Fonte: asiatimes.com
https://comedonchisciotte.org/

29 Ottobre 2019

 

La fine del Califfo: ‘E’ morto come un cane’

di Pepe Escobar

“È morto come un cane.” Il presidente Trump non avrebbe potuto scrivere una battuta migliore, mentre si preparava per annunciare di persona la notizia, proprio come Obama con bin Laden, di fronte al mondo intero.

 

Abu Bakr al-Baghdadi, il falso Califfo, il leader dell’ISIS/Daesh, l’uomo più ricercato del pianeta, è stato “assicurato alla giustizia” durante il mandato di Trump. Il califfo defunto come un cane è ora diventato l’ultimo, vittorioso trofeo della sua politica estera, prima della rielezione del 2020.

La sceneggiatura delle drammatiche scene del film o della prossima (inevitabile come la morte e le tasse) serie su Netflix è già stata scritta. (Trump: “L’ho guardato come se fosse un film”). Un terrorista super-codardo in fondo ad un tunnel senza uscita, otto elicotteri che gli volteggiano sopra, cani che abbaiano nell’oscurità, tre bambini terrorizzati presi come ostaggi, il codardo che fa esplodere il suo giubbotto imbottito di tritolo, il tunnel che crolla e seppellisce i bambini.

Una squadra forense che porta con sè campioni di DNA del falso califfo e che sembra fare il suo lavoro a tempo di record. I resti dell’obiettivo auto-immolatosi (poi sigillati in sacchetti di plastica) lo confermano: è Baghdadi. Siamo nel cuore della notte, è tempo che la squadra delle forze speciali ritorni ad Irbil, un volo di 70 minuti sulla Siria nord-orientale e sull’Iraq nord-occidentale. Cambio rapido di inquadratura sulla conferenza stampa di Trump. Missione compiuta. Partono i titoli di coda.

Tutto ciò è accaduto in un complesso a 300 metri dal villaggio di Barisha, ad Idlib, nel nord-ovest della Siria, a soli 5 km dal confine tra Siria e Turchia. Il complesso non esiste più: è stato completamente distrutto, per non farlo diventare un santuario (siriano) di un iracheno rinnegato.

Il Califfo era già in fuga, ed era arrivato in questa remota contrada solo 48 ore prima del raid, secondo l’intelligence turca. Una domanda seria è cosa stesse facendo nel nord-ovest della Siria, ad Idlib, in tutto e per tutto una sacca simile a quella del Donbass nel 2014 che l’esercito siriano e le forze aeree russe stanno solo aspettando il momento giusto per estinguere.

Ad Idlib non ci sono praticamente Jihadisti dell’ISIS/Daesh, ma molti appartenenti ad Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente nota come Jabhat al-Nusra, cioè al-Qaeda in Siria, conosciuti all’interno della Beltway come “i ribelli moderati,” tra cui le irriducibili brigate turkmene, precedentemente armate dall’intelligence turca. L’unica spiegazione razionale è che il Califfo abbia considerato questa zona retrostante Idlib, nei pressi di Barisha e lontana dalla zona di guerra, una via di fuga ideale e poco conosciuta per passare in Turchia.

 

I Russi lo sapevano?

La trama si infittisce quando esaminiamo la lunga lista dei “ringraziamenti” di Trump per il successo del raid. La Russia è nominata per prima, seguita dalla Siria (presumibilmente i Curdi siriani, non Damasco), poi Turchia e Iraq. In effetti, ai Curdi siriani, nel discorso di Trump, è stato riconosciuto solo “un certo sostegno.” Il loro comandante, Mazloum Abdi, ha tuttavia preferito definire il raid “un’operazione storica,” [resa possibile] da un indispensabile input dell’intelligence curdo-siriana.

Nella conferenza stampa di Trump, nel corso dei ringraziamenti, la Russia è ritornata al primo posto (“grande collaborazione“), mentre l’Iraq è stato “eccellente,” il servizio di intelligence nazionale iracheno ha successivamente chiarito che la soffiata era arrivata da un Siriano che aveva portato le mogli di due dei fratelli di Baghdadi, Ahmad e Jumah, ad Idlib attraverso la Turchia.

In nessun modo le forze speciali statunitensi avrebbero potuto fare una cosa del genere senza complesse e coordinate informazioni di parte curda, turca, irachena e siriana. In questo modo, il presidente Erdogan realizza un altro capolavoro tattico, facendo la parte del rispettoso, importante alleato della NATO, mentre permette ai resti di al-Qaeda di rimanere al sicuro ad Idlib, sotto lo sguardo attento dell’esercito turco.

E’ significativo che Trump abbia detto di Mosca: “Abbiamo detto loro:” Stiamo arrivando “… e loro hanno risposto: ‘Grazie per avercelo detto’.” Ma, “non sapevano nulla della missione.”

