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05.04.2019

 

Libia, così il generale punta a diventare il nuovo Gheddafi

di Gian Micalessin

 

Dietro la sortita militare in direzione di Tripoli e l’annunciata intenzione di conquistarla c’è il tentativo d’arrivare da protagonista alla conferenza Onu di Gadames. E venir riconosciuto come l’unico vero uomo forte del paese.

 

Il generale Khalifa Haftar marcia su Tripoli o su Gadames? La domanda divide gli osservatori internazionali presi di sorpresa dalle mosse del generale che dopo aver mandato il suo Esercito Nazionale Libico alla conquista di Garian, 80 chilometri a sud della capitale, annuncia di voler procedere alla conquista di Tripoli. In verità molti ritengono che il Maresciallo punti più semplicemente a conquistare il tavolo di Gadames, l’oasi al confine con Algeria e Tunisia nell’ovest libico dove il 14 aprile prossimo dovrebbe aprirsi la conferenza messa a punto dall’inviato Onu Ghassan Salamè. Durante i tre giorni d’incontri i rappresentanti di oltre 100 fazioni politiche, militari e tribali sono chiamati a discutere un’intesa in grado di portare alla riunificazione del paese.

 

Ma la conferenza è chiaramente un bluff. La maggior parte degli oltre 100 delegati non ha alcun reale peso militare e politico. E soprattutto non ha la forza militare per imporre un’eventuale decisione. Dunque a Gadames rischia di ripetersi la farsa di Shikrat. Lì nel dicembre 2015 la comunità internazionale guidata dall’Onu decise di affidare la riconciliazione libica ad un “Governo di accordo nazionale” che non rappresentava nulla e nessuno.

 

L’icona di questo bluff è l’evanescente premier di Tripoli Fayez Al Serraj, nominato legittimo leader libico dalla comunità internazionale, ma incapace, ancora oggi, di esercitare il suo controllo su Tripoli e sulle milizie da cui dipende per la propria sopravvivenza. Il diviso e rissoso parlamento in esilio di Tobruk che ne contesta l’autorità non gli è da meno. I territori della Cirenaica e del sud su cui pretende di esercitare un peso politico rispondono in verità soltanto al generale Haftar e alla rete di alleanze strette grazie al peso delle sue formazioni armate.

 

Da allora il generale che sogna di diventare il nuovo Gheddafi ha sempre sofferto il mancato riconoscimento del proprio ruolo. A Shikrat, nel dicembre 2015, il governo italiano allora guidato dal Pd e dal premier Paolo Gentiloni lavorò alacremente per ottenere l’emarginazione del generale. La scelta italiana era dettata in primo luogo dalla localizzazione dei propri interessi nazionali. I principali pozzi di petrolio e gas dell’Eni si trovano da sempre in Tripolitania. E dalle spiagge e dai porti della Tripolitania partivano i barconi e i gommoni carichi di migranti messi in mare dai trafficanti di uomini.

 

A Roma serviva dunque il controllo della Tripolitania. Per ottenerlo accettò di appoggiarsi alle milizie jihadiste che controllavano Tripoli ammantandole sotto l’inconsistente patente di legittimità garantita da un governo Serraj riconosciuto dalla comunità internazionale. Da lì il naturale risentimento del generale che, nonostante i successivi incontri e abboccamenti con il ministro dell’interno Marco Minniti ha sviluppato un senso di perenne diffidenza nei confronti dell’azione italiana. Tutto questo ha facilitato l’avvicinamento del generale ad una Francia insofferente per il ruolo esercitato in Libia dall’Italia prima e dopo l’eliminazione di Gheddafi. Ma su Haftar puntano anche l’Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati Arabi decisi a sloggiare da Tripoli le milizie dei Fratelli Musulmani appoggiate da Turchia e Qatar. Più sfumato l’appoggio della Russia che vede nel generale l’unico in grado di tenere in pugno un paese dove Mosca vuole tornare ad avere un ruolo politico ed economico.

Eppure nonostante gli errori di Shikrat a Gadames tutto sembrava destinato a ripetersi. Nella conferenza organizzata dall’inviato dell’Onu Salamè il ruolo e il peso di Haftar rischiavano di venir nuovamente annacquati nel contesto di un dibattito confuso e farraginoso aperto a centinaia di partecipanti. In quel contesto, principalmente politico, il governo di Tripoli e i rappresentanti di Tobruk avrebbero inevitabilmente avuto la meglio. I primi a fiutare e rifiutare la nuova farsa sono stati i sauditi. Non a caso l’attuale offensiva militare è preceduta dalla visita di Haftar in Arabia Saudita e dall’incontro con re Salman dello scorso 27 marzo. 

“Entro due settimane la Libia – annuncia Haftar quattro giorni dopo quella visita - assisterà alla soluzione dell’attuale crisi attraverso la formazione di un governo di unità nazionale”.

 

In quella dichiarazione è racchiusa la tempistica dell’azione concordata da Haftar con i sauditi e il vero obbiettivo dell’avvicinamento delle sue truppe alla capitale. Due settimane è esattamente il tempo che divide la dichiarazione dall’avvio dei lavori di Gadames. Ma le due settimane, diventate poco più di una, sono un tempo esiguo per progettare la conquista di una capitale difesa dalle milizie di Misurata, l’unica vera forza rilevante sullo scenario libico oltre a quella di Haftar. Uno scontro tra l’Esercito Nazionale Libico del generale e le milizie misuratine tempratesi nell’assedio allo Stato Islamico di Sirte si risolverebbe inevitabilmente in un bagno di sangue e in un nuovo insoluto conflitto capace di paralizzare il paese.

La spada di Damocle di quel conflitto è invece l’arma migliore nelle mani del generale per evidenziare il proprio peso e la propria rilevanza e conquistarsi un posto su quel palco di Gadames da cui rischiava di venir escluso.

 

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