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24 giugno 2019

 

SHATILA
di Francesca Borri

 

In piazza dei Martiri, nel centro di Beirut, con 3 dollari ti paghi giusto un caffè. In fondo alla strada, quattro chilometri più a sud, è ancora oggi quello che un palestinese riceve al mese dalle Nazioni Unite.


Shatila è uguale a sempre. Con i suoi 23mila abitanti ancora uno addosso all'altro in queste case dai muri marci in cui, in media, vivono in dieci in 40 metri quadri, uno su cinque che ha una malattia cronica, il 70 percento sotto la soglia di povertà, il 50 percento senza né acqua né gas né elettricità, la fogna che è quel rivolo su cui cammini. E ovunque, questo groviglio di cavi. Cavi di corrente. Quando piove, sembrano stelle filanti. La prima causa di morte non naturale non è la criminalità, qui: è la folgorazione. Si viene uccisi più così che al fronte in Siria. Come sette anni fa. L'ultima volta che sono stata qui. Ed era il 2012. Era ancora la primavera araba. A Damasco, la guerra era ancora una rivoluzione. Sette anni dopo, le capre che rovistano nella spazzatura sono ancora nello stesso punto, davanti allo stesso calzolaio che vende le stesse Nike sfondate, e poco oltre, dal macellaio, si sente ancora lo stesso tanfo di carne avariata. Non è che cemento. L'unico spazio verde, è ancora solo quello dei cimiteri. Con i bambini che ancora si rincorrono tra i vicoli sparandosi con i Kalashnikov di plastica. Ancora giocano a Gaza. 


Eppure, dietro quest'aria stantia in realtà è cambiato tutto. Perché Shatila c'è ancora, sì, e ancora uguale a sempre: ma non ci sono più i palestinesi. 
Sono solo 9mila, ora. Meno della metà della popolazione. 
Uno a uno, sono andati via tutti.
Il memoriale del 1982, di quei tre giorni di settembre in cui i falangisti cristiani, sotto lo sguardo dell'esercito di Ariel Sharon, vennero, e massacrarono tutti, è ancora alla fine della via principale. Ma ora, se non sai dov'è, non lo trovi più. L'ingresso è dietro i banchi dei venditori ambulanti. Dietro un cumulo di felpe e magliette. Sulla lapide, una bottiglia di plastica con dei fiori appassiti. E intorno, i polli del custode che razzolano nell'erba incolta. Tra i rami di un albero, una vecchia bandiera palestinese. Come uno straccio sgualcito finito lì con il vento.


Anche se poi, poco oltre, una donna ancora ti sbuca davanti, all'improvviso: urla che sono alle porte, urla di correre via - fa così da allora. Fu ritrovata sotto i corpi dei fratelli, stuprata sotto lo sguardo del padre. Che morì di infarto. 
Aveva 11 anni.


