmente gli Stati Uniti, ma che aveva provocato una fulminea mobilitazione imprevista di milioni di abitanti dei quartieri poverissimi aggrappati ai monti che assediano la capitale. A mani nude, ma capaci di conquistare i cuori e i cervelli di soldati e anche di molti ufficiali incerti, e di terrorizzare i golpisti, che sapevano di non poter fronteggiare una mobilitazione così vasta. Per questo il risultato del golpe fu così diverso da quello contro Salvador Allende in Cile nel 1973

(come ricostruiva efficacemente dieci anni dopo uno storico,

http://www.gennarocarotenuto.it/18101-dieci-an
-ni-fa-falliva-il-golpe-in-venezuela-contro-hugo-chvez/
 ).

 

Sull’onda di quella svolta imprevista Chávez si radicalizzò, sia a livello internazionale, sia all’interno, dove fu costretto a fronteggiare una serrata padronale (con ampie complicità sindacali) con misure energiche, ma sempre senza rinunciare alla conferma da parte di un voto popolare. E Chávez vinse tutte le elezioni al cui giudizio si sottopose, tranne un referendum che aveva proposto per modificare una settantina di emendamenti alla sua stessa costituzione allarmando parte della sua stessa base. In quel referendum perse ma non si sognò di metterne in discussione il risultato, che era dovuto d’altra parte all’errore tattico di mettere insieme problemi diversissimi che non era facile distinguere. Sintomatico però che il risultato delle elezioni presidenziali era stato sempre nettissimo a suo favore, mentre in quelle per l’Assemblea nazionale o per i governatori i margini si riducevano ovunque e intere città o regioni si schieravano con l’opposizione. Alcuni dei suoi collaboratori, in particolare Diosdato Cabello, oggi presidente della discussa Assemblea costituente, considerati esponenti della “Boliborghesia” corrotta, avevano collezionato non poche sconfitte, perché colpiti dall’astensione massiccia del loro elettorato: a volte il burocratizzatissimo PSUV ha ottenuto due o anche tre milioni di voti in meno del numero di iscritti nominali. La destra periodicamente si riuniva per poi dividersi e ritirarsi subito dopo, non senza aver preso l’iniziativa di inquietanti scontri di piazza.

Ho voluto ricordare questi dati per sottolineare che sul terreno del rispetto delle forme democratiche l’operato di Chávez era ineccepibile, a differenza di quello che si verificherà sotto la presidenza di Maduro. Su questo si fa spesso confusione, parlando di controllo di osservatori internazionali, e di strumenti elettronici per garantire l’assenza di brogli come se fossero uguali nei due periodi. La cesura avviene dopo la morte di Chávez, quando Maduro viene eletto presidente di strettissima misura, e tra gli strati popolari serpeggia il malcontento per il peggioramento della situazione economica, la penuria di molti beni essenziali e la corruzione dilagante, che Chávez aveva più volte denunciato negli ultimi anni, promettendo un “colpo di timone”, senza riuscire però ad arrestarla o almeno arginarla. Le ultime elezioni regolari si svolgono il 6 dicembre 2015, e vedono il trionfo dell’opposizione che ottiene i due terzi dei seggi, che consentirebbero anche di votare l’amnistia per i due più importanti esponenti in carcere: Leopoldo López, leader di "Voluntad Popular", il gruppo più radicale dell'opposizione, e Antonio Ledezma, ex sindaco di Caracas. I due (insieme a centinaia di altri meno noti) erano stati condannati come responsabili delle violente proteste di piazza contro il comportamento del CNE (Consiglio Nazionale Elettorale) che ha prolungato a suo piacere i controlli dei milioni di firme raccolte per un referendum revocativo (previsto dalla costituzione, e a cui lo stesso Chávez si sottopose), fino a far scadere i tempi. Il CNE e il TSJ (Tribunale Supremo di Giustizia) sono gli strumenti preferiti da Maduro, a cui rispondono e che li ha nominati, per forzare la costituzione: sono loro che si sono affrettati a dichiarare nulla la elezione di tre deputati nella periferica Amazonas in modo che l’ex opposizione non avesse più il 66% dei seggi scaturito dalle urne. E l’opposizione si è incaponita a pretendere l’annullamento della decisione, invece di usare il suo non trascurabile 60% di deputati rimasti.