Sicuramente no. In effetti, il Ministero della Difesa Russo, tramite il suo portavoce, il Maggiore Generale Igor Konashenkov, ha dichiarato di non disporre di “informazioni affidabili su truppe statunitensi che abbiano condotto un’operazione per ‘l’ennesima’ eliminazione dell’ex leader del Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, nella parte controllata dalla Turchia della zona di de-escalation di Idlib.”

E sul “abbiamo detto loro” di Trump, il Ministero della Difesa russo è stato chiaro: “Non sappiamo nulla di assistenza al volo a velivoli statunitensi nello spazio aereo della zona di de-escalation di Idlib nel corso di questa operazione.”

Secondo fonti siriane in loco, una voce diffusa ad Idlib è che il “cane morto” a Barisha potrebbe essere Abu Mohammad Salama, il leader di Haras al-Din, un sottogruppo minore di al-Qaeda in Siria. Haras al-Din non ha rilasciato alcuna dichiarazione a riguardo.

L’ISIS/Daesh ha comunque già nominato un successore: Abdullah Qardash, alias Hajji Abdullah al-Afari, anch’egli Iracheno ed ex ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein. Esiste una forte possibilità che ISIS/Daesh ed una miriade di sottogruppi e di varianti di al-Qaeda in Siria  possano ora ricongiungersi, dopo la loro separazione nel 2014.

 

Chi si prende il petrolio?

Non vi è alcuna spiegazione plausibile su come Abu Bakr al-Baghdadi, abbia per anni potuto godere della libertà di spostarsi avanti e indietro tra Siria ed Iraq, eludendo sempre le formidabili capacità di sorveglianza del governo degli Stati Uniti.

Beh, non c’è una spiegazione plausibile nemmeno per quel famoso convoglio di 53 nuovissime Toyota Hi-Luxes bianche che avevano attraversano il deserto, dalla Siria all’Iraq nel 2014, stipate di Jihadisti dell’ISIS/Daesh che, bandiere al vento, erano andati alla conquista di Mosul, invisibili anche alla cornucopia di satelliti statunitensi che coprono il Medio Oriente 24/7.

E non c’è modo di seppellire il promemoria reso pubblico della DIA (Defense Intelligence Agency) americana del 2012 che, esplicitamente, nominava “l’Occidente, le monarchie del Golfo e la Turchia” come [i paesi] favorevoli ad un “principato salafita” in Siria (da contrapporsi, significativamente, a Russia, Cina e Iran, i poli chiave dell’integrazione eurasiatica).

Questo succedeva molto prima dell’irresistibile ascesa dell’ISIS/Daesh. La nota della DIA era inequivocabile: “Se la situazione si svilupperà [nel modo previsto] c’è la possibilità di stabilire un principato salafita, dichiarato o non dichiarato, nella Siria orientale (Hasaka e Der Zor) e questo è esattamente ciò che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione, al fine di isolare il regime siriano, che è considerato la ‘profondità strategica’ dell’espansione sciita (Iraq e Iran).”

È vero, il falso califfo è stato proclamato ‘definitivamente morto’ almeno cinque volte, a partire dal dicembre 2016. Eppure, la tempistica, al momento attuale, non potrebbe essere più conveniente.

I fatti sul terreno, dopo l’ultimo accordo mediato dalla Russia tra Turchi e Curdi siriani, parlano inequivocabilmente del lento ma sicuro ripristino dell’integrità territoriale della Siria. Non ci sarà una balcanizzazione della Siria. L’ultima sacca rimasta di Jihadisti da eliminare è quella di Idlib.

E poi, c’è la questione del petrolio. Il film “morto come un cane” seppellisce, letteralmente (almeno per ora), una storia estremamente imbarazzante: quella del Pentagono che schiera i carri armati per “proteggere” i giacimenti petroliferi siriani.

Questo è illegale, secondo qualsiasi possibile interpretazione del diritto internazionale, così come lo è la presenza stessa in Siria di truppe statunitensi, che non sono mai state invitate dal governo di Damasco.

Alcuni operatori commerciali del Golfo Persico mi avevano detto che, prima del 2011, la Siria produceva 387.000 barili di petrolio al giorno e che ne vendeva 140.000, equivalenti al 25,1% del PIL di Damasco. Oggi i giacimenti di Omar, al-Shadaddi e Suwayda, nella Siria orientale, non sarebbero in grado di produrre più di 60.000 barili al giorno. In ogni caso, questi sono essenziali per Damasco e per “il popolo siriano” (tanto ammirato nella Beltway), i legittimi proprietari del petrolio.

Le Unità di Protezione Popolare (YPG), per lo più curde, avevano infatti assunto il controllo militare di Deir er-Zor mentre combattevano contro l’ISIS/Daesh. In ogni caso, la maggioranza della popolazione locale è araba sunnita. Non tollererebbe mai nenche l’idea di una lunga dominazione da parte dei Curdi siriani, tanto meno in tandem con un’occupazione americana.

