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martedì 12 novembre 2019

 

Iraq, il bagno di sangue dei ragazzi del Tigri

di Enrico Campofreda 

 

Mentre nel Kurdistan iracheno venivano gravemente feriti cinque militari italiani dall’esplosione di uno Ied, a Baghdad prosegue la mattanza della gente. Ieri sei vittime per le strade che dall’inizio delle proteste, il 1° ottobre, raggiungono quota 319 con 15.000 feriti. Immagini d’agenzia al vaglio delle forze dell’ordine mostrano persone in borghese che sparano ad altezza d’uomo, aspetto confermato dai sanitari intervenuti a presta soccorso ai feriti: in genere i colpi d’arma da fuoco mostrano una traiettoria orizzontale, altri fori, quelli degli spari dei cecchini, provengono dall’alto. Il portavoce militare ha affermato che si sta indagando sugli sparatori in borghese, parecchi manifestanti non hanno dubbi: si tratta di elementi infiltrati dalla stessa polizia, visto che agiscono indisturbati al loro fianco. L’intento è diffondere paura e morte, di far rientrare la popolazione nella case, di rilanciare l’insignificante esistenza quotidiana priva non solo di prospettive e lavoro, ma sempre più anche dei generi di necessità primaria, cibo e acqua compresi. Una caduta libera prodotta dai fallimenti dei governi a conduzione sciita, con al-Maliki nel decennio 2005-2014, e ora con la discutibile alleanza fra il chierico Muqtada al-Sadr e Hadi al-Amiri, capo dell’Organizzazione Badr, un organismo più paramilitare che politico. Il tutto maldestramente celato sotto la premiership di Abdul Mahdi, un ex comunista passato negli anni Ottanta all’islamismo khomeinista.

E’ proprio contro la camaleontica casta politica che ha mutato millanta colori e bandiere che protesta da quaranta giorni la cittadinanza irachena, perché essa ha depredato il Paese, giocando sulla divisione etnica e confessionale e lasciandolo in un comatoso abbandono nonostante le invidiabili risorse petrolifere. Queste restano appannaggio dei colossi dell’estrazione mondiale cui gli amministratori statali forniscono contratti e incamerano capitali senza curarsi di reinvestire in opere pubbliche le risorse ricavate. E’ la piaga di tante nazioni controllate da dittature mascherate da democrazie parlamentari, con l’aggiunta per l’Iraq del passaggio dalle manìe di grandezza di Saddam Hussein, procacciatore di disastrosi conflitti, all’invasione “liberatoria” statunitense. Dal conseguente caos, che peraltro la Casa Bianca (non fa differenza se a trazione Repubblicana o Democratica) incentiva da tempo come sua politica strategica nel Medioriente, ne consegue l’ingresso degli interessi più vari: l’egemonia iraniana indirizzata a più realtà regionali e contrapposta a  quella saudita, i piani del sedicente jihadismo prima di Al Qaeda, ora dell’Isis. Quest’ultimo col defunto al-Baghdadi mirava a un insediamento territoriale, il famoso Califfato del Daesh. Tutta questa macropolitica, seminatrice di morte e terrore, si mescola alla conduzione del quotidiano, finora svolto sotto quel disegno o quell’altro padrino-padrone.

 

I ragazzi del 2019 questa realtà la conoscono, ma non l’hanno scelta. Se è per questo non l’hanno scelta e la subiscono anche le famiglie di provenienza, sciite o sunnite poco importa, per non parlare delle minoranze yezide, zoroastriane e spesso pure cristiane. Ovviamente fuorigioco, in tali divisioni confessionali del potere, anche i laici, i kurdi ne sanno qualcosa. Laddove quest’ultimi si sono ricavati, pur sotto ricatti e compromessi della propria locale leadership clanista, un territorio autonomo, il resto è una nazione che non c’è. Tenuta su da una cricca in combutta con l’economia internazionale degli idrocarburi, così le compagnìe occidentali dei petroli fanno affari e la cricca si spartisce i guadagni dello Stato redditiere. Di contro alcune decine di milioni di persone (il censimento del 2015 assegna all’Iraq 37 milioni di abitanti) arrangiano la vita nella sfacelo dintorno. Eppure nei collegamenti diffusi in questi giorni drammatici da network come Bbc e Al Jazeera appaiono scorci anche gioiosi. La gioventù che protesta e crepa tanto somiglia, non solo nei tratti somatici, ai ragazzi conosciuti nelle piazze egiziane e tunisine. Giovani che inseguono il sogno di vivere non di sopravvivere. Già sopravvivono alle carenze strutturali e alle armi da fuoco con cui i clan potentati cercano di stroncarne i palpiti di rinnovamento. Loro corrono, s’agitano, discutono e trovano pure il tempo per suonare un clarinetto. I vecchi e nuovi signori del terrore omologato per ora non li hanno schiacciati. Ma chi aiuta i ragazzi del Tigri a scalzare un potere che vuole perpetuarsi?   

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