Da quel momento non c’è più nessuna continuità tra il comportamento del governo guidato da Maduro e quello di Chávez. Le mosse successive del governo sono scopertamente faziose: si rinviano le elezioni dei governatori a lungo, poi vengono fissate con un preavviso insufficiente a consentire riunioni dei molti partiti di opposizione (nella MUD, la Mesa de Unidad Democratica, ce n’erano una ventina) per scegliere i candidati, e concordare le desistenze, col risultato che molti partiti rifiutano il voto, cadendo ancora una volta nella trappola predisposta. Viene poi inventata un’Assemblea Nazionale Costituente eletta con nuovi criteri, mai discussi pubblicamente ma calati dall’alto in un discorso di Maduro per il 1° maggio. La compagnia che aveva sempre curato la parte informatica delle elezioni sotto Chávez si ritira poi al momento di un referendum che dovrebbe approvare la nuova Assemblea costituente, sostenendo di non aver notizia di almeno un milione di voti tra quelli vantati da Maduro. Naturalmente gli intellettuali europei o latinoamericani bendisposti che vengono chiamati a verificare la regolarità del voto visitando qualche seggio elettorale, sono contenti del loro ruolo, senza porsi problemi sull’assenza di scrutatori e osservatori dell’opposizione.

Ma c’è qualcosa che non torna, e i nodi vengono rapidamente al pettine. La situazione economica continua a precipitare e le proteste coinvolgono anche alcuni dei quartieri poveri che erano sempre stati la forza del chavismo. Non significano il passaggio alla destra, ma sono proteste contro il governo. La versione dei difensori incondizionati di Maduro attribuisce lo sfacelo economico esclusivamente alla “guerra economica”, e porta l’esempio delle sanzioni o peggio ancora del sequestro dell’oro venezuelano depositato nella Banca di Inghilterra, che è vero ed è effettivamente una spudorata rapina, ma non è la causa di un dissesto iniziato già nell’ultima fase della vita di Chávez, e che si è aggravato poi di anno in anno ben prima che gli effetti delle sanzioni raggiungessero la popolazione. 

Non mi dilungo su questo ma rinvio a due testi di venezuelani riportati (insieme a molti altri) sul mio sito: Venezuela: il fallimento del processo bolivariano e VENEZUELA – Sono contro un’invasione militare, ma non posso applaudire questo governo e anche alla seconda parte dell’articolo Venezuela: Lineamenti per un’analisi marxista di marxpedia.org che invece nella prima parte non mi convince del tutto nella ricostruzione delle vicende elettorali, di cui sottovaluta la discontinuità successiva allo shock del 2015. Ma effettivamente si tratta di una questione relativamente secondaria, dato che non ha nulla a che vedere con le vere ragioni del progetto statunitense di insediare Guaidó alla presidenza al posto di Maduro.

Purtroppo vari settori della cosiddetta “sinistra alternativa” nella ricostruzione del quadro politico successivo alla morte di Chávez non hanno dubbi sulla colpevolezza di tutti gli oppositori arrestati e sulla fondatezza delle accuse avallate da una magistratura superiore che risponde esclusivamente a Maduro. In realtà vari magistrati che avevano collaborato per anni con Chávez sono stati destituiti e minacciati di arresto o di ricovero in ospedale psichiatrico, a partire dalla Fiscal general Luisa Ortega che ha dovuto andarsene in esilio.