Prima o poi l’esercito siriano arriverà anche lì, con il supporto dell’aeronautica russa. Lo Stato Profondo potrebbe anche farlo, ma Trump, in un anno elettorale, non rischierebbe mai una guerra calda per qualche giacimento petrolifero occupato illegalmente.

Alla fine, il film “morto come un cane” può essere anche visto come la celebrazione di una vittoria e la chiusura di un periodo storico che si trascina fin dal 2011. Quando “ha abbandonato” i Curdi delle forze democratiche siriane, Trump ha seppellito, a tutti gli effetti, la questione del Rojava come Kurdistan siriano indipendente.

In Siria comanda la Russia, su tutti i fronti. La Turchia si è sbarazzata della paranoia del “terrorismo,” del suo dover sempre demonizzare il PYD curdo siriano e il suo braccio armato, lo YPG, come uno spin-off del Partito turco-separatista dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e  questo fatto potrebbe anche aiutare a risolvere la questione dei rifugiati siriani. La Siria è in procinto di recuperare tutto il suo territorio.

Il film “morto come un cane” può anche essere considerato l’eliminazione di una risorsa precedentemente utile, una componente preziosa di quella che continuerà ad essere l’eterna Guerra Globale al Terrore. Altri spaventapasseri ed altri film ci attendono.

 

Link: https://www.asiatimes.com/2-019/10/article/caliph-closure-he-died-like-a-dog/
28.10.2019

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https://www.libreidee.org/

31/10/19

 

La Russia: curiosa, “l’ennesima” uccisione di Al-Baghdadi

 

Sicuri che fosse proprio Abu Bakr Al-Baghdadi, il “cane” terrorista morto in Siria nella notte tra il 26 e il 27 ottobre sotto i colpi del raid statunitense? Se lo domanda su “Asia Times” un reporter come Pepe Escobar, che sospetta si tratti dell’ennesimo spettacolo teatrale offerto dagli Usa, come l’ipotetica eliminazione di Osama Bin Laden, “giustiziato” il 2 maggio 2011 ad Abbottabad in Paskistan senza che al pubblico sia stata mostrato uno straccio di prova dell’accaduto. Idem in questo caso: come per Bin Laden, i resti del capo dell’Isis sarebbero stati prontamente “dispersi in mare”. Secondo fonti siriane – scrive Escobar, in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte” – una voce diffusa a Idlib riferisce che il terrorista ucciso a Barisha «potrebbe essere Abu Mohammad Salama, il leader di Haras al-Din», un sottogruppo minore di “Al-Nusra”, cioè “Al-Qaeda in Siria”. L’isis (Daesh) ha comunque già nominato un successore: Abdullah Qardash, alias Hajji Abdullah al-Afari, anch’egli iracheno ed ex ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein. A non convincere Escobar è la spettacolarizzazione della pretesa fine del capo dello Stato Islamico: «È morto come un cane», si è affrettato a proclamare Trump, brandendone lo scalpo come «l’ultimo, vittorioso trofeo della sua politica estera, prima della rielezione del 2020».

 

Secondo Escobar, la “sceneggiatura” è già stata scritta: il terrorista super-codardo intrappolato in un tunnel senza uscita, otto elicotteri che gli volteggiano sopra la testa, cani che abbaiano nell’oscurità, tre bambini terrorizzati presi come ostaggi. Poi il “codardo” fa esplodere il suo giubbotto imbottito di tritolo, il tunnel crolla e seppellisce anche i bambini. A seguire: una squadra forense preleva i campioni di Dna del Califfo e svolge il suo lavoro a tempo di record. I resti umani, poi sigillati in sacchetti di plastica, confermano: è Al-Baghdadi. Missione compiuta: partono i titoli di coda. «Tutto ciò – scrive Escobar – è accaduto in un complesso a 300 metri dal villaggio di Barisha, a Idlib, nel nord-ovest della Siria, a soli 5 chilometri dal confine tra Siria e Turchia». Il complesso «non esiste più: è stato completamente distrutto, per non farlo diventare un santuario (siriano) di un iracheno rinnegato». Secondo la ricostruzione, il Califfo era già in fuga. A quanto riferisce l’intelligence turca, era arrivato in quella remota contrada solo 48 ore prima del raid. Domanda: cosa ci faceva, l’ipotetico fuggiasco, in una sacca che l’esercito siriano e le forze aeree russe stanno solo aspettando il momento giusto per estinguere?