Quando arrivo, è il 15 maggio. L'anniversario della fondazione di Israele. E per gli arabi, della Nakba. Della catastrofe. Ma anche questo è un giorno come un altro, ormai. A presiedere la commemorazione, come sempre, è Kassem Aina, il direttore di Beit Atfal Assomoud, la prima, e principale, associazione dei rifugiati palestinesi in Libano. Lo seguo salire lento le scale, la schiena curva. Ha 73 anni, adesso, è nato ad Alma nel 1946 - esiste ancora, mi dice: posso andare a sud, e guardarla dal confine. Solo che ora è un kibbutz. Nella sala al primo piano, c'è tutta la scenografia dell'occasione. I ritratti dei martiri appesi al muro, ognuno con sotto la sua kefiah, la al-Aqsa di cartone, un'altra di legno. Arafat. Gerusalemme. Le chiavi di polistirolo simbolo del Ritorno. E c'è, ovviamente, la cooperante europea che domanda a tutti, uno a uno, come può contribuire alla pace in Medio Oriente. Gli unici che mancano, sono i palestinesi. 
Indaffarati nelle cose di sempre. 
"Dicono che se avessimo una casa, e un lavoro, una vita vera, non torneremmo più in Palestina. Accettando Israele. E quindi, non è che il Libano viola i nostri diritti: semplicemente, non abbiamo diritti, qui. Non c'è niente da violare", mi dice Kassem Aina. O meglio. Mi ripete. "Sette anni. Anzi, settanta. E non è cambiato niente", dice. 
"Molte professioni continuano a esserci vietate. Tipo medici, ingegneri. Insegnanti. E per le altre, è necessario un permesso di lavoro. Come se non fossimo rifugiati, ma immigrati. Ed è un permesso che viene rilasciato meno che nell'1 percento dei casi. E quindi, non abbiamo il diritto al lavoro. E né abbiamo il diritto di proprietà, e né, alla fine, all'istruzione, perché l'UNRWA garantisce solo quella di base: poi, all'università, rientriamo nelle quote riservate agli stranieri. Quote limitate". E comunque, perché studiare giurisprudenza, se poi ti è precluso diventare avvocato? Un terzo dei ragazzi si ferma alle elementari. "Se hai vent'anni, qui non ti rimane che impasticcarti tutto il giorno", dice. "O sniffare colla, benzina. Qualsiasi cosa. O unirti ai jihadisti". 
O appunto: andare via. 
Ufficialmente, il Libano ha 450mila palestinesi. Ma secondo l'ultimo, e in realtà, anche primo, conteggio interno, sono 174mila. "Con il pretesto di non dimenticare la Nakba, gli arabi finiscono solo per perpetuarla", dice. 
Sette anni dopo, Kassem Aina è rimasto solo. Sua moglie è morta. 
E le figlie sono una negli Stati Uniti, l'altra in Canada.
Anche tre dei quattro figli di Mahmoud el-Ali sono già all'estero. Ha 62 anni, ed è il direttore di Aidoun, l'associazione per il Ritorno. Un ritorno di cui nessuno parla più. Il suo ufficio è identico a com'era. Mi sembra di essere stata qui ieri. Non una penna fuori posto. E in effetti, anche il libro che mi regala, "la nostra visione del problema", mi dice, "e la nostra strategia", è del 2004: è lo stesso che mi ha regalato sette anni fa. "Non vogliamo i diritti politici. Il voto. Solo i diritti civili. Non incideremo sugli equilibri del Libano", dice - che dal 1989, dalla fine della guerra, si basa su una ferrea ripartizione del potere, e di tutto il resto, tra sunniti, sciiti e cristiani: persino delle convocazioni alle Olimpiadi. E i palestinesi sono tutti sunniti. "Ma vogliamo l'integrazione," dice. Ed è urgente, dice. Altrimenti, spariremo. "Abbiamo una memoria comune, sì. Ma sempre meno un'identità comune. E un'organizzazione comune. Perché dopo quattro generazioni, la verità è che non ci conosciamo neppure più", dice.
"Continuiamo a dire: 'i palestinesi'. Ma essere palestinesi qui è diverso che esserlo a Ramallah, o a Gaza. O in Svezia. O anche, semplicemente, a Beirut invece che a Shatila. E l'OLP non esiste più. Non esistono decisioni collettive. Discussioni collettive. Niente".
In un certo senso, sono già spariti.
Sette, settanta anni dopo, i palestinesi in Libano vivono ancora di elemosina. Gli attivisti stranieri arrivano carichi di medicine, vestiti, giocattoli. Come in Africa. Sono per famiglie come quella di Zeina Abu Jamous, 36 anni e 6 figli. "Viene seguita da Assomoud da quando era piccola", mi dice l'assistente sociale che mi fa da interprete e guida. "Abbiamo iniziato con lei. E ora seguiamo i suoi figli, e anche suo padre", mi dice con orgoglio: mentre a pensarci, è un fallimento. Di generazione in generazione, nessuno qui si affranca dalla miseria. 


Si eredita e trasmette. 
E Shatila è tutta così. Giri insieme ai funzionari delle ONG, ed è una specie di giro turistico, ormai: identico per tutti. Giornalisti, attivisti, cooperanti. Diplomatici. Ripetono a tutti le stesse cose. Ti spiegano il lavoro nero, la povertà, il divieto di costruire, e quindi il sovraffollamento, le faide e gli scontri interni, e poi la droga, e le ragazze che si sposano bambine, e la depressione, i problemi mentali, perché non manca niente, qui: e nel mezzo, ora c'è anche questa torre di cemento a cui si sono dedicati per dieci anni, Hamas, Fatah, le ONG, tutti, tutti insieme, e che è un pozzo, perché a un certo punto, no?, dopo settant'anni non ha più senso aspettare che ti colleghino all'acquedotto: e si sono costruiti un pozzo. Per poi accorgersi che l'acqua, lì sotto, è troppo salata. E comunque, mi dice la mia interprete e guida, nessuno aveva pensato alle tubature. A come distribuire l'acqua - mentre il nostro giro prosegue, e tra una cosa e l'altra, mi racconta dei suoi viaggi, perché stare in una ONG spesso è questo, ora, questo e poco più, è questione di status, questione di frequentare stranieri, e essere invitato a convegni e conferenze: anche se in dieci anni, non hai costruito che un pozzo inutile. Essere palestinesi, ormai, per molti è un mestiere. 
Di tanto in tanto, come devono averle insegnato nei training dell'ONU, mi chiede se ho achieved i miei goals, fulfilled i miei needs. Poi, all'improvviso, si ferma davanti a un barbiere, e si illumina. Mi dice: Ho una storia perfetta per te.