E con perfetto stile staliniano quasi tutti i ministri chavisti che si sono dimessi sotto Maduro, che sono tanti, sono stati accusati di vari reati comuni. Ad esempio Rafael Ramírez, per dieci anni ministro del petrolio e presidente della PDVSA, poi spostato da Maduro prima all’incarico di ministro degli Esteri, poi di ambasciatore alle Nazioni Unite è stato accusato di corruzione nonostante nella Banca Privata di Andorra che ospitava i cospicui risparmi di parecchi ministri la giudice anticorruzione di quel piccolo ex paradiso fiscale, Canòlic Mingorance, non abbia trovato tracce che portino a lui. 

 

https://elpais.com/internacional/2017/12/13/actua-lidad/1513189655_511418.html?rel=mas

 

In ogni caso il vero problema è lontano dal poter essere risolto, perché troppi esponenti politici ed economici ne beneficiano: è il sistema di cambi agevolati grazie al quale gli imprenditori hanno potuto accedere alla valuta (ottenuta con la vendita del petrolio) per comprare prodotti a prezzi convenienti sul mercato internazionale o per fare investimenti, mentre sono serviti e servono a innescare una gigantesca speculazione. Difficile cambiare qualcosa in questa fase, in cui la grandissima maggioranza delle grandi imprese sono state lasciate nelle mani dei privati, consentendo loro di controllare di fatto l’intero sistema economico (e lasciando loro poi gioco facile per organizzare il boicottaggio). Difficile sradicare la corruzione, se è gestita da un nuovo consistente strato borghese, la cosiddetta “boliborghesia”, un settore di imprenditori e dirigenti di pseudo-cooperative e di imprese fantasma strettamente legati al governo ma responsabili primi della crescente corruzione facilitata dalla mancanza di un reale controllo dei lavoratori sul potere politico ed economico. Anche dove dopo lunghe lotte si è ottenuta la nazionalizzazione di un importante stabilimento siderurgico (la SIDOR) i dirigenti statali sovrapposti ai lavoratori hanno impedito di raccogliere i frutti di una lunga mobilitazione.

In poche parole, a differenza di Cuba, in Venezuela, come in Brasile, in Ecuador o in Bolivia, lo Stato borghese non è stato toccato nelle sue istituzioni fondamentali dai governi “progressisti” degli ultimi quindici anni. Nasconderlo abbellendo la realtà rende più difficile preparare una controffensiva. 

Ma intanto il compito più urgente in Venezuela è evitare che una provocazione o un errore di valutazione delle forze inneschi una vera guerra civile. Per questo, invece di schierarsi a favore di una delle due parti, bisogna rendersi conto che nessuna soluzione al conflitto venezuelano potrà esserci senza un dialogo tra di loro e la ricerca di una soluzione equa come la rielezione contemporanea dell’Assemblea Nazionale e del presidente, con regole condivise e sotto il controllo di paesi realmente neutrali come il Messico e l’Uruguay. In ciascuno dei due schieramenti covano rancori profondi, ciascuno ha contato i suoi morti e ignorato quelli dell’altra parte, ciascuno ha forzato i risultati di elezioni non condivise, nessuno insomma è senza colpe. E il gruppo dirigente che pretende di rappresentare il socialismo e l’eredità di Maduro, in realtà ha lasciato per anni briglia sciolta ai capitalisti interni, mentre faceva buoni affari e investimenti negli Stati Uniti e in diversi paesi europei, analogamente a quanto avevano fatto in passato altri leader trasformati poi in capri espiatori e in pretesti per un intervento, come Noriega o Saddam Hussein.

Per questo la proposta di un dialogo scandalizza solo chi crede alla propaganda demonizzante di ciascuna delle due parti, che presentano l’avversario a tinte fosche (per Maduro e Cabello gli oppositori sarebbero tutti “nazisti”) mentre è analoga a quella formulata da molti storici collaboratori di Chávez divenuti critici dopo la morte del leader, e subito destituiti dagli incarichi che avevano avuto per anni e che oggi si battono per rilanciare il processo bolivariano. Si dovrebbe pretendere che sia fatta propria dal governo italiano, anche in nome di una consistente e radicata comunità di immigrati che sarebbe travolta se nel paese esplodesse una vera guerra civile.

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