 

A Idlib, sottolinea Escobar, non c’è praticamente traccia di jihadisti dell’Isis. L’area invece pullula di appartenenti alla formazione Hayat Tahrir al-Sham, precedentemente nota come Jabhat al-Nusra, cioè “Al-Qaeda in Siria”. Tagliagole presentati in Occidente «come “i ribelli moderati”, tra cui le irriducibili brigate turkmene, precedentemente armate dall’intelligence turca». L’unica spiegazione razionale, continua Escobar, è che il Califfo abbia considerato questa zona retrostante Idlib (nei pressi di Barisha e lontana dalla zona di guerra) una via di fuga ideale e poco conosciuta per filarsela in Turchia. E i russi? Sapevano quanto stava accadendo? «La trama si infittisce – annota Escobar – quando esaminiamo la lunga lista dei “ringraziamenti” di Trump per il successo del raid. La Russia è nominata per prima, seguita dalla Siria (presumibilmente i curdi siriani, non Damasco), poi Turchia e Iraq». Il comandante dei curdi siriani, Mazloum Abdi, ha preferito definire il raid «un’operazione storica», resa possibile da un indispensabile input dell’intelligence curdo-siriana. Nella conferenza stampa di Trump, nel corso dei ringraziamenti, la Russia è ritornata al primo posto: con Mosca «grande collaborazione». Davvero? E allora perché il Cremlino ha parlato della “ennesima” uccisione di Al-Baghdadi?

 

Tramite il generale Igor Konashenkov, scrive Escobar, il ministero della difesa russo ha infatti dichiarato di non disporre di «informazioni affidabili su truppe statunitensi che abbiano condotto un’operazione per – testualmente – “l’ennesima” eliminazione dell’ex leader del Daesh, Abu Bakr al-Baghdadi, nella parte controllata dalla Turchia della zona di de-escalation di Idlib». Di più: «Non sappiamo nulla – aggiunge Mosca – di assistenza al volo a velivoli statunitensi nello spazio aereo della zona di de-escalation di Idlib nel corso di questa operazione». Come dire: può essere accaduto di tutto, a nostra insaputa (anche un’esecuzione solo immaginaria, destinata ai media). Secondo gli 007 iracheni, l’ipotetica soffiata sulla presenza del Califfo era arrivata «da un siriano che aveva portato le mogli di due dei fratelli di Baghdadi, Ahmad e Jumah, a Idlib attraverso la Turchia».

 

In nessun modo, sottolinea Escobar, le forze speciali statunitensi avrebbero potuto fare una cosa del genere «senza complesse e coordinate informazioni di parte curda, turca, irachena e siriana», quindi anche con la supervisione o almeno il permesso di Mosca, padrona dei cieli siriani dalla fine del 2016. In ogni caso, aggiunge il reporter, con la notizia della fine del Califfo «il presidente Erdogan realizza un altro capolavoro tattico, facendo la parte del rispettoso, importante alleato della Nato, mentre permette ai resti di Al-Qaeda di rimanere al sicuro a Idlib, sotto lo sguardo attento dell’esercito turco». Sempre secondo Escobar, «esiste una forte possibilità che Isis-Daesh e una miriade di sottogruppi e di varianti di “Al-Qaeda in Siria” possano ora ricongiungersi, dopo la loro separazione nel 2014». Aggiunge il giornalista: «Non vi è alcuna spiegazione plausibile su come Abu Bakr al-Baghdadi abbia per anni potuto godere della libertà di spostarsi avanti e indietro tra Siria e Iraq, eludendo sempre le formidabili capacità di sorveglianza del governo degli Stati Uniti».

 

Una possibile spiegazione la suggerisce Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014): come già lo stesso Bin Laden, Al-Baghdadi (massone) è stato affiliato alla superloggia terrorista “Hathor Pentalpha”, guidata dai Bush. Missione: terremotare il pianeta (stragi, attentati, guerre) per imporre un’agenda sicuritaria (leggi speciali, Patriot Act) e intanto lucrare su armamenti e ricostruzioni post-belliche. Il capo di Al-Qaeda e quello dell’Isis? Due supermassoni occulti, incaricati di scatenare il terrore. Difficile che poi vengano lasciati morire “come cani”, una volta completato il “lavoro”. Ma, al di là delle ricostruzioni contraddittorie e solo in parte attendibili della loro fine, molto mediatica, secondo Magaldi la sostanza è politica: se prima Obama e poi Trump ne annunciano la morte, significa che non ne sentiremo parlare più. Traduzione: l’opzione politica del terrore (Al-Qaeda, Isis) finisce in archivio. Fino a quando? E’ vero che con l’Isis “resuscitò” Al-Qaeda dopo la presunta morte di Bin Laden. Ma ora, scommette Magaldi, è davvero improbabile che un terzo mostro terrorista pilotato dall’Occidente si affacci sulla scena. Motivo? La struttura di potere che partorì i primi due non sarebbe più in grado di replicare lo spettacolo.

 

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