La storia di quello morto in mare mentre cercava di andare in Europa.
Emad al-Hayek aveva 33 anni, e lavorava in un'officina. Lavorava un po', risparmiava un po'. E provava a ripartire. Dalla Turchia. Fino a quando, al quarto tentativo, al largo della Grecia, il gommone non fu respinto dalla guardia costiera, e affondò. Annegarono in dieci, mi racconta ora suo fratello. Anche in questo, non è cambiato niente: era il 2006. Sono cambiate solo le tariffe. Oggi un passaporto contraffatto costa 10mila dollari. Emigrare via mare, invece, è più rischioso, e quindi più economico. Costa 4mila dollari.
Sui muri di Shatila, i numeri dei trafficanti hanno sostituito i ritratti dei martiri.
E ti vergogni, ti vergogni e basta di te e del tuo mestiere, di tutte le tue domande inutili, inutili e sempre uguali, come tutto il resto, qui, mentre stai davanti a Fatimah Khalifa, 28 anni e 3 bambini ancora piccoli, il marito morto in un attentato, all'improvviso. Una sera che rientrava a casa. Ed è esplosa un'autobomba. Mi dice solo: "La vita qui è drammatica", e inizia a singhiozzare. Disperata. C'è solo droga, dice. Droga ovunque. E con i siriani, poi, che in Libano sono circa 1,5 milioni, il 25 percento della popolazione, con i siriani è precipitato tutto, dice. Anche perché noi riceviamo 3 dollari al mese, i siriani 27, e quindi è ovvio che c'è rivalità, dice, ma poi dice: Ecco, siamo a questo. Uno contro l'altro per stare comunque alla fame, dice, mentre dovrei chiederle di Israele, adesso, e della Palestina, e di Hezbollah, di Hamas e Fatah e che senso ha? In questa casa in cui la sola urgenza è sopravvivere?
Sono originari di Jaffa. Ma hanno solo una anziana zia a Gaza. 
"E vedrai che un giorno ci tornerai", prova a confortarla la mia interprete e guida.
"A Gaza?", dice lei. E ricomincia a singhiozzare.
Capisci davvero cosa è Shatila quando incontri quelli che ti preannunciano come "i ragazzi più brillanti". Quelli che nonostante tutto, sono arrivati ai vertici. E mentre ti prepari a un astrofisico, o un artista, forse, o un calciatore, ti bussa alla porta Bilal Afifi, 22 anni. Che studia da infermiere, e si paga la retta suonando la batteria a feste e matrimoni. Ed è straordinario per questo: perché è normale. Il successo, qui, è avere una vita fuori da Shatila. 


Anche se l'università è a 20 minuti da qui. 
E quando gli domandi: Di dove sei?, ormai, come tutti, non ti risponde più: Di Accra, di Haifa, ti risponde: Di Shatila. Come anche, ormai, quando chiedi: Dove vorresti vivere? Perché quando chiedi: Vorresti tornare in Palestina?, come continuano a chiedere tutti, la risposta, è ovvio, è sì. Ma è astratta quanto la domanda. Perché poi invece, se chiedi: Dove vorresti vivere?, la risposta è: L'Europa. O il Giappone, magari, come per Farah Bahr, 20 anni, che studia biologia anche se sa che non potrà mai fare la biologa. E quando le chiedo: Perché il Giappone?, mi dice solo: Perché mi piace. "Come a te il Medio Oriente piace più dell'Italia". 
Ma nasci a Shatila, e resti a Shatila. 
Senza il minimo rapporto con il resto di Beirut.
Sette anni dopo, non importa quanto mondo hai visto, intanto, e quanta guerra, quanta povertà: andare da qui in centro ti colpisce ancora. Gemmayzeh, Mar Mikhael, Saifi, Achrafieh. Sono solo quattro chilometri. Ma è la zona della movida. Dei caffè, degli atelier, delle gallerie d'arte. E sette anni dopo, la sola differenza qui è la Ferrari: che ha traslocato in uno showroom più ampio. Il giovedì sera, vedi ancora solo Porsche, Audi, Mercedes. La Beirut che ti sta intorno fruga nella spazzatura per rompere il digiuno del Ramadan: ma qui essere progressisti significa essere vegani, e ordinare un cappuccino con latte di soia. Adesso come allora, sono tutti bianchi, cristiani, ricchi. Con la domestica filippina che porta fuori il cane. In Libano, il 48 percento della ricchezza è dello 0,3 percento della popolazione. Tutto è spartito tra trenta famiglie - il solo Saad Hariri, il primo ministro, ha un patrimonio di 1,3 miliardi di dollari: più dell'intero bilancio dell'UNRWA. Da cui vivono 5,5 milioni di palestinesi. Sette anni dopo, Beirut ancora non ha trasporto pubblico. Perché non esistono legami reali tra le varie aree. Solo, al più, saltuari.
Sette anni dopo, Beirut ancora non è una città.
Nasci a Shatila, e sei di Shatila. Di Shatila e basta.
Anche i Beirut Souks sono uguali a sempre. Sono il vecchio mercato, finito in macerie durante la guerra. Ma ora, sotto i suoi portici ricostruiti alla perfezione, mattone a mattone, si susseguono i Gucci, i Cartier, i Vuitton: e nella torre dell'orologio, l'orologio è un Rolex. Sette anni dopo, ogni strada qui è ancora presidiata dall'esercito, l'accesso protetto da barriere antiesplosivo. Ma tutti ancora ti dicono che sembra Parigi: come se la ricchezza, e bellezza, di una città fossero solo nella capacità di consumo dei suoi abitanti. E non in quella di vivere insieme. 
In Libano, tutti detestano tutti. Parlano male di tutti. E nessuno si fida di nessuno. La guerra non è stata superata: è stata solo rimossa. Alla Karantina, teatro di una delle stragi peggiori, oggi si balla. Si organizzano i rave. 

Sopra i resti di oltre mille morti.

L'unica cosa che unisce i libanesi, è Israele. L'odio per Israele. Molti sono con Hezbollah: perché senza Israele, dicono, non ci sarebbero problemi. E gli altri, sono contro Israele perché senza Israele, dicono, non ci sarebbe Hezbollah.
Per tutti, comunque, non è Israele. Settant'anni dopo, qui è ancora: L'entità sionista.
Sette anni fa, Hezbollah era in crisi. Con il ritiro di Israele, nel 2000, sembrava avere perso la sua ragione d'essere. Non era più chiamato a combattere, ora, ma a governare. A occuparsi di acqua, elettricità, strade. E in un paese che dall'indipendenza, dal 1943, ha avuto 75 governi. Un paese in cui lo stato, sostanzialmente, non esiste, e larga parte dei servizi pubblici è appaltata a privati. E cioè a parenti e amici - nelle classifiche di Transparency International, il Libano è 143mo su 180. Ma poi, appunto, era il 2012: e la rivoluzione in Siria è diventata una guerra. E nessuno qui ha parlato più di acqua, elettricità, strade: solo di profughi e jihadisti. E Hezbollah è diventato una potenza. Un esercito vero e proprio, un esercito di 20mila uomini, bene addestrati e bene armati. E veterani di molte battaglie. Contro un nemico che è al-Qaeda solo di nome: secondo molti, qui, al-Qaeda in realtà non è che una creazione della CIA.
E ovviamente, di Israele.

Hezbollah ha salvato Assad. Ma è stato anche salvato da Assad. 
Sette anni dopo, Shatila ha le bandiere gialle di sempre, ma non sono più solo quelle di Fatah: ora sono anche quelle di Hezbollah. Che ha il sostegno di tutti i palestinesi. Anche di quelli di sinistra. Quelli per cui la religione dovrebbe essere l'oppio dei popoli. Come Marwan Abdelal, il segretario del PFLP. Il Fronte Popolare. Il cui disappunto è prima di tutto per gli arabi. "Non avere strategie, è una strategia", dice. "Ci usano. Ci usano e basta. Parlano di Israele per non parlare d'altro. Ma poi, a Oslo il diritto al ritorno fu lasciato ai margini", dice. "Perché alla fine, della questione palestinese si occupano tutti. Dei palestinesi nessuno".
Cosa che a rigore, si potrebbe dire anche di Hezbollah. Perché ora è al governo. E per i palestinesi, non è cambiato niente. E ha anche proibito le manifestazioni lungo il confine con Israele. Quelle a cui poi si è ispirata Hamas a Gaza. Perché non voleva rappresaglie. Non voleva guerre. La priorità era, ed è, la Siria. In questo momento, in Libano, e non solo, si parla molto più di Arabia Saudita e Qatar, Turchia ed Egitto, di sunniti e sciiti, che di Israele. Ma per quelli come Marwan Abdelal, la forza di Hezbollah è proprio questa, invece. Il pragmatismo. "Privilegiano la politica all'ideologia", dice. "L'analisi alla retorica. E comunque: se non altro non ci hanno mai attaccato".


A essere palestinesi, si impara a non avere molte pretese.
Vorrebbe tornare in Palestina? Certo, dice. Non importa che siano trascorsi settant'anni. Gli ebrei, in fondo, hanno aspettato 2mila anni. "Ma non voglio tornare in Palestina", specifica. "Voglio che sia la Palestina a tornare".
"O noi o loro", dice.
E tu, vorresti tornare?", chiedo al tassista con cui torno a Shatila. Sua madre è di Hebron. "Ma mio padre è libanese", dice. "Non c'entro niente. Io sono di qui. Di qui e basta".

